1.12.10

LN numero 10.3


È uscito ieri il nuovo numero di LN, il terzo o - leggendo il retro - il quinto numero di quest'anno. Leggendo il retro perché sia il numero 10.2 che il 10.3 risultano numeri doppi.
Ma perché doppi?
Per un curioso fenomeno che, parlando in stile legge di Murphy, si potrebbe definire: «Legge di accumulazione di Email», che recita: «Le dimensioni del nuovo numero crescono proporzionalmente al ritardo nell'uscita», ovvero, ipoteticamente un LN annuale sarebbe di 7-800 pagine, un LN biennale di 2.000, un LN secolare... beh, un'opera di qualche centinaio di volumi per un totale ipotizzabile di 200-300.000.000 di pagine.
Certo, l'attualità delle recensioni risulterebbe compromessa ma la loro quantità sarebbe davvero impressionante : )
Ma, cercando di rimanere seri, si può dire che il vecchio LN in formato 15x19 aveva più o meno 120-130 pagine che corrispondono nel nuovo LN 17x24 a circa 90 pagine.
Questo numero ne conta 158. il 2.10 ne contava 170...
Quindi numero doppio.
In quanto al contenuto... non è facile, né agevole, né raccomandabile, né - in definitiva - consigliabile scegliere determinati articoli, schede o racconti da suggerire ai lettori. C'è una cosa che si chiama «gusto personale» che predilige certi stili o certi approcci ma che è e resta del tutto personale e quindi parzialissimo. Posso dire che, personalmente, ho particolarmente gradito l'articolo di Mario Prisco e quello di Franco Pezzini, le recensioni di S_3ves, il buffo testo di Gordiano Lupi, a cavallo tra il racconto e la recensione, e il racconto di Vittorio Catani, ma si ragiona di sfumature e di pallini personali e nulla più.
In generale, come ho scritto agli abbonati:
«Siamo in ritardo, è vero, ma siamo davvero orgogliosi del numero appena pubblicato».
Orgogliosi, la parola giusta.


27.11.10

Piramidi e ziggurat

Ci sono poche cose più piacevoli per me di un sabato mattina passato in libreria.
Curioso, eh?
Si tratta, probabilmente, della dimostrazione che non ho ancora perso entusiasmo per il mio lavoro.
Che non è poi così scontato. Siamo al secondo anno di seguito in perdita - senza scherzi - e non so bene se sarò ancora qui tra un anno. Ma non lo dico per richiedere aiuti, compassione e possibili contributi. Non è una situazione soltanto mia, ma abbastanza generale, parlando di librai e librerie. Sono a una distanza piuttosto pericolosa dalle nuove, meravigliose librerie di catena tipo la Feltrinelli Express sistemata nell'atrio di Porta Nuova, distante da me al massimo un chilometrozzo malcontato. La libreria dove puoi trovare, penso, più o meno il quadruplo dei libri che ho disponibili qui. Anche se, immagino, non il quadruplo dei titoli. Forse il doppio o una volta e mezzo.
«Perché le librerie di catena sono molto più attente nel selezionare i titoli», dice il mio feltrinelliano superIo.
«Perché se scegliessi i libri soltanto sulla base della loro piatta probabilità di vendita sarei circondato di libri dei quali, onestamente, me ne fregherebbe meno di zero», risponde il mio modesto e scalcinato Ego, per niente normalizzato.
Quindi il sabato mattina arrivo in libreria contento di ritrovare oltre i libri che hanno qualche probabilità di vendita anche quelli per i quali la vendita è soltanto possibile. Libri inutili, temo.
Una distinzione non tanto piccola, questa.
Un libro inutile può essere un capolavoro assoluto e indiscutibile, ma che non è nato nella famiglia giusta. O è nato nella famiglia giusta - Mondadori, Garzanti, Einaudi, Feltrinelli - ma è stato dimenticato, trascurato, vilipeso e schiacciato dalla produzione «seria», ovvero dal mass-market.
Gli orfanelli, sia di malafamiglia, cioé pubblicati da editori poveracci, che di famiglia bene, si possono fiutare senza difficoltà. Hanno il nome dell'autore scritto più piccolo del titolo. per cominciare. Hanno rovesci di copertina che non gridano al miracolo, non tirano in ballo Tolstoi, Flaubert o Crichton, Stivenking e Accapilovecraft. Raccontano modestamente la trama e lasciano intuire una certa possibile o probabile originalità. Hanno copertine dai colori freddi, immagini delicate, font attenti. O copertine ipnoticamente colorate, curiose, stridenti o elusive.
Sono questi i libri che mi affascinano il sabato mattina. In quella oretta libera prima che si facciano vivi i primi clienti. Libri non immancabilmente destinati al dimenticatoio e alla resa a 90 gg. ma che cercano un lettore. Qualche volta può trattarsi di un fiasco, naturalmente, ma in genere si tratta perlomeno di un buon tentativo, di un modo un po' diverso di presentare fatti e personaggi. Sono i libri che mi danno la voglia di continuare a fare questo mestiere, nonostante il momento.
Qualche esempio?
Tre, presi praticamente a caso, Roberto Pazzi, La città volante, Corbo Editore; Jim Crace, Tutto ciò che abbiamo amato, Guanda editore; Paul Collins, Al paese dei libri, Adelphi. Ma sono soltanto tre possibili esempi su migliaia e migliaia che escono tutti gli anni.
Non è un discorso troppo serio, il mio.
Non è una curiosa critica paradossale e non intende suggerire subluminalmente titoli per il Natale.
Semplicemente cerca di spiegare e di spiegarmi perché mai a cinquantacinque anni continuo a vedere i libri come li vedevo a otto anni.
Senza una risposta ragionevole.
Quell'ora di solitudine in libreria la dedico a scegliere alcuni di quei libri, a esporli meglio, a rendere loro un minimo di giustizia. Li dispongo in modo tale che passino sott'occhio ai lettori prima o insieme agli Wilbussmith, ai Brunovvespa, ai Kenfollet, agli Ecoumberti. È possibile che lo sguardo dei lettori li salti tranquillamente - come in effetti accade (quasi) sempre - ma qualche rara volta capita che qualcuno li guardi, li prenda in mano.
Magari che giunga a chiedere informazioni.
A comprarli.
Se fossi circondato di probabili o di sicuri besseller non mi divertirei. Lavorare in una libreria sarebbe una'inutile corvée. Non è per questo che ho iniziato.
«Ma vuoi mica divertirti? Stai lavorando, checcapperi!» Sibila il mio temibile superIo.
Come sempre ha ragione.
D'altro canto, se cercassi di comprare e vendere soltanto besseller non durerei molto, carissimo superIo. Perché accidenti la gente dovrebbe venire fin qui a cercare ciò che può trovare senza fatica in un qualsiasi librificio? Ciò che incombe in artistiche ziggurat e pericolose piramidi librarie come alla Feltrinetti Village di 8 Gallery. Cinquanta vetrine e dieci titoli esposti in sessanta-settante copie ognuno: Brunovvespa ecc. come se piovesse.
Il mio ego sogghigna.
Il temibile superIo ha bisogno almeno di una mezzoretta per elaborare una risposta.
Giusto il tempo per dare un'occhiata in giro.




18.11.10

Giorni di pioggia




Uno dice: «ma per che che cosa mai ha aperto un blog? Per fare che cosa? Per dire che cosa?»
Vero.
Un blog è un diario in pubblico. E quando mai in un diario si parla di libri, lettori, case editrici eccetera? O di libri già scritti o da scrivere?
In un diario si parla di dispiaceri e di gioie. Di soddisfazioni o di dolori. Al limite si parla del tempo, in senso meteorologico. Di cose avvenute o di cose che debbono accadere.
Beh, questa volta farò così. Disserterò di eventi e fenomeni che mi riguardano da vicino.
Parlando di ciò che mi è accaduto e che merita almeno un accenno in questo diario in pubblico, parlerò del mio nuovo cane, ovvero del cane nuovo di mia figlia.
Un affare alto più o meno venti centimetri al garrese, di sesso femminile e quasi del tutto nero - escluse le punte delle zampette, bianche, e una macchia candida sul petto - ancora piuttosto timido ma parecchio curioso e del tutto incapace di sporcare dove le viene indicato.
Il padrone di un cucciolo si riconosce da lontano perché armato di scottex, glassex, alcool, detergenti assortiti per il pavimento di casa - ridotto in uno stato pietoso - e di fazzoletti di carta e sacchetti a perdere per le passeggiate. Passeggiate che debbono calcolarsi sulle funzioni fisiologiche del cane. Quindi ogni 3-4 ore (di giorno). Da notare che generalmente il mio cucciolo, anzi il cucciolo di mia figlia, tiene strenuamente tutto ciò che dovrebbe mollare per depositarlo poi in libreria o in casa. Se sgridato - cosa che avviene sistematicamente, siamo una famiglia prussiana, noialtri - si appollottola in un fagotto fuligginoso con due occhioni che diventano grandi il doppio per risvegliare l'istinto parentale di noialtri scimmioni. Basta dirgli «vabbé, lasciamo correre» perché la trucida ricominci a saltare a mordere i libri alloggiati nei piani bassi della libreria di casa. In casa ha già danneggiato in maniera irreparabile una «Storia della letteratura italiana», vol. IV, UTET editore, e in libreria ha già tentato di deteriorare l'ultimo libro di Umberto Eco. Fortunatamente non c'è riuscita, anche perché non saprei come curare un'aerofagia canina da ingestione. Libri, ma non solo. Praticamente tutto ciò che di incustodito si trovi alla sua altezza diventa sua preda. Mirra (questo è il nome alfieriano appioppatogli da mia figlia), colpevolmente da me degradata a Mira con una «r» sola - ma nome astronomico, a pensarci bene - possiede alcuni oggetti che dovrebbero indurla a rodare i denti senza combinare casini in giro. 5 dinosauri di colori assortiti, un verde, uno arancione, uno giallo, uno viola con spaghino per farglielo penzolare davanti e uno blue. Da notare che i cani i colori li vedono poco.
Un pezzo di una scaffalatura plastica di colore giallo. Nessuno tiene a sapere da dove viene.
Una bottiglietta di minerale vuota.
Due confezioni plastiche che appartennero eoni fa a due pellicole kodak.
Un orsetto di peluche con braccia e gambe fatte con uno spago ritorto.
Un mappamondo (senza asta) di gomma piena che salta esageratamente e che induce il cane a saltare altrettanto esageratamente ma con minor fortuna.
Le mie pantofole e quelle di mia figlia. Abusivamente.
Una chow-chow di tre anni del padrone del negozio accanto al mio.
Il preferito a casa è l'orsetto di peluche.
In libreria è il chow-chow. Grande, grossa e scatenata come lei.
Il cane piace ai clienti della libreria. Almeno a quelli giovani e simpatici.
Ai corrieri che portano libri, agli omoni che ritirano la carta, alle immigrate che puliscono i gradini delle case, che la salutano con frasi e parole che Mir(r)a non capisce. Ancora meno io. Però lei, almeno, scodinzola.
Ma piace anche ai passeggeri dell'autobus che prendo per andare a lavorare.
Alle signore anziane che incontro per strada.
Alle signore più giovani.
Ma soprattutto piace alle ragazze, più o meno carine. Piace da impazzire.
Ho capito che a vent'anni avrei dovuto girare con un cagnino invece che con la mia faccia troppo seria.
Avevo una gatta, prima.
E prima ancora un'altra gatta.
Dio, che signore che erano.
Adesso ho un catastrofico cane (in condominio).
Un curioso apprendistato al mestiere di nonno.



8.11.10

Non leggere




Quali e quanti siano i lettori in Italia più o meno lo sappiamo.
I lettori - di almeno un libro all'anno - sono il 45% della popolazione italiana.
A questi vanno aggiunti un 9-10% della popolazione che nel corso dell'anno hanno «letto» o consultato una guida turistica o un libro di cucina, di falegnameria, di orticoltura oppure hanno letto ciò che loro stessi per primi non considerano un libro. Un «Giallo Mondadori», un «Harlequin» o un «Urania» acquistati in edicola o al supermercato. Curiosa distinzione, questa, evidentemente acquisita anche dal lettore che si declassa e semplice semi-lettore se legge Ellroy o Vinge. Comunque, con variazioni intorno al 2-3% in rapporto agli anni, il numero di lettori in Italia raggiunge il 55%.
Ma proviamo a scavare un pochino, ciò che il libro che sto leggendo in questi giorni - Giovanni Solimine, L'Italia che legge Laterza, 2010 - permette di fare, non solo, ma anche creando e incrociando i possibili percorsi.
L'Italia, purtroppo, è tutto fuorché unita. Parlando unicamente dei lettori in senso statistico, ovvero il famoso 45% di lettori, la loro percentuale è poco sopra il 50% al Nord, sotto il 50% al centro e meno del 40% al Sud e nelle isole, con l'eccezione della Sardegna, al 49,6%.
Non solo, si legge di più nei centri urbani che in provincia. Si legge di più se si è donna (51,6% contro il 38,2% dei maschietti), si legge di più se si è giovani e, infine, si legge di più se:
- Si utilizza il computer
- Si leggono i giornali
- Si ascolta la radio
- Si praticano altre attività culturali come andare al Cinema, a Teatro, alle mostre e nei musei...
e...
- ...Si guarda la TV (anche se non per più di tre ore al giorno).
Si legge poco o niente, viceversa, se l'unico consumo culturale praticato è la TV.
Non perché la TV è oggettivamente nemica della lettura, come detto, ma perché non si è in grado di fruire di altri media più o meno culturali.
I tanto vituperati adolescenti «sempre appiccicati al computer» leggono libri (esclusi gli scolastici) per più del 60%, con una quota che, se generalizzata ci spedirebbe dalle parti dei paesi culturalmente sviluppati, mentre se fosse soltanto per i cinquantenni dirigenti, professionisti o imprenditori staremmo comodamente sotto il 50%...
Ma è possibile?
È ragionevole?
No, evidentemente.
I laureati italiani leggono (molto) meno dei loro colleghi tedeschi o inglesi. «Negli anni successivi all'iscrizione all'albo o all'avvio dell'attività lavorativa, i professionisti cominciano a leggere sempre meno», spiega Solimine. Il motivo? Non immediatamente facile capirlo: la carenza e la povertà delle attività di formazione degli adulti e di aggiornamento professionale.
Come dire che se non si è «obbligati» o indotti a leggere si tende a farlo sempre meno.
In Italia gli imprenditori non investono in formazione: «Solo il 32% delle imprese italiane organizza interventi di formazione in itinere e ci collochiamo per questo al terzultimo posto in Europa, subito (e brillantemente, N.d.R.) prima di Grecia e Bulgaria, ma dietro a Ungheria, Polonia, Romania, Portogallo, Irlanda...»
E questo è soltanto una delle assonanze tra i dati disponibili.
Come il fatto che gli italiani sono in coda alle classifiche europee per quanto riguarda gli acquisti pro capite di libri, sono in coda per l'utilizzo delle biblioteche - i cui stanziamenti sono drasticamente diminuiti negli ultimi anni, in coda nella lettura di testi professionali...
«Alle nostre spalle troviamo solo pochi paesi dell'area meridionale del continente (Grecia, Malta, Portogallo) o molto poveri come Romania e Bulgaria. […] [In più] I dati disponibili sono spesso disomogenei. Per esempio in Italia è considerato «lettore forte» chi legge 12 libri all'anno, mentre in Francia questa qualifica viene attribuita a chi ne legge almeno 20»
Germania e Gran Bretagna ci superano di un 20% (un 65% di lettori).
La Francia di una decina di punti, e si tratta di un paese paragonabile al nostro per numero di abitanti e reddito pro capite.
E, tanto per cancellare eventuali illusioni, è opportuno ricordare che la lettura di libri in formato elettronico - kindle ecc. - totalizza un 5% del fatturato librario americano - che calcolando il prezzo di partenza più basso si può considerare un 10% del totale dei libri venduti - mentre in Italia siamo ai... prefissi telefonici: 0,2-0,3% del mercato.
CHE FARE?
Bella domanda.
Si può cominciare con l'affermare che NESSUNO dei governi degli ultimi 20 anni ha fatto qualcosa per la lettura in Italia. Qualcosa di più è stato fatto a livello di amministrazioni locali, ma non è difficile immaginare che con gli interventi del ministro Tremonti anche quel poco verrà interrotto.
Viceversa servono incentivi alla formazione per adulti, iniziative di sostegno alle biblioteche, una legge sul libro che difenda il sistema di piccole e medie librerie sparse sul territorio nazionale e l'occasione e la possibilità di aprirne in tanti centri attualmente privi di librerie - tenendo conto che la diffusione della lettura viaggia parallelamente alla presenza sul territorio di punti vendita - programmi televisivi in fasce di alto ascolto dedicati ai libri e alla lettura, nuovi sceneggiati televisivi autoprodotti ispirati a saggi storici e a romanzi, biblioteche scolastiche presenti ed affidate a soggetti competenti, iniziative di sostegno alle lettura rivolte ai deboli e medi lettori - un po' sul modello del libro di Salgari a suo tempo regalato dall'amministrazione comunale di Mantova, scuole comunali di educazione alla lettura... E poi mille e mille altre idee che vengono e verranno in mente con il procedere delle iniziative...
La lettura è fondamentale per lo sviluppo di un paese. La lettura, ovvero la cultura.
Senza investimenti in cultura non è difficile immaginare quale sarà il futuro di questo paese.
Senza cultura si è indifesi ed esposti a tutte le mode più futili e idiote, ovviamente, ma soprattutto si è indifesi nei confronti delle bugie di qualsiasi governo che faccia della menzogna la propria condotta quotidiana.
È il caso di fare esempi?
Senza cultura, senza letture le parole perdono il loro significato, si sfaldano, suonano vuote e senza senso, grigie e oscure. Si ha la sensazione di essere tagliati fuori, di non riuscire a comprendere ciò che si muove. Si diventa diffidenti ma senza speranze, confusamente spaventati e aggressivi, vinti senza combattere.
Lasciarci ignoranti è un'attività che occupa profondamente diverse persone.
Non sarebbe il caso di lasciarle senza lavoro?


22.10.10

Agenzie leggibili


Ne ho parlato qualche giorno fa con Davide Mana, un individuo con il quale, secondo fonti (poco) attendibili, intrattengo rapporti che stanno tra l'amicale - con ciò che questo significa nell'Italia berlusconiana - e il concorso a delinquere. Ne ho parlato, dicevo, un po' stupito che non fosse ancora abbastanza noto. Parlo di agenti e agenzie letterarie, ovvero a quei signori che si fanno pagare per leggere le vostre invenzioni letterarie.
E questo è già un punto delicato.
«E perché dovrei mai pagare qualcuno per avere un parere sul mio manoscritto? A me serve che l'agente lo passi a un editore non che mi faccia il compitino dopo una lettura».
Calma. Gli agenti letterari (teoricamente) forniscono un parere sul romanzo per stabilire se merita o meno passarlo a un editore.
«Già. Domani apro un'agenzia letteraria. Premiata Agenzia Letteraria Giuseppe Tubi & Filo Sganga. Raccolgo un duecento manoscritti e taglio la corda con i 100.000 euro tirati su. Già, perché viaggiano intorno ai 500 euro a manoscritto, i nostri, non è vero?»
Beh, 'bastanza.
«Non è che pensi che siano tutti dei tagliagole ma sinceramente penso che il compito di un'agenzia letteraria sia quello di fornire - gratis o a prezzo contenuto - una proposta di collaborazione. Che mi dicano:
1 - Il tuo romanzo fa schifo, sic et simpliciter. Puoi continuare a scrivere, se vuoi, ma sappi che lo fai per cavoli tuoi e non per il popolo affamato di buoni libri. Il prossimo romanzo che mi mandi finirà nello scatolone del riciclo senza nemmeno aprirlo.
2 - beh, il tuo romanzetto non è poi male. Possiamo provare a proporlo a Baldini e Castoldi o a Fazi. Se lo pubblicano tu ci passi un 10% (o un 20% o un 25% o quello che ti pare) dei diritti d'autore e siamo disponibili a leggerti anche i successivi.
Non è così che si fa?»
Innegabilmente.
Nei paesi anglosassoni si fa così.
Qui in Italia non tanto.
Ma in Italia il contratto che lega autore ed editore è diverso.
L'autore, infatti, non rimane il solo proprietario del proprio testo cedendolo a un editore. Non può disporne facilmente cedendone una parte a un'agenzia letteraria. Non può difendere la propria opera da rifacimenti e interventi sul testo. E meno che mai può farlo se non è più tra i vivi.
Trovare un editore non è facile, in sostanza, ma una volta trovato il problema può essere quello di difendersene...
Ovviamente immagino che i contratti che uniscono Stephen King alla Simon & Schuster prevedano gravose clausole in caso di una rottura del contratto da parte dell'autore, ma immagino anche che l'editore si impegni a non modificare in alcun modo il testo previsto dall'autore. E che anche su questo tema, immagino, appaiano gravose clausole.
Ma in Italia non va così.
Ci siamo spostati dalle agenzie agli editori, in sostanza.
La politica delle agenzie letterarie è subalterna a quella degli editori.
Non solo.
Il totale del giro d'affare prodotto dalla vendita di un titolo - diciamo un buon successo, da 100.000 copie, un totale raggiunto da una ventina di libri di autore italiano all'anno- non è sufficiente a nutrire dignitosamente editore, autore ed agenzia letteraria.
Centomila copie vendute a 15 euro cad. rendono all'editore circa 750.000 euro lordi. E all'autore più o meno 75.000 euro (5%, una percentuale comune nell'editoria italiana). Di questa cifra - ragguardevole ma non eccessiva - l'ipotetica agenzia recupera un 10% e ne avrà in totale 7.500 euro. Cifra che non pare granché adeguata a mantenere un certo numero di collaboratori. Una sede. Macchine e strumenti. Un telefono o due. Anche pagando la gente in nero. E i titoli di autore italiano con queste dimensioni di vendita sono, come si diceva, una ventina all'anno. Anche aggiungendo i titoli con vendite medie - tra i 5.000 e i 100.000 - non ce n'é da abbondare, tenendo conto che le agenzie letterarie in Italia sono almeno una cinquantina. In più si deve tenere conto che le vendite di diritti all'estero le agenzie editoriali non riescono - e spesso non possono - essere competitive con gli editori. Sempre che le traduzioni di autori italiani all'estero siano ricercate, elemento tutto da verificare... Il risultato è che le agenzie possono - e riescono - a lavorare decentemente nello scouting dei nuovi autori - beninteso, cercando di difendersi dalle iniziative delle scuole di scrittura creativa.
Sui nuovi possibili autori e soprattutto su coloro che autori non diventeranno mai.
D'altro canto come si fa a rispondere «mappercarità!» a un dirigente d'azienda o a un danaroso professionista decisi a riempirvi le tasche in cambio di un paio di pagine di giudizio? Anche se il soggetto è incapace di usare uno stile che non sia quello di un verbale dei carabinieri e sa raccontare solo (e male) dei suoi amori infelici.
La situazione delle agenzie, in sostanza, non sembra troppo rosea. La necessità di leggere dietro pagamento i nuovi possibili autori appare così una necessità di bilancio, anche se non del tutto gradevole. Che poi uno abbia voglia di gettarsi nella Geenna della lettura-a-pagamento che conduce a un editore di vanità poi all'autorganizzazione di incontri per la presentazione e all'autopromozione del proprio libro presso FNAC e supermercati è parte di un percorso del tutto personale che richiede una psiche robusta e un testo almeno accettabile.
Personalmente non ce la faccio. E non ho soldi. In generale e in particolare.
Quindi risparmio.
E in quanto alle agenzie, beh, esistono.
Ma non c'è molto da stare allegri. Vero Davide?
In ogni caso qui oppure qui ci sono alcune agenzie letterarie più facili da contattare.
E può forse essere utile recarsi sul sito «Il rifugio dell'esordiente». Se non altro per eliminare alcuni nomi.

11.10.10

Alzando lo sguardo


Già.
È un po' di tempo che non parlo di libri, ovvero del mio mestiere.
Ma sono parecchio stufo e ho la sensazione netta di aver già detto praticamente tutto quello che si poteva decentemente dire sull'argomento. La politica sui libri assomiglia tristemente alla vicenda di B., il demente, che ha da tempo finito di sorprenderci.
Comunque sia, provando ad alzare lo sguardo... beh il panorama non è bello.
È in discussione al senato una legge sul libro sinceramente risibile (e anche questo non è certo un record per questo governo), opera del medesimo genio - Ricky Levi - che anni fa escogitò una legge su internet della quale parlai qui. Il fatto che l'on. Levi sia stato eletto nel PD può probabilmente deludere i sostenitori di Prodi & Bersani ma lascia del tutto impassibile il sottoscritto che ha smesso di considerare il PCI e i suoi derivati come un partito di sinistra fin dal 1977. Alla mediocre legge Levi è stato comunque aggiunto un comma che prevede in sostanza la sua totale inutilità. Lo sconto massimo sui libri concesso dalla legge è infatti del 15% (contro il 5% di Francia e Spagna e lo 0% della Germania) ma con la possibilità di condurre campagne di sconto – al 30% di sconto o più – per 11 mesi all'anno, escludendo cioé dicembre.
«E perché dicembre no?»
Tanto valeva comprendere anche dicembre.
Per i nonni amorevoli che regalano libri ai bimbi, per dire. La zie malate. I giovani senza lavoro. I vecchietti soli. La vedove e gli orfani. Prendiamo un libro e ci scriviamo sopra «euro 50», poi lo vendiamo con lo sconto del 60% (Incredibile risparmio! Meraviglioso! Fantastico!) e il nostro lettore potrà tornarsene a casa tutto contento con il suo libro da 10 euro pagato 20.
Gli sconti sui libri, soprattutto quelli proposti dagli editori, sono un modo per prendere per il naso i lettori. L'ho detto e ripetuto ovunque e in tutti i possibili toni. Ma siamo ancora qui. Un libro venduto a 15 euro offerto con lo sconto del 30% è un libro che vale al massimo 10 euro (3 euro al la libreria, 2 al distributore e 5 lordi all'editore) e dovrebbe essere venduto per tutto l'anno a 10 euro, 9,50 in offerta. Punto e basta. Senza prendere in giro nessuno.
Lo sconto sui libri, soprattutto se praticato dalle grandi superfici e dalle librerie di catena, finisce per favorire unicamente pochi titoli già abbondantemente sostenuti dai media. Qualcuno ricorda l'infinita querelle provocata dalla vendita nei supermercati Tesco del settimo Harry Potter a 4 sterline nel dicembre 2008 contro un prezzo di copertina consigliato di 16? La catena di librerie Waterstone's - la cui spregiudicata politica di sconti aveva già provocato la chiusura di migliaia di punti vendita indipendenti - protestò a gran voce ma inutilmente. In omaggio alla politica «liberale» del lassez-faire si lasciò che la consociata inglese di Wall Mart entrasse pesantemente nel settore librario. Il risultato, al di là del vantaggio di posizione e d'immagine acquisito da Tesco, fu uno scontro fra giganti su un titolo ampiamente vendibile, lasciando credere ai lettori che il margine di utile fosse largamente comprimibile. «Tesco avrà ben voluto guadagnarci qualcosa, no?», si saranno molti acquirenti. Conclusione ovviamente errata e che ignora la possibilità di scegliere di compiere un'operazione in perdita per acquisire una posizione di rilievo in una ampia sezione di mercato. Tipo di operazione che è viceversa pane quotidiano per la GDO (grande distribuzione organizzata) che viaggia abitualmente con margini molto bassi ed è pronta a chiudere in perdita su classi di prodotti che intende promuovere per affermare il proprio marchio.
I supermercati e le catene librarie in Italia hanno sconti all'acquisto del 45-50% contro il 30-35% delle librerie indipendenti. Questo spiega largamente il motivo della scelta di una politica interamente basata sullo sconto. ovvero - a ben vedere -su un prezzo artificiosamente elevato ma ampiamente scontabile su una gamma di 200-300 titoli di «sicuro» successo. Il risultato finale sarà, come prevedibile, un mercato reso fortemente distorto in un settore delicato come quello librario.
Pochi editori hanno i mezzi per condurre una simile politica e ben poche librerie. Per gli uni e gli altri l'unica alternativa è la semplice chiusura.
La caccia al best-seller è poi un vero veleno per la qualità media della produzione libraria.
Date un'occhiata ai titoli in uscita.
Sarà per questo che le vendite di libri sono nella migliore ipotesi ferme o addirittura in regresso?
«Ma c'è la crisi»
Certo, vero. E i salari. come cui ha spiegato il centro Studi CGIL sono diminuiti in termini assoluti.
L'unica vera soluzione sarebbe una politica di contenimento dei prezzi. Un libro da 10 euro venduto a 10 euro.
Niente sconti straordinari, niente campagne.
Pochi giorni - tre o quatto all'anno - di sconto straordinario del 10%.
Ma non è questa la politica di lor Signori. Meno che mai quella dell'editore numero uno: Arnoldo Berlusc... pardon, Mondadori editore.
...
Ma molti editori (Marcos y Marcos, Iperborea, Nottetempo, Voland, Instar Libri, Minimum Fax, Fazi, Sellerio, Donzelli, Fanucci, E/O, il Saggiatore, Neri Pozza e centinaia di altri) stanno conducendo una campagna CONTRO questa legge. Insieme a loro librai e autori.
Per ulteriori informazioni, un po' meno brutali delle mie, rimando volentieri al loro sito.


2.10.10

I tempi, le persone


Titolo curioso, ma che non ha nulla a che fare con la realtà quanto piuttosto con ciò che reale non è: la narrazione.
Non è un'aggiunta al quasi-manuale di scrittura creativa pubblicato in queste pagine, ma semplicemente una riflessione ad alta voce che probabilmente non aggiunge nulla a tutto ciò che chi scrive sa già a menadito ma che, nel mio caso, può risultare proficuo.
Piccolissima digressione. Come probabilmente sapete se seguite queste pagine, io scrivo. Per nulla e per nessuno o quasi. Ciononostante chiacchiero dello scrivere, essenzialmente per troppo amore per un mestiere che nella vita non mi è riuscito di fare. Perché è bello parlare di scrittura e di fantasia non tanto per tirarsela (che di cosa mai vorrai poi tirartela tu?) quanto per individuare un nuovo e diverso punto di vista che regali un piccolo brivido e un sottile desiderio davanti a un monitor vuoto con il cursore fermo in alto a sinistra.
Questo chiarito, posso passare al tema. I tempi e le persone.
Circa un anno fa, in vacanza al mare, avevo deciso che dovevo raggiungere una sorta di equilibrio nel mio rapporto con la scrittura. Dopo un ictus - fortunatamente abbastanza leggero - non ero più riuscito a infilare due parole scritte una dietro l'altra. Avevo terminato quasi per inerzia un paio di racconti a suo tempo promessi per una piccola pubblicazione e poi basta. Qualche articolo, questo blog e nulla di più. Ma ricordavo perfettamente come riuscivo a scrivere prima. Nulla di strepitoso, ma qualcosa di vivo e vivace, una discreta possibilità di comunicare e divertire. Nulla in comune alla lentezza balbettante nella quale avevo la sensazione di sguazzare. Per scrivere tre righe una mezz'ora. O anche un'ora o due se mi lasciavo distrarre da un articolo o da qualsiasi altra cosa in internet. Al mare non avevo internet, quindi era il momento giusto.
Scrissi tre o quattro paginette di una storiellina -un po' sfiatata, ma la qualità non mi preoccupava - con per protagonisti tre musicanti e un nobiluomo. Doveva essere divertente, avevo deciso. Spostai i soggetti nello spazio profondo, in un futuro parecchio lontano. Inventai un pianeta leggermente deprimente con un paio di soli (perché soltanto uno?), misi i musicisti a tentare la fortuna suonando per gli indigeni - dei quali faceva parte anche il nobiluomo - gente un po' troppo fissata con la guerra, tanto da campare affittando mercenari per ogni guerricciola che avvenisse nella galassia.
Immaginai una storiellina di venti o trenta pagine, basata sulla mia personale esperienza come musicante ingaggiato in piccoli concerti scalcinati, a suonare per pubblici quantomeno disinteressati.
Tornato a casa continuai la storia. Non era troppo facile ma non mollai. Cominciai a immaginare che gli indigeni, tutti dello stesso sesso, avessero una società simile a quella delle formiche, ovvero una società in qualche modo «naturale» nella quale i ruoli sociali fossero altamente prevedibili da un punto di vista biologico. Continuai a scrivere in uno stile nato per una storia allegrotta. Con qualche situazione buffa, qualche «spassoso» commento tra sè del protagonista al quale era affidato l'unico punto di vista, quello dell'io narrante. Ad aumentare il grado di parzialità del suo punto di vista scelsi il presente come tempo della vicenda. Ma non mi negai la possibilità di inserire qualche sapido commento in veste di narratore onnisciente.
Bene.
Giunto intorno a pagina 20 avevo una voglia spasmodica di bruciare tutto.
Non c'era nulla che andasse come doveva.
Avevo cominciato a far girare i protagonisti per il loro mondo narrativamente nuovo di zecca e il punto di vista continuava a scivolarmi via. Da una prima persona («io guardo") a un indiretto libero volto al passato («Loro guardarono»). E la vicenda si stava maledettamente complicando, tanto da richiedere più pagine.
I tempi e le persone mi stavano sfuggendo di mano.
Non basta.
Per una sorta di perfido contrappasso il nobiluomo aveva qualcosa di buzzatiano, modi curiosamente rarefatti, una residenza a metà tra il castello di Dracula e una caserma dell'imperial-regio esercito austroungarico. C'erano i treni... treni... Ma chi ha mai messo dei treni in un romanzo di sf? La lingua dei miei alieni poi era diventata una fissazione. Da sempre in un romanzo di sf si tira via quando si tratta di mettere in contatto un alieno e un umano o due alieni. Si inventa a bella posta un traduttore universale - del quale il pesce babele di Douglas Adams da infilare in un orecchio è un efficacissima e geniale parodia - e via, tutti si capiscono come nemmeno all'ONU.
Se uno prova a immaginare che il possesso di questo genere di arnesi sia un po' meno diffuso o che non proprio tutti ne abbiano uno - anche semplicemente perché gli umani sono talmente presenti e attivi che ritengono che, come gli americani, siano sempre GLI ALTRI a dover sapere la loro lingua - ecco che si crea un problema della lingua. E una lingua aliena, anche parlata da una specie grossomodo umanoide, quali regole avrà? Come funzionerà? Quale grammatica avrà?
Qual è in media il comportamento della gente nel rapporto con una lingua straniera? Uno che la sa perfettamente è molto raro. Una parte della popolazione la sa abbastanza da imbastire un discorso sia pure con qualche inserimento di vocaboli aborigeni, la maggioranza, infine, sa cose come gudmornin', gudnait, okkei, ollrait e baibai.
Quindi un problema linguistico, inserito per rendere più assurdo e spiazzante il rapporto con un'altra razza, finisce col diventare un elemento drammatico di un certo spessore («che cosa diavolo ha detto?»), oltre che suscitare interrogativi non così banali. Qual è il rapporto profondo che ci lega alla nostra lingua? È possibile, putacaso, una cosa come la neolingua di 1984? Si può «inventare» una lingua e quali sono le sue forme di organizzazione? Può esistere «qualcosa» che non riusciamo a definire se non con una complessa metafora ma che in un'altra lingua esiste?
...Mah.
In più in una razza non umana.
...Mumble, mumble.
Una razza dove la stabilità genetica non è un traguardo definito ma una variante determinata da un frammento di DNA esogeno, un virus - detto velocemente - che innesca variazioni fenotipiche e genotipiche profonde. Tanto che i nostri tre si trovano via via a che fare con alieni sempre differenti.
...
Sono a pagina 60 e qualcosa e il romanzo - perché tale in definitiva sta diventando - viaggia abbastanza filato verso... beh, certamente non verso il racconto comico. Sta diventando un complesso - o forse soltanto complicato - enigma bio-linguistico che ho tutti i dubbi del mondo di riuscire a condurre fino in fondo. Ma ci provo.
Il problema linguistico mi angustia, per dire. Rischio di scrivere un quarto del romanzo in una lingua assolutamente inventata. Su questo come su ognuno dei temi citati sono molto bel accetti suggerimenti e consigli, oltre che proposte bibliografiche.
Di (forse) interessante per chi scrive è la genesi della variazione di senso, di lunghezza e di senso che una variazione di persona e di tempi può imporre.
Sono contento, comunque, mi sia venuta voglia di scriverlo, anche senza nessun possibile o probabile sbocco in termini di pubblicazione.
Ma scrivo per amore, in fondo.



29.9.10

Oro!


È un po' difficile riprendere a scrivere sul questo blog quando si ha la sensazione che le cose stiano correndo troppo velocemente, che la situazione precipiti con una rapidità inattesa.
Esagero?
Me lo auguro.
Ma il problema è la sensazione che ogni giorno le cose slittino senza ritorno verso un gradino più basso.
Provate a ripensare a ciò che riempie i giornali ogni giorno.
Agli insulti a un'etnia o a un popolo, che siano i «porci» romani o i «ladri» Rom.
Alle insinuazioni sul possesso o meno di una casa.
Ai deputati pagati perché passino dall'altra parte.
Alle rovine de L'Aquila che tali rimarranno, a quanto pare, a lungo.
Alla scuola deturpata dai ridicoli simboli leghisti. Detto per inciso la svastica nazista aveva una storia molto più ricca e una grafica decisamente più notevole di un risibile fiorellino da esercizio con il compasso.
Al cemento che avanza, agli omosessuali picchiati, alle donne vendute ai sessanta-settantenni cocainomani, alle tangenti proprie e improprie... e mi fermo qui.
Tutte cose che in altri tempi avrebbero suscitato furiose esistenze, vivaci polemiche, rabbie che sarebbero esplose per le strade e in TV.
Ma non ora.
Ora non più.
Ci abituiamo. Chiniamo la testa.
«Con la testa vuota si annuisce meglio», come ha scritto qualcuno su uno striscione affisso sul retro della facoltà di fisica.
Con la testa vuota, si può aggiungere, e il portafoglio pure.
L'ha scritto di recente l'IRES-Cgil. Negli ultimi dieci anni gli stipendi dei dipendenti sono diminuiti di 5.000 e passa euro.
E così sorge la necessità di fare cassa. Di vendere i beni di famiglia, raggranellando qualcosina per spese impreviste. Vendersi l'oro.
Vicino a dove abito - quartiere di civile abitazione, zona Nizza - hanno aperto di recente tre negozi specializzati nell'acquisto di oro. Tre, in un quadrato di 200 m2 di lato.
L'oro si è molto rivalutato, di recente, causa crisi economica. Commerciare in oro conviene, molto di più di quanto convenga venderlo.
Cosa metterà la gente nei cassetti svuotati, nei piccoli , nascosti anfratti, nei miniscrigni dove conservava l'orologio d'oro ricevuto dal nonno nel giorno della comunione o la collanina ricevuta dalla zia per il proprio compleanno?
Altro denaro che passa di mano, dal moribondo ceto medio alla classe di neofeudatari che ha comprato l'Italia. Coloro che promettono di scacciare i Rom che minacciano i nostri cassetti ormai vuoti, l'oro che non possediamo più.
Quelli che i vecchietti stupidamente indignati per «le nigeriane che salgono sul pullman con la carrozzina» voteranno ancora.
E ancora.
Senza riuscire a capire chi li sta derubando.


6.9.10

Altre letture

L'estate è giudicata un ottimo momento per leggere, e indubbiamente lo è.
Non solo per leggere i libri preferiti ma anche per leggere «quel libro là, che m'incuriosisce ma...», per affrontare «quel librone che non trovo mai il tempo per...» o per gettare un occhio a «quel libro unico, inimitabile, fantastico...» che un conoscente ti ha suggerito di leggere. Libri, libri, ancora libri, quasi da averne le tasche piene. Già, perchè l'estate è anche il momento per girare, vedere luoghi nuovi, fare nuove esperienze e, nel contempo, rinvigorire i rapporti trascurati, dedicare tempo alla famiglia, visitare gli anziani genitori, risentire i parenti e rivedere antichi amici persi di vista.
Totale, il tempo dedicato teoricamente ai libri evapora come l'acqua abbandonata sul fuoco e i libri scelti sono stati - ancora una volta - letti nei ritagli di tempo, trascurando i capolavori e i tomi particolarmente voluminosi e impegnativi per dedicarsi, ancora una volta, ai libri più (volumetricamente) leggeri.
Il risultato è quello che leggerete di seguito, cioé un piccolo concentrato dei miei difetti e delle mie manie.
Uno dei libri che mi ha accompagnato quest'estate è sicuramente un testo curioso e apparentemente troppo limitato di argomento per risultare interessante. Parlo de La purpurea meraviglia, Storia del pomodoro in Italia, Garzanti editore, autore David Gentilcore, eminente storico britannico. E invece nulla di tutto ciò. Come capita spesso nei volumi dedicati alla «microstoria», l'angolatura peculiare permette riflessioni e considerazioni molto più vaste di quanto, teoricamente, consenta l'argomento.
Così, la lettura di questo ottimo volume mi ha permesso di conoscere talune curiose abitudini quotidiane della nobiltà italiana del XVI secolo, apprezzare la bellezza puramente ornamentale delle piante di pomodoro, distinguere i pomodori - o pomidoro o pomidori - dai tomatl, ortaggi andini che poco hanno in comune con i primi, tranne l'origine comune e la confusione creata nella botanica molto poco sistematica dei nostri antenati. Mediante il pomodoro ho potuto conoscere una parte rilevante della storia della pasta e più in generale dell'alimentazione aristocratica e popolana degli ultimi secoli. E chi avrebbe immaginato il difficile rapporto del pensiero fascista con il pomodoro, insieme marinettiana vedura futurista e complice dell'orrore pastasciuttaro? O che il leggendario «Patto d'acciaio» tra Italia fascista e Germania nazista avrebbe potuto comodamente ribattezzarsi «Patto di pomodoro», dal momento che parallelamente venne fissata la quota dei pomodori esportati oltre il Brennero, pari all'incirca al 90% della produzione nazionale. Così fino ad oggi, dove si convive, secondo Citati (e Carletto Petrini) con un pomodoro dall'anima industriale, poco saporito e acquoso, oggetto misterioso di origine cinese. Difficile dare loro del tutto torto, detto di passata. Prima di prendere una posizione in proposito, comunque, è consigliabile leggere questo interessantissimo libro, magari accompagnando la lettura con un piatto di tagliatelle «pomodoro e scalogno» (ricetta originale di Rachele Mussolini) o anche con una semplice insalata di (buoni) pomodori. Buon appetito e buona lettura.
Meno singolare - o forse di più, dipende - il libro di Yang Yi, Un mattino oltre il tempo, fazi editore. In apparenza un libro di autore cinese, probabilmente pubblicato all'estero, dedicato al giorni di Tien An Men. Due studenti di campagna catapultati nella capitale a cercare un'affermazione nella turbinosa Cina contemporanea. Due amici che, iscritti all'università, finiscono per interessarsi troppo a temi e problemi come la democrazia, la libertà di opinione, il futuro del loro paese e, come milioni di loro contemporanei, hanno visto morire ogni speranza in un mattino di giugno.
In apparenza, dicevo, perché il libro è stato scritto in giapponese e ha ricevuto, caso unico nella storia della letteratura nipponica, il premio Akutagawa, un premio vinto, tra gli altri, da Kobo Abe, Murakami Ryu, Oe Kenzaburo, Inoue Yasushi e Yu Miri. Insomma, un romanzo scritto da un'esule che, dalla propria patria di adozione, racconta l'amara disillusione di chi ha sognato una nuova Cina per poi doverla abbandonare, come tanti altri hanno fatto.
Un romanzo scabro, sincero e dotato di una inattesa grazia che lo rende una lettura non solo gradevole ma anche appassionante. Consiglio gli interessati al personaggio (nome reale: Liu Qiao) un passaggio sull'intervista pubblicata sul Japan Times. Ultimissima nota, l'editore italiano riferisce che l'autrice «
-->Inizialmente non conosce nemmeno una parola di giapponese: si appassiona alla lingua ascoltando ripetutamente "una cassetta della cantante Matsuda Seiko, raccolta casualmente all’immondizia». Non c'è motivo per dubitare sull'attendibilità di questa notizia - anche se l'autrice non la cita nel corso dell'intervista - e, in ogni caso, direi che è confermata l'utilità delle canzonette d'amore, se non altro per apprendere una lingua.
Steampunk è un termine che, perlomeno per i lettori di LN, dovrebbe avere un significato chiaro e inoppugnabile. Per chi non fosse lettore di LN riassumerò le caratteristiche del «genere» con queste parole, non mie ma di Davide Mana: «Lo steampunk è una rivisualizzazione del passato, attraverso le percezioni ipertecnologiche del presente». Ovvero: prendete un personaggio-tipo di Jules Verne, dotatelo di un'astronave in versioni art-deco e lanciatelo nello spazio: l'avventura che vi sarà narrata sarà fatalmente steampunk. Un tipo di esercizio che ho condotto anche personalmente con un racconto lungo pubblicato su Fata Morgana 4, «Nuvole» con il titolo «La testa fra le nuvole» firmato da Giulio Maria Artusi. Si trattava, in quel caso, del racconto di un personaggio tipicamente Verniano che incontrava sulla sua strada l'anziano capitano Nemo. Chi fosse interessato a leggerlo potrà scaricarlo da «Visione e letture» nello spazio «Le mie storie».
Il riferimento a me stesso è in realtà un avviso per il lettore. Come dire che non potrà attendere da me una recensione freddamente seria di un libro steampunk. Per quanti difetti possa avere il libro il sottoscritto non potrà non presentare almeno qualche pregio, reale o immaginario...
L'autore è Scott Westerfeld (autore del buon «L'impero di Risen», pubblicato in due volumi negli Urania Mondadori e di «Brutti», un discreto romanzo per adolescenti, pubblicato sempre da Mondadori) e il titolo è Leviathan, Einaudi Stile Libero. Piccola nota, utile dal momento che nel libro l'esistenza del secondo volume compare soltanto in calce (nella postfazione dell'autore), a Leviathan ha fatto seguito Behemoth. Il terzo volume della serie, Goliath, risulta tuttora in corso di scrittura.
Quindi sarà bene prendere nota che inizierete a leggere il libro senza sapere di preciso come andrà a finire la storia. A qualcuno questo darà fastidio, è evidente. Tanto più che Einaudi nasconde il particolare a pagina 400 su 402... Tutto ciò detto, resta il fatto che il libro di Westerfeld è divertente e decisamente godibile. Si tratta di un juvenile, altro particolare da non trascurare, come testimoniato dalle numerose e pregevoli illustrazioni di Keith Thompson e dal fatto che i due protagonisti - il principe Aleksander d'Asburgo e Deryn Sharp dell'aviazione di sua maestà Britannica - sono due adolescenti di 15-16 anni. Le illustrazioni, tra l'altro, giustificano il peso non indifferente del volume, pubblicato su una carta adatta alla stampa di immagini.
L'avventura dei due giovani, ambientata in un Europa «alternativa» di inizio XX secolo, li obbliga a misurarsi con un gravoso compito da adulti e viene condotta separatamente fino a metà circa della vicenda, fino a quando i due non si troveranno loro malgrado uniti nel difendere la pace in un Europa divisa tra potenze Darwiniste e Cigolanti. Domanda: che cosa significano questi due neologismi? La prima - darwinista - rappresenta una forma di sviluppo economico basata sull'ingegneria genetica che permette di creare una raffinata tecnologia su basi biologiche, come è il caso di Gran Bretagna e Francia. «Cigolanti», viceversa, sono tutte le tecnologie metallurgico-meccaniche, sulle quali si basa la tecnologia di Germania e Austria-Ungheria. Questo spiega, tra l'altro, il curioso incontro di Alek e Deryn, il primo alla guida del suo «camminatore» sospinto da motori Daimler e armato di un pezzo da 37 mm e la seconda imbarcata sul dirigibile-balena Leviathan. Alek inseguito dai malefici tedeschi - il posto del villain è ovviamente appannaggio del Kaiser Guglielmo - e Deryn nei panni di un ufficiale apprendista maschio, dal momento che le donne non possono aspirare a un posto in marina. A noi lettori non rimane che attendere l'uscita di Behemoth, ambientato nell'Impero Ottomano, per verificare lo sviluppo della situazione, storica e personale, di Alek e Deryn, oltre che quella di Nora Barlow, protagonista della trilogia, bioingegnere e nipote di Charles Darwin.
Passiamo a tutt'altro tema.
Un terzetto di libri che io non sono minimamente in grado di recensire, ma dei quali parlo volentieri per indurre qualcuno più preparato di me a leggerli e riflettere sulla situazione della cultura attuale in Italia.
I tre libri, editi tutti e tre da Laterza, sono: Alberto Asor Rosa, Il grande silenzio; Giulio Ferroni, Scritture a perdere e Tullio De Mauro, La cultura degli italiani. I primi due pubblicati nel 2010, il terzo pubblicato per la prima volta nel 2005 e recentemente ristampato. Ferroni e Asor Rosa sono docenti di Letteratura Italiana presso l'Università di Roma La Sapienza, mentre il più anziano De Mauro, noto linguista, è stato ministro della (pubblica) istruzione e ha diretto per nove anni la fondazione del comune di Roma «Mondo digitale», fin quando non gli sono state richieste le dimissioni dal sindaco Alemanno. Una vicenda molto laterale rispetto al libro qui presentato ma che merita comunque una piccola diversione.
Ritorniamo al punto.
Tema principale dei libri dei due letterati è lo stato della cultura e il ruolo degli intellettuali nell'Italia berlusconiana. Più mirato sulla produzione letteraria contemporanea il breve libro di Ferroni, più centrato sulla decadenza e la scomparsa del ceto intellettuale in Italia il libro-intervista di Asor Rosa. Come dicevo prima non sono minimamente in grado di esprimere qualcosa di adeguato in merito, posso soltanto consigliare i lettori di leggerli tutti e tre. Anche non di corsa, lasciando passare tempo tra una pagina e l'altra. Il libro di De Mauro perché è affascinante ripercorrere la gioventù e la maturità di uno degli inventori della scienza linguistica in Italia e «leggere» l'Italia e le sue istituzioni di formazione - scuola e università - nel corso degli anni narrate da un protagonista. Ovviamente su alcune cose si scoprirà di non essere d'accordo, ma riflettere su motivazioni e intenzioni di un ministro - e non di una demente sciagurata armata di enormi forbici - si rivelerà estremamente interessante. Non sarà facile dimenticare questa semplice, schietta riflessione sulla situazione attuale di scuola e università: La politica di costoro è dissennata [...] Non credo che possiamo riuscire a convincerli del danno che stanno facendo. Se non riusciamo a liberarci presto di costoro, i danni per la ricerca e l'università li pagheremo per decenni.
Più netto, rabbioso anche se a tratti un po' maliconicamente autoreferenziale il breve saggio di Ferroni. Una rapida rassegna sul panorama della letteratura italiana contemporanea, una narrativa «a perdere», destinata sì a crescere «una letteratura che si moltiplica e contemporaneamente arretra», ma assediata dalla «degradazione del linguaggio e della vita civile».
La rabbia sconfortata di Ferroni si scatena e insiste su alcuni apparenti «fenomeni» del narrare contemporaneo come l'ossessione per il «noir» o il successo di autori come Giordano, Scarpa, Mazzantini. Le recensioni di Ferroni ai loro libri hanno qualcosa di comicamente irato - anche se fatalmente un po' sterile - come le reazioni di un buon insegnante davanti a temi apparentemente ben scritti ma desolatamente vuoti e supponenti. A questi Ferroni contrappone «Qualche strada praticabile, dal racconto all'autofiction», ovvero la frequente (e crescente) disponibilità di antologie: «la forma "breve" del racconto [...] è oggi la più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell'esperienza» e i libri «atipici», come Gomorra di Saviano o La vita bassa di Arbasino.
La conclusione - inevitabile - di Ferroni è che: lo scrittore è qualcuno che appare, e il libro deve prima di tutto saper apparire; in piccolo la società letteraria finisce per riprodurre gli stessi meccanismi in atto nel mondo della politica: anche in essa, ormai [...] viene messo in primo piano chi ha più audience e vende di più.Ho lasciato per ultimo il libro di Alberto Asor Rosa perchè il più complesso e aggiornato - e forse quello a me più vicino - tra i tre presentati. Un appassionante saggio-intervista condotto magistralmente da Simonetta Fiori della redazione de «La Repubblica» in compagnia dell'ultrasettantenne Asor Rosa, immancabilmente polemico come è suo costume e tradizione. 170 pagine che ho letteralmente «divorato» in una sola mattinata di assenza di clienti (dato non nuovo a Torino, di questi tempi), apprendendo la lunga, complessa e tormentosa esperienza di Asor Rosa nella sinistra e poi nel PCI degli anni '60 e '70, inevitabilmente polemico (e rissoso) anche a distanza di anni e anni. Non è molto probabile che al termine della lettura Asor Rosa vi risulti simpatico. In apparenza troppo reciso e liquidatorio nei confronti di pensatori come Zygmunt Bauman o di politici come Achille Occhetto - solo per citarne due di una nutrita schiera - ma anche sincero, nitido e a suo modo audace, come raramente accade.
Tanto per dare un'idea dell'atmosfera del libro, riprendo qui parte della presentazione della Fiori:
(...) All'evoluzione istituzionale, etica, culturale del berlusconismo è dedicata una parte importante dell'intervista, tra la "morte dell'opinione pubblica" e le vulgate dei "nuovi reazionari", il trionfo dell'antintellettualismo e la sostanziale liquidazione della tradizione risorgimentale e resistenziale, l'indifferenza degli eterni "apoti" e il conformismo dei nicodemiti di sempre.
Due libri di narrativa, insoddisfacenti (per me), sia pure per diversi motivi.
L'ultimo libro di Zoran Zivkovic, è stato presentato al pubblico come "Nuovo Borges" (The New York Book Review), dotato della leggerezza di un Calvino (Publishers Weekly), autore di un avvincente thriller che ricorda alla lontana Il nome della rosa, (Nordwest Zeitung), proprio come nei racconti di Kafka (Time out).
Pur se innegabilmente intimorito da un simile fuoco di fila, non nasconderò a coloro che mi leggono che L'ultimo libro è un giallo molto modesto, con un finale pseudofantascientifico sinceramente grottesco e irritante. Narrato in prima persona da un ispettore ultraletterario, si avvale del contributo di un'ovvia libraia - con la quale l'ispettore avrà inevitabilmente una storia - e di alcuni figuranti, defunti compresi. Il nome della rosa può forse venire in mente per via della misteriosa setta di incappucciati che compare a due terzi del libro, ma la vicinanza con Borges è del tutto incomprensibile. Un vero, genuino bidone.
La fortezza della solitudine di Jonathan Lethem è un ottimo romanzo, non ne dubito nemmeno per un attimo. Ma 550 pagine scritte in corpo 10, con interlinea minima e margini disperatamente sottili sono veramente un po' troppo. Sono giunto a pagina 84 - equivalenti a circa 200 di un libro normale o a tre romanzi di Alessandro Baricco - e mi sono arreso.
Ho abbandonato Dylan Ebdus e la sua scassatissima e allucinata famiglia, il quadrilatero di strade dove si sforza di crescere, il ritmo lento, pensoso, onirico e nitido del libro di Lethem con la silenziosa e non infondata speranza di rivederci ancora. Ma per quest'estate basta così.
Passando alle letture di fantastico, delle quali parlerò necessariamente in breve, vista la lunghezza ormai insostenibile di questo post.
Comincerò con un libro che Fanucci offriva al prezzo straordinario di 5 euro per il primo mese dall'uscita. Si tratta di La legge del nove di Terry Goodkind. Potrei limitarmi a riprendere uno dei commenti venuti da parte di un cliente affezionato: «Un simile pacco potevano anche venderlo per 5 eurocentesimi», ma non lo farò. L'ho letto in una settimana. Decente più o meno fino a terzo della vicenda per poi precipitare in un ridicolo sabba di sesso e morte. Più o meno un morto ammazzato a pagina e un ritmo sbrigativo e affannato, come se l'autore avesse dovuto terminare il libro entro una ben precisa data per evitare di trovarsi i cattivi del libro davanti alla porta di casa. Ovviamente inesistenti i personaggi e sinceramente risibile il suo racconto della Terra alternativa, dove i telefonini - come tutto il resto - funzionano grazie a una non meglio specificata magia. Da dimenticare.
Breve nota: Terry Goodkind è l'autore del ciclo della Spada della Verità, ciclo che non ho mai letto (e che non leggerò mai), considerato con stima e considerazione da non pochi lettori di Fantasy. Quindi mi scuso per il trattamento inflitto a Goodkind e al suo romanzo, anche se sottolineo che un giudizio non troppo diverso (opera parassita di altre, con evidenti riferimenti - o debiti - nei confronti di Koontz e Donaldson) si può trovare in rete.
Meritevolissima di lettura l'antologia Controrealtà, a cura di David Hartwell e Kathryn Cramer, 26 racconti di, tra gli altri, Nancy Kress, Terry Bisson, Cory Doctorow, Gardner Dozois, Rudy Rucker, Joe Haldeman, Gregory Benford, Michael Swanwick, Ian MacLeod e Stephen Baxter. 462 pagine di sf pura, a dimostrazione che: 1) la sf è ben viva, 2) il racconto resta una forma di narrazione più che notevole.
Stella doppia 61 Cygni di Hal Clement non è una novità, in nessun possibile senso. Pubblicato nel 1953 negli USA e tradotto da Urania nel 1954 - e riproposto nella collezione Urania a luglio di quest'anno - è un rappresentante di un sf «dura» (ovvero ricca di riferimenti scientifici) amichevole e divertente. Il suo pianeta, un ovoide con tre volte la gravità terrestre all'equatore ma che giunge a un valore pari a settecento «g» ai poli, con per abitanti una sorta di intelligenti aragoste, è animato, in qualche caso spassoso, sempre divertente e istruttivo. Curiosa la scelta, non troppo comune in quegli anni, di affidare il punto di vista principale a un alieno, l'ottimo e brillante comandante Barlennan. Immagino non sia facile ritrovarlo ancora adesso, a settembre già iniziato, ma se vi capita non perdetelo.
Da segnalare, sia pure velocemente, 35 miglia a Birmingham di James Braziel, raffinatissimo e un po' (troppo) steinbekiano romanzo ambientato negli Stati Uniti del prossimo futuro, resi per buona parte praticamente invivibili dalla scomparsa dello strato di ozono. Lettura non esattamente agevole, incentrata sul rapporto irrisolto tra padre e figlio e con una trama piuttosto letargica. Non so se è il caso di consigliarvelo. Anche se... Ma su questo punto ritorneremo.
In questo momento sono impegnato nella lettura di due corposi libri. Uno è il Premio Hugo 2007, Vernon Vinge, con il romanzo Alla fine dell'arcobaleno, il secondo è Anathem di Neal Stephenson, edito da Rizzoli. Stephenson - autore di titoli come Snowcrash, Zodiac, L'era del diamante, Cryptonomicon - ci presenta un affascinante e barocco pianeta - Arbre - dove i rapporti tra scienza e tecnologia sono complessi e indiretti, dove la separazione tra saggi e mistici - gli avout -, che vivono in conventi (i «concenti») e l'umanità comune - i saecular - è reale e profonda. Un romanzo piuttosto complesso (per il momento, intorno a pagina cento, soltanto complicato) con i riferimenti storici, di costume e tradizione, filosofici ed etici che debbono essere afferrati e compresi controllando il formidabile corpus di note storico-linguistiche riportate nella cinquantina o giù di lì di pagine in calce al volume. Non sono sicurissimo di riuscire a terminare, né se riuscirò mai ad arrivare al secondo volume ma sono curiosamente convinto che il libro meriti tanta fatica.
In quanto al libro di Vernon Vinge... Beh, sono arrivato più o meno a metà e ho la sensazione di un libro un po' svitato, assurdo, senza capo né coda, confuso, frammentario, incerto tra un tono allegro e un po' surreale e quello di un thriller acido e freddo. Poi mi è capitato di leggere un interessante dibattito sulla pagina del blog di Urania, dove, per l'appunto si parlava del libro di Vinge e del fatto che l'edizione italiana sia uscita un po' ridotta rispetto a quella originale. Ipotesi che veniva poi confermata - in maniera brusca e urtante - da un intervento di Giuseppe Lippi, direttore di Urania. Per poter uscire in Urania - e poter rimanere nel numero di pagine previsto - i romanzi possono essere decurtati di un 15%, un taglio "non strutturale", ovvero che non riguarda vicende o personaggi, ma soltanto la forma del testo. Come dire che «Rispose agitato», diventa «Rispose» e «Osservò amaramente», si riduce a «Osservò».
Il motivo di questa scelta è che Mondadori vuole mantenere a tutti i costi basso (scusate l'involontario bisticcio di parole) il prezzo della rivista. Preferisco non esprimermi, anche se mi dico perfettamente d'accordo con Vincenzo Oliva nel commento riportato nel suo blog Allontaniamoci da Omelas. Ciò che afferma Iguanajo nel suo blog rende perfettamente il senso di ciò che avviene nel mondo mondadoriano. Credo anch'io che la politica di Mondadori nei confronti della SF rischi di essere suicida. Ma, ahimé, per i lettori italiani al di fuori di Urania rimane ben poco...
Conclusione: ho interrotto la lettura del libro di Vinge. Credo che se l'autore (che NON HA CONFERMATO l'accordo con Mondadori per il tagliuzzamento del suo libro) ha scelto di scrivere «Rispose agitato» e «Osservò amaramente» esista un motivo che ha a che vedere con la natura profonda della narrativa.
...
Per questa volta ho finito.
Finalmente.
Un post troppo lungo, lo so.
Aspetto i vostri commenti. O, meglio, le vostre osservazioni amare.


10.7.10

In pratica




Leggetevi con attenzione queste due pagine di autore anonimo.

La vita di Bianca

Era l'alba; la villa vicino al mare, alla periferia della città marinara, era tutta un trambusto; le luci mattutine erano chiarissime, quasi albine; un leggero strato di neve ricopriva la terra fino alla marina, i fiocchi danzavano una ridda di strani balli in vortici capricciosi. Sembrava un gioco di piccoli esseri fantasmagorici, in una allegorìa gioiosa senza fine. E fu allora che lei nacque, nel bianco candore dell'alba, e per questo Bianca la chiamò sua madre. Due cose influirono sulla sua vita: il segno zodiacale del Sagittario, che le darà sempre nuove attività e risorse, e il nome impostole dalla adorata mamma, che le porterà fortuna e continue aspirazioni. La madre era nobile, discendente da un marchesato della Boemia: colta, fine, bellissima e di squisita sensibilità. Il padre coltissimo, studioso assiduo, commediografo, scrittore e poeta. La piccola Bianca venne alla luce con un lungo acuto strillo di protesta. La sua vita era stata meravigliosa, certamente in conseguenza di tutti questi doni ereditari. Era portata per tutte le arti, ed ogni cosa bella le faceva vibrare le fibre più recondite. Cominciò a recitare nella compagnia paterna già da piccola. Adorava lo studio e il sapere in genere, ogni scienza le piaceva e la attraeva. Leggeva moltissimo. In seguito, assunse la regìa della compagnia paterna e la ritenne per anni: scrisse «Poesie a più voci» come lei chiamò, e fece con esse delle recite in molte città, dove adulti e ragazzi impersonavano: alberi, fiori , statue. Vinse parecchi premi culturali, regionali e nazionali. L'insegnamento era il suo lavoro base, amava stare con i ragazzi, trasmettere loro la sua cultura, il suo entusiasmo, tutta sua carica di vita. Scrisse diversi libri: un romanzo, due canzonieri, novelle, racconti e libri di saggistica. I suoi libri ebbero ottime critiche giornalistiche, la prima stesura di ognuno fu venduta in breve tempo, all'esaurimento. Dipinse e fece alcune mostre. Collaborò col padre che idolatrava, e tutta la sua vita fu colma di un'attività creativa, continuamente rinnovata. Com'è bella la vita, soleva dire e ogni cosa le piaceva immensamente. Non conobbe mai: né noia, né ozio. Le fu conferita l'Onorificenza di Cavaliere Della Repubblica, per tutti i suoi meriti e il suo lavoro; fu nominata Accademico dell'Accademia di Pontzen di Scienze ed Arti…

Non c'è bisogno che vi dica perché l'autore è anonimo. Vi basti sapere che il suo nome di battesimo è Albachiara, in modo da poter cogliere i riferimenti autobiografici.

Volevo creare personalmente alcuni piccoli mostri, ma poi per un caso mi sono trovato davanti un inverosimile libretto stampato a spese dell'autrice e ho scoperto che, come sempre, la realtà supera di gran lunga la fantasia.

Bene cosa c'è che non va nel brano di Albachiara?

Lasciamo perdere il tono ultracompiaciuto, lo snobismo demodé denunciato dai riferimenti, la convinzione ingenua che possano esistere personaggi del genere, la visione esclusiva e ineffabile della sensibilità artistica (un tristissimo autogol, non c'è che dire) e la convinzione che esista un destino, scritto nelle stelle o nelle trippe.

Siamo generosi e facciamo finta anche di non notare l'uso improprio o decisamente strampalato di aggettivi e verbi (i doni ereditari... l'allegoria giocosa e senza fine... l'Accademico dell'Accademia... la ritenne per anni... venduta all'esaurimento). Già che ci siamo tiriamo dritto anche davanti all'uso della punteggiatura. La punteggiatura è spesso un problema di sensibilità personale e quindi sì faccia finta di niente.

E la concordanza dei verbi?"
Già, vero. Virare dal passato remoto al futuro è un'operazione che strappa un ohibò anche al lettore più ottuso. Ma sorvoliamo.

La cosa più interessante è la scelta degli strumenti utilizzati per colpire il lettore.

Essenzialmente:

La ripetizione.

La scansione.

L'elencazione.


Strumenti importanti ed efficaci, come vedremo, ma qui utilizzati in maniera sciagurata.


La ripetizione

La ripetizione è uno strumento potentissimo per l'evocazione. Ma perché funzioni dev'essere discreta. Generalmente l'autore accorto dosa con attenzione l'effetto per aggirare l'attenzione del lettore, facendo scattare alcuni meccanismi inconsci. All'uopo vi rimando a Edgar Allan Poe, maestro dell'angoscia insinuante basata sulla ripetizione.

Incipit della “Caduta della Casa degli Usher"

Per un'intera buia, uggiosa e silenziosa giornata d'autunno, in cui le nuvole gravavano basse nei cieli, avevo attraversato da solo, a cavallo, un tratto di campagna insolitamente tetro; e mi ero trovato infine, quando già si addensavano le ombre della sera, in vista della malinconica Casa Usher. Non so come avvenne, ma, appena scorsi l'edificio,. un senso di insopportabile tristezza invase il mio spirito. Dico insopportabile, perché non era alleviato da alcuno di quei sentimenti quasi piacevoli, perché poetici, con cui lo spirito solitamente accoglie anche le più austere immagini naturali di desolazione e terrore. Contemplai la scena che avevo di fronte, la casa disadorna, lo spoglio paesaggio della tenuta, le squallide mura, le finestre come occhi vacui, i pochi rigogliosi falaschi, e i pochi bianchi tronchi di alberi infraciditi, con un'assoluta depressione d'animo che non posso paragonare propriamente ad altra sensazione terrena che al risveglio dell'oppiomane dai suoi sogni, al suo amaro ritorno alla vita di ogni giorno, all'orrenda caduta del velo. C'era una gelidezza, un affondamento, un'affezione del cuore. un'irredimibile oppressione del pensiero che nessuno stimolo dell'immaginazione avrebbe potuto stravolgere in qualcosa di sublime.


Forse per la sensibilità moderna un attacco tanto plateale risulta eccessivo, ma in fondo il lettore altro non chiede che di essere terrorizzato per benino e quindi attua, come dice U.Eco, una sospensione di giudizio nell'attesa di un bello spavento. Poe inanella in poche righe: «Buia, uggiosa, silenziosa.. nuvole gravavano basse... tetro... ombre della sera.., malinconica... desolazione e terrore... occhi vacui... orrenda caduta del velo... gelidezza... oppressione.» Ma non utilizza mai un sinonimo vero e proprio, si avvale di metafore, perifrasi, rimandi, formule letterarie e insinua nel vostro candido cuoricino almeno una parte dell'ansia del protagonista.

Cosa fa invece Albachiara?

Scrive: "Villa vicino al mare, alla periferia della città marinara." E, dopo un incipit tanto rassicurante - sia pure con ripetizione - , attacca col suo maledetto candore:

«chiarissime, quasi albine... neve... fiocchi.. bianco candore dell'alba (sic)... Boemia [come il cristallo, furbetta l'Albachiara]... la piccola Bianca»

Credo che questo eccesso di candore sia almeno in parte inconscio, (è questa la differenza fondamentale tra un dilettante e un professionista, l'essere consci del mezzo scrittura) e che la manovra narrativa di Albachiara risponda allo scopo di evocare nel lettore una sensazione di pulizia, pace interiore, gioia e felicità. Ma essendo i suoi strumenti primitivi e abboracciati non passa l'esame nel lettore accorto, reso già diffidente dal titolo.

Passiamo alla scansione.

I ritorni a capo.

Baricco ne fa un uso tecnicamente sapiente (anche se resta un impostore). Rileggetevi la paginetta di «Seta». In generale il dominio dei ritorni a capo è, per ovvi motivi, il dialogo. Per spezzare il discorso frequentemente dovete avere delle ottime ragioni: una scena molto movimentata, qualcosa di estremamente urgente da comunicare (cautela, il messaggio dev'essere urgente per tutti e non solo per voi), un intento burlesco o satirico (cfr. "Tre uomini in barca"), la mimesi o la parodia, il discorso indiretto/diretto (tornate a Salinger). Se nessuna di queste condizioni è vera il lettore può trarre due conclusioni:

1) L'autore vuole farmi fesso.

2) L'autore non ha voglia di lavorare e cerca di cavarsela con poche frasi a effetto.

Il caso 1 corrisponde alla perfezione al Baricco da Seta e ai suoi ritorni a capo da Capitan Spaventa.

Il caso 2 è invece quello di Albachiara, alla quale non frega un tubo raccontare della giovinezza e della maturità del suo personaggio. Infatti sbriga la sua vita in una facciata per arrivare infine alla sospirata senilità. I frequenti ritorni a capo in questo caso funzionano come i riassunti delle puntate precedenti letti a rotta di collo dalle annunciatrici RAI , quando c'erano ancora gli sceneggiati TV di Anton Giulio Maiano e di Sandro Bolchi. In casi come questi è meglio lasciar perdere e cominciare «in media re». Avrete tutto il tempo del romanzo per spiegare vita, gesta e glorie del vostro personaggio, sempre che ne valga la pena.

L'elencazione

Così elenca Stefano Benni da «Elianto»:

INVENTARIO DELLA VALIGIA CHE EBENEZER SNOBERUS SINFERRU PREPARO' PER IL VIAGGIO NEI MONDI ALTEREI.

Un costume d'angelo completo con parrucca e e ali di vera piuma di cigno.

Un dentifricio con spazzolino.

Un arricciacoda.

Una scatola di lucido per corna «Wild Deer».

Dodici preservativi.

Un pigiama.

Un altimetro.

Uno spaventacroccoli.

Una macchina fotografica e dodici rollini.

Un vocabolario diavolo-angelese e angel-diavolese.

Una motocicletta da cross.

Pinne.

Occhiali e boccaglio.

Un chilo e mezzo di brillantina alla menta.

Una cerbottana con frecce al curaro.

Cime tempestose di Emily Brontë.

Tre paia di mutande con buco caudale.

Toppe di caucciù per le ali.

Due mazzi di carte da poker.

Guanti da saldatore.

Metà della bravura di Benni consiste nella capacità di di costruire elenchi assurdi e insieme rivelatori. Benni di nasconde altrettante storie non raccontate, abitudini, passioni, gusti, interessi, sogni, rimpianti e probabilmente tutte le storie che non avrà mai il tempo per raccontare. Negli elenchi di Benni si riflette tutta la inconcepibile varietà e diversità del mondo. Gli autori surrealisti - André Breton, Boris Vian - avevano una vera passione per gli elenchi e ne costruivano, a cavallo tra prosa e poesia, di fenomenali, godendosi l'effetto straniante e irresistibile di accostare materiali e oggetti - astratti e concreti - non soltanto antitetici ma anche incongrui, assurdi e inattesi. Stendendo un elenco si può sperimentare l'ampiezza semantica del linguaggio e la potenza evocativa della parola. Insieme alla poesia e all'invenzione di nomi e luoghi - l'onomastica - è uno dei piaceri più genuini e meravigliosamente infantili del narrare.

Ritornando ad Albachiara, possiamo dedicare ancora un po' di attenzione ai suoi elenchi:

«Padre coltissimo, studioso assiduo, commediografo, scrittore e poeta... Alberi, fiori, statue... Premi culturali nazionali e regionali... Un romanzo, due canzonieri, novelle, racconti e libri di saggistica...»

L'elenco di Albachiara ha i tristi connotati di un inventario di beni pignorabili steso da un ufficiale giudiziario o, in alternativa, il tono impersonale di un messaggio personale pubblicato «vendo poco usato motorino 75 cc con marmitta al cromovanadio...»

E perché mai?

Essenzialmente perché Albachiara non ha nessun feeling con la lingua che utilizza. La sua prima preoccupazione è quella di stupire il lettore e suscitare ammirazione nei confronti dell'autrice, sforzandosi di riprodurre lo stile di una stagione letteraria tramontata (Liala, certo, ma anche il D'Annunzio più ovvio e dozzinale).

RIASSUMENDO

Ripetizione, scansione ed elencazione sono attrezzi fondamentali. Da utilizzare con attenzione e sensibilità, resistendo al desiderio di mostrare la ricchezza del proprio lessico e la propria finissima sensibilità...

*** attenzione ***

Il manuale - a volerlo chiamare così - continua a cura di Silvia Treves (abbiamo lavorato insieme nel seminario), nel suo blog Esercizi di Dubbio. Da non perdere il suo ricco contributo sul tema del dialogo! Leggerlo e piangere su ciò che avete scritto sarà tutt'uno... Non perdetelo per nulla al mondo!