31.5.08

Ubiq, l'imperatore Ming e i giovani

A leggere le opinioni altrui nel corso di una discussione in un forum o in un blog non si perde (quasi mai) tempo.
Anche se tali opinioni sono non solo significativamente diverse dalle nostre ma anche poco articolate, esposte aggressivamente e non del tutto oneste. Quando qualcuno esprime un'opinione su una cosa qualunque fatalmente si espone ed esprime il suo «esser-ci» (mi dispiace scomodare Heidegger, ma il suo concetto di dasein è proprio quello che ci vuole in questo caso), illuminando miracolosamente anche il nostro.
Un momento, però.
Non sono un santo, anzi.
Quindi un'opinione che sia stata esposta in maniera rozza e brutale e sia poco motivata e di dubbia onestà intellettuale mi manda su tutte le furie, come accade a chiunque.
Per un tempo variabile tra i dieci minuti e la mezza giornata resto di cattivo umore e mi ingegno a escogitare immaginarie risposte umilianti, sferzanti e risolutive. Poi, se ho il buon senso di aspettare, mi vengono in mente risposte d'altro genere, fondate sui motivi che hanno spinto un mio simile a sparare a zero su qualcuno o qualcosa.
La bontà non esiste, esistono soltanto gradi diversi di curiosità.
Questa riflessione è nata dalla frequentazione e dalla co-gestione con Davide Mana e con altri soggetti che sarebbero stati ritenuti interessanti dai frenologi ottocenteschi del blog ALIA Evolution. Lì è avvenuto un fattaccio, colpevole in primo luogo Davide e complici tutti noi.
Il fattaccio è un post piuttosto divertente che affronta il tema del marketing in campo letterario.
Già, il tema dell'intervento non è il fantasy, non è il romanzo al centro del progetto e non è l'autrice di esso, ma semplicemente il marketing. Davide, suscitando una volta di più la mia invidia, da osservatore attento e critico qual è ha colto in un fenomeno apparente (l'emergere di autrici giovanissime) il suo senso profondo:« [il marketing] è l' arte e la scienza di individuare, creare e fornire valore per soddisfare le esigenze di un mercato di riferimento».
Si parla di economia, insomma, ovvero di politiche aziendali.
L'esistenza fisica di un'autrice e di un libro sono inessenziali alla discussione.
Ma non è stato così per i molti lettori che hanno bombardato il blog ALIA Evolution di contumelie, minacce, sarcasmi, anatemi, fischi, pernacchie, bucce di patate e pomodori marci.
«Parlate di un libro senza averlo letto!» È stata l'accusa più rovente e inferocita.
Accusa che anche l'autrice, peraltro, ha lanciato a inidentificati «appassionati» dalle pagine de «Il venerdì di Repubblica», nel corso di un'intervista-marchettone imbarazzante per concezione e sviluppo.
Inutile spiegare alla turba inferocita che non si poteva logicamente parlare di un libro non ancora letto e che, quindi, la critica riguardava esclusivamente la politica aziendale di promozione al libro stesso.
Inutile perché si voleva, evidentemente, leggere nei nostri interventi la malevolenza - se non l'invidia - di chi non pubblica fantasy con Einaudi, non viene intervistato da «La Repubblica» e, soprattutto, non ha più 17 anni da un bel po'.
In più, probabilmente, si ravvisava la spocchia intellettuale di chi «disprezza» il fantasy in quanto genere letterario. Insomma, siamo stati intesi come i soliti radical-chic, odiosi, snob e con l'aggravante del livore invidioso.
A colpirmi - beninteso dopo una riflessione lunghetta - soprattutto il tono di assoluta partigianeria degli interventi, in tutto e per tutto degni di un forum politico o calcistico. A colpirmi ancora di più l'evidente difficoltà di molti dei nostri interlocutori a cogliere l'obiettivo reale del contributo di Davide. Il fatto di essere oggetto di una politica di marketing ed essere «target», ovvero il bersaglio di tale politica non veniva compreso e non provocava quindi nessuna reazione, nemmeno qualche legittima perplessità.
Si parlano linguaggi diversi, insomma, e non si condivide nemmeno il quadro di riferimento.
Un passo indietro.
Forse per uno come me far parte di un target è inaccettabile mentre per molti altri, soprattutto giovani, non è così. Ci sono abituati fin da bambini.
Possibile, ma non abbastanza risolutivo.
Forse l'incapacità pura e semplice di discutere secondo categorie razionali, potendo oltretutto abbandonarsi all'aggressività gratuita e fracassona che l'anonimato di avatar e nicknames permette.
Possibile, ma parziale.
No, il discorso potrebbe essere un altro.
Strazzulla, l'autrice del libro, è un simbolo. Un'icona. Un modello. Un segno di riscatto.
È la diciassettenne - la vergine simbolica ed eterna - che sfida il mondo logorato e materialista dei maggiorenni e vince.
La virtù riconosciuta e premiata.
Il riscatto che i giovani - proprio perché semplicisticamente ritenuti scemi, faciloni, schiavi di mode futili e telecomandati dallo star-system - aspettavano. Un segno, insomma, qualcosa che noialtri - senescenti, cinici e crudeli come l'Imperatore Ming - non siamo nemmeno riusciti a riconoscere.
Cacchio.
Ho sempre desiderato di fare la parte del cattivo.
Mao Zedong avrebbe parlato di «contraddizione in seno al popolo».
I giovani a dire: «Vecchio caprone» e i non giovani a dire: «Giovane babbeo»
Ma, un momento...
Se è così vuol dire che siamo finiti in un loop.
Come in «Ubiq» di Philip Dick non riusciamo a uscire dal sogno che qualcun altro - molto prosaicamente l'ufficio marketing di Einaudi - sta sognando per noi. Dobbiamo combattere a favore (o contro) la minorenne «definitiva» per sempre alle soglie dell'età adulta, proprio com'è scritto e sottinteso nel copione e nella promozione mediatica.
Ah, diabolici post-einaudiani.
Ma sarà almeno lecito dire: «abbiamo scoperto il vostro gioco!», sperando che tutto intorno a noi non cominci a decadere.

28.5.08

Da dove arrivano i libri?

Tempo fa sul sul blog ALIA Evolution è iniziata una discussione molto animata e vivace che prendeva le mosse dalla pubblicazione del «primo fantasy pubblicato da Einaudi», ovvero il libro di Chiara Strazzulla, Gli eroi del crepuscolo. Lungi da me il desiderio di riprendere tale discussione in questa sede. Piuttosto, dal momento che nel corso della discussione sono emersi in più occasioni deficiti di conoscenza in merito al funzionamento del settore editoriale librario proverò a delineare (rozzamente e a grandi linee) come funziona la distribuzione libraria in Italia. Un tema che, come vedremo, ha riflessi e aspetti che vanno ben oltre i banali aspetti economici e distributivi.
Partiamo da un o degli elementi centrali del libro, perlomeno da un punto di vista economico: il prezzo di copertina.
Come si valuta il prezzo di copertina di un libro, ovvero come si stabilisce se un libro è costoso o meno? E quali sono le voci che contribuiscono a formarlo?
Il criterio più ovvio e entro certi limiti più corretto è quello del costo/pagina. Un rapporto che risente tuttavia di alcune variabili direttamente derivate dalla composizione interna dei costi. Un libro illustrato - quindi con carta lucida più costosa -, copertina rigida (l'Hard-cover dell'editoria di lingua inglese) scritto, curato o soltanto firmato da un personaggio celebre avrà un prezzo /pagina nettamente più alto di un volume fuori diritti (I Tre Moschettieri, per esempio), stampato su carta di qualità mediocre e copertina di cartoncino.
Altro elemento importante la tiratura, ovvero la suddivisione su un più grande numero di copie di un investimento invariabile.
Informazioni banali, che avrebbe potuto fare anche il capitano La Palisse.
Ma sul prezzo di copertina dei libri ritornerò più avanti e con un post interamente dedicato a questo tema.
Il valore fisico dei materiali impiegati, in ogni caso, ha un'incidenza proporzionalmente molto bassa sul costo di un libro.
E sicuramente è un po' meno banale osservare che la parte più cospicua del prezzo di copertina di un libro non è determinata né dal costo dei materiali, né dai diritti d'autore, né dal margine lordo dell'editore ma dal costo della distribuzione.
Qui è utile fare una prima distinzione.
Esistono editori che gestiscono l'intera filiera del libro, dalla tipografia alla promozione alla distribuzione fino alla libreria: Gruppo Mondadori (Mondadori, Einaudi, Sperling & Kupfer ecc.) e Gruppo RCS (Rizzoli, Bompiani, Fabbri ecc.) e editori che debbono affidarsi a società terze per la promozione e la distribuzione (Laterza, Bollati Boringhieri, Il Saggiatore e tutti gli editori medi e medio-piccoli).
Esistono infine editori che a vario titolo sfuggono a questa bipartizione. Gli uni (Feltrinelli) per proprie peculiarità organizzativo-distributive (tipografia e rete commerciale propria, oltre alla propria catena libraria ) altri (Longanesi, Garzanti, Guanda, Vallardi ecc.) che a suo tempo sono stati assorbiti dalla principale società distributiva italiana: Messaggerie Libri e per i quali valgono diverse dinamiche; altri ancora, infine (DeAgostini - Utet), che sono infime propaggini di holding finanziarie che operano principalmente in settori economici completamente diversi.
Rimanendo nell'ambito dei due gruppi prima citati (Gruppi editorial-distributivi e Editori «puri»), se i primi hanno l'evidente vantaggio - e ovviamente anche i costi relativi - di poter controllare l'intero ciclo economico del libro, i secondi sono invece costretti a delegare alla società di promozione il contatto con la rete di rivenditori sul territorio e al distributore la consegna e i resi dei titoli e il controllo dei crediti.
Osservazione interessante: entrambe le modalità di distribuzione implicano, per motivi diversi, il ricorso alla sovrapproduzione, ovvero all'inflazione di titoli prodotti. Nel primo caso - al di là delle strategie di marketing che pure hanno il loro peso - semplicemente per motivi di utilizzo ottimale del personale e delle attrezzature (tecnicamente: «ammortizzazione»). Nel secondo perché è relativamente facile che un editore si trovi ben presto indebitato con il distributore, dal momento che ha ricevuto in forma di anticipo i pagamenti relativi a un pool di titoli («giro», nel gergo). Nel caso (tutt'altro che improbabile) di resi superiori alla media e in assenza di un best-seller, si troverà ben presto costretto ad aumentare il volume delle uscite per poter preservare la propria struttura editoriale e con essa la propria autonomia. Ovviamente l'«aumento del volume delle uscite» non può che essere computato in termini di quantità di titoli pubblicati, dal momento che la quantità di pezzi assorbiti dalla rete dei rivenditori non è una variabile determinata dall'editore.
Il destino degli editori che non riescono a tenere il ritmo? Presto detto: essere assorbiti dalla società di distribuzione e sopravvivere esclusivamente in forma di marchio editoriale.
La sorte, per esempio, della storica Editrice Nord.
A complicare le cose il fatto che anche i grandi gruppi editoriali del primo gruppo (Mondadori, Rizzoli) possono a loro volta essere distributori di editori cosiddetti «terzi» Fanucci, Alet, Editoriale Scienza, Codice ecc. Inutile dire che esito probabile di questa terzietà può essere la fine dell'editore in quanto entità autonoma.
Risultato finale è quindi l'esistenza di alcuni Grandi Gruppi editorial-distributivi (Mondadori, Rizzoli, Messaggerie Libri), di un numero limitato - e a rischio sopravvivenza - di editori «medi» e di una pletora di piccoli e piccolissimi editori a distribuzione locale o privi di distribuzione.
Inutile dire, con un panorama di questo genere, quali siano gli editori che riescono ad accedere alla grande distribuzione (nota: la società che organizza la distribuzione nelle grandi superfici ovvero Ipermercati ecc. - Mach 2 - è di proprietà, tra gli altri, di Messaggerie Libri, Gruppo Mondadori e Gruppo RCS) e alle grandi librerie di catena (Feltrinelli, FNAC ecc.).
Ma ritorniamo alla composizione del prezzo di copertina.
Per gli editori «distribuiti» da terzi - ovvero per la maggioranza di essi - si può stimare che una percentuale del 50-55% sua destinata alla distribuzione (25-30% alla libreria + 20% al distributore+ 5% alla società di promozione), un 5-10% all'autore (ovviamente in rapporto al suo peso contrattuale) e il resto (tra il 35 e il 40%) alla casa editrice.
Il rischio commerciale, tuttavia, come le copie gratuite e gli eventuali sovrasconti concessi dalla società di promozione alla rete di rivenditori è interamente a carico della casa editrice. Rischio commerciale aggravato dal fatto che senza concedere sconti dissennati (dal 40% in sù) un medio editore nelle grandi catene librarie non entra.
Magari non è una cosa che commuova, d'accordo, ma certamente dovrebbe allarmare tutti i forti lettori. Infatti spiega piuttosto bene perché gradualmente le case editrici indipendenti vengano assorbite dai grandi gruppi editorial-distributivi.
Come conseguenza diretta o collaterale tendono a scomparire anche le librerie indipendenti, sulle quali ricade un'altra quota consistente di rischio.
L'eventuale sconto concesso dal libraio indipendente, infatti, è - a meno non si tratti di campagne promozionali promosse dall'editore - interamente a suo carico. E anche nel caso di campagne promozionali («tutti i tascabili XYZ allo sconto del 30%») tali campagne sono almeno in parte sostenute economicamente dalle librerie. Facile per le grandi catene che hanno margini di tutt'altro genere, molto meno per le librerie indipendenti.
E, detto di passata, le campagne promozionali sono le prime colpevoli nel mantenere elevato il prezzo medio di molte collane economiche. Già, perché molti si esaltano a vedere scritto «sconto del 30%» per un mese mentre non si rendono conto di 1 euro medio in meno per tutto l'anno.
«Sì, ma come arrivano i libri in libreria?».
Beh, questa è la necessaria premessa.
Come vedremo tutto il resto verrà di conseguenza.

P.S. Questo post esce in contemporanea anche sul blog ALIA Evolution.

27.5.08

Lei coltiva fiori bianchi

Venerdì 30, ore 21.00 alla libreria CS di V. Ormea 69 presentiamo il libro di Consolata Lanza: Lei coltiva fiori bianchi.
Tre racconti lunghi per raccontare le vite di Bea e di Gloria. Due donne come tante che si incontrano in uno strano giardino. La prima, giovane, vive di speranze e tenaci illusioni, la seconda, ormai matura, ha fatto della sua rinuncia a esse il proprio stile di vita.
Inevitabilmente si specchiano e si confrontano.
Si sentono vicine, ma soltanto per un attimo.
Molte delle cose che ci accadono hanno la semplice, terribile bellezza di un attimo.
Silvia Treves parlerà del libro e farà qualche domanda all'autrice.
E come sempre l'autrice sarà simpaticamente evasiva.
Ma noi le vogliamo bene lo stesso.
L'attrice Francesca Rizzotti ne leggerà alcuni brani.
Francesca è brava, quindi ci si appassionerà e si applaudiranno autrice e attrice.
Ci faremo firmare le nostre copie del libro e poi si tirerà tardi con dolcetti e vino.
Non è un brutto programma, penso.
Vi aspettiamo.
Venerdì 30, ore 21.00, V. Ormea 69.

26.5.08

A che cosa serve un editore? Capitolo 10

Tutti noi lettori abbiamo una volta o l'altra utilizzato un catalogo editoriale per cercare un particolare autore o un particolare titolo e nella nostra ricerca ci è sicuramente capitato di osservarne la peculiare struttura.
I cataloghi editoriali hanno oltre all'organizzazione «orizzontale» ovvero per autore e titolo e «verticale», ossia per fascia di prezzo, un terzo tipo di organizzazione, quello per collana.
La collana ha nei cataloghi di alcuni editori (Einaudi, Adelphi, Bollati Boringhieri) un evidente rilievo. In altri è quasi inapparente o del tutto assente.
Qual è la funzione di collana e come nasce?
A voler essere polemici, a questo punto bisognerebbe chiedersi: «Come nasceva una collana?».
Infatti una collana in senso proprio comporta la designazione di un curatore, un progetto editoriale a lunga scadenza e un obiettivo artistico o civile.
Di nuove collane in libreria ne escono, anche se non più numerose e feconde come un tempo, ma più che di collane si tratta di gruppi di titoli ad affinità attentamente controllata, accomunati da un logo e con un ben preciso target. Vale la pena di citarne due di nascita relativamente recente: Mondadori Strade Blu, nata sulla scia dal successo di Einaudi Stile Libero. Tutte e due collane
che puntano esattamente allo stesso pubblico: un pubblico che, scimmiottando gli uffici marketing potrei definire così: «giovane metropolitano con studi medio-alti, molto attento ai fenomeni culturali e di costume, desideroso di apparire anticonformista e appagato dall'anticonformismo (più apparente che reale) esibito dal logo e che gli permette di non rinunciare al proprio approccio gregario alla lettura».
È proprio nella metamorfosi e nella tendenziale scomparsa del concetto di «collana» che si constata il definitivo ingresso del concetto di target nel
mondo editoriale.
Che differenza c'è tra una collana e un logo?
Semplice. Una collana nasce da una convinzione, un progetto o un sogno e potenzialmente ha come pubblico l'intero bacino dei lettori.
Un logo punta invece dichiaratamente a una frazione ben definita di esso e nasce da un progetto di marketing e da un calcolo commerciale.
Nessun anatema in proposito, sappiamo bene in che mondo viviamo.
Questo non significa ovviamente che una collana in senso proprio non debba preoccuparsi dell'esito commerciale dei propri titoli. Il risultato economico - anche se oggi meno di un tempo
- è l'unico termometro affidabile dell'andamento del progetto e del gradimento dei lettori.
Oggi meno di un tempo, ho detto, perché lo scalino della distribuzione nazionale è diventato ultimamente molto più alto. La diffusione delle grandi librerie di catena a scapito della rete diffusa di librerie indipendenti sparse sul territorio ha come immediato riflesso sul piccolo e medio editore la necessità di concedere condizioni di sconto molte elevate per poter accedere alle librerie di catena. Trattandosi di editori di proposta è però evidente che non avranno praticamente mai una produzione pensata per un pubblico molto ampio. Questo genere di editore non lavora sul mass-market. Si ritroverà quindi molto presto praticamente escluso dal circuito di distribuzione maggiore pur essendosi dissanguato a concedere sconti molto superiori a quelli richiesti dalla rete delle librerie indipendenti.
In sostanza l'affermarsi del concetto di logo, supportato dalla potenza economico-distributiva dei grandi gruppi editoriali, determina - e non si limita a confermare - la nascita di gruppi definitivamente separati di lettori, in possesso di un linguaggio e di riferimenti comuni che, mentre riconfermano al gruppo l'immagine autopercepita, allontanano da esso gli altri lettori. Non è quindi un caso che, a differenza delle collane intese in senso classico, in questi raggruppamenti di testi uniti dalla loro attitudine a soddisfare comunque le attese del lettore possano trovare posto titoli anche molto lontani per tema, genere e ispirazione. Il neo-noir accostato al fantasy o al reportage di costume, al romanzo erotico a bassa intensità o all'horror metropolitano. Ciò che molti di questi titoli hanno in comune è un'indefinita aura raffinatamente pseudo-trasgressiva e post-narrativa («ti racconto questa storia cruda, selvaggia e brutale ma tanto noi due, che siamo dei gran fighi, sappiamo che non va presa troppo sul serio»), che sostanzialmente irride il lettore semplicemente appassionato.
L'affermazione della collana-logo non è un problema poi tanto piccolo per un tipo di impresa - l'impresa editoriale - nata con lo scopo di fornire strumenti unitari di analisi della realtà all'insieme dei cittadini, oltre che una lingua ricca e articolata. Ancor più è un problema per l'autore non in sintonia con questo genere di percezione della narrazione. Quando Sandrone Dazieri della Mondadori afferma: «Non è vero che gli editori non leggono i manoscritti. Li leggono. E se un autore vale, viene pubblicato», trascura di sottolineare che tale scelta non viene compiuta a partire da un giudizio di reale valore del manoscritto quanto - nella migliore delle ipotesi - da una cernita alla ricerca di testi adatti a incarnare la filosofia del marketing aziendale. È quindi opportuno, se si aspira a pubblicare con Einaudi Stile Libero o con Mondadori Strade Blu, tenere presente l'opportunità di scegliere temi e approcci marginali ma «esotici» e la necessità di colorire la vicenda narrata con un sottile sentore di deja-vù che strizzi l'occhio al lettore, rassicurandolo che non si sta facendo sul serio, nemmeno se si racconta di immigrazione, violenza alle donne, oppressione politica o olocausto.
Ma non si tratta, come potrebbe sembrare della «leggerezza» teorizzata da Calvino, ma di calcolata inoffensività.
Voi ne siete capaci?
Io immodestamente no.

23.5.08

Una poesia

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perchè rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perchè mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perchè non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me e non c'era rimasto nessuno a protestare.

Bertolt Brecht



21.5.08

Premio Peano a CS_libri

Se come autore non sono questo granché ed è quindi normale che in fatto di premi razzoli poco, non avevo mai pensato, nemmeno nei miei sogni più lussuriosamente narcisistici, di beccare un premio in quanto editore.
Invece è successo.
Davvero.
Non mi sto inventando tutto.
Ma a che titolo prende un premio un editore, mi chiedo - visto che non me l'ero mai chiesto prima?
Perché, immagino, ha visto giusto. Ha trovato gli autori giusti che hanno scritto il libro giusto.
«Sì, ma il merito è degli autori, in sostanza».
È quello che penso anch'io. Né più né meno.
Gli autori si chiamano: Rudy D'Alembert (alias Rodolfo Clerico), Piotr Silverbramhs (alias Piero Fabbri) e Alice Riddle (alias Francesca Ortenzio). Tutti e tre insieme hanno scritto Rudi Simmetrie, un volume nato dalla lunga attività di pubblicazione della rivista telematica o e-zine dei Rudi Mathematici.
È bene chiarire che in matematica, al liceo, non ero particolarmente brillante. Capire, capivo, ma ero (e sono) catastrofico nel calcolo. Righe saltate, numeri trascritti male, disordine, caos. Ma non il glorioso Caos delle nuove matematiche, piuttosto un caos tapino, pasticcione, casalingo e per nulla trendy.
Ho conosciuto i Rudi Mathematici attraverso la mediazione di Raffaele Niro, poeta e uomo saggio ma appassionato (non ce ne sono molti in giro, meglio segnalare i pochi che lo sono) e ho cominciato a ricevere la e-zine per e-mail.
Quando si è introdotti in un «giro» ci si attende fatalmente linguaggi ermetici, piccoli snobismi, codici per iniziati e autostima al limite superiore dell'asticella. Ecco, i RM sono l'esatto contrario di questo genere di «giri». Sono aperti, disponibili, simpatici ma anche rigorosi, curiosi e parzialmente svitati, in omaggio alla prevenzione esistente che chi capisce la matematica deve essere per forza un po' strano.
A conquistarmi fin dall'inizio le e-mail che accompagnavano la rivista. Che la presentavano, è vero, ma che soprattutto ne anticipavano l'approccio - divertito, irriverente, erudito senza spocchia e talvolta soavemente maligno.
Nella rivista in sé - viste le mie problematiche competenze matematiche - non sono praticamente mai avanzato oltre l'articolo iniziale, in genere dedicato alla storia della matematica. Ma mi accontento, e ne ho motivo. Per quelli come me soggiornare nell'anticamera della Scienza è già un bel soggiornare.
Sto facendo promozione?
No. Sono sincero fino all'ultima virgoletta.
Quando ci è arrivata la proposta di pubblicarli - sia pure in una tiratura da biglietto d'invito per la festa di un teen-ager - non abbiamo avuto molti dubbi.
Non sono passato al pluralia maiestatis.
Semplicemente CS_libri non sono (soltanto) io, ma siamo almeno in tre. Uno dei quali (non io) padroneggia abbastanza la matematica da distinguere un'equazione da una schedina del totocalcio. Più altri collaboratori estemporanei, volontari o occasionali, curiosi esseri contenti di dare una mano a creare qualcosa.
Strano di questi tempi, vero?
I «nostri tre», comunque, sono stati recentemente arruolati da Le Scienze per tenere una rubrica di matematica ricreativa & divulgativa e stanno scrivendo un prossimo libro che uscirà ancora con CS_libri.
Ne ho visto le bozze qualche giorno fa. Di sfuggita perchè sono state subite requisite dall'esperta matematica. «Promette di essere anche meglio del precedente», ha detto l'esperta. E io ho annuito con fare sicuro, cercando di dare l'idea che se fosse stato peggiore sicuramente me ne sarei accorto.
Tutti noi di CS_libri, comunque, e io per primo - visto che il blog è a nome mio - ringraziamo i «nostri» autori (frase che trovo già in sé incredibilmente divertente) per aver scritto qualcosa di tanto importante e significativo da prendere un premio anche a nome di noi tutti.
Continuate così, ragazzi.

La caccia

Così tra poco in Italia per essere colpevoli di qualcosa sarà sufficiente essere stranieri senza permesso di soggiorno. Magari che lavorano - come badanti, per dire - ma senza permesso.
Bella notizia. Che fa il paio con la frettolosa pulizia di Napoli a seguito della visita del governo.
A quando gli aerei spostati da un aeroporto all'altro per convincere il Cavaliere della potenza della nostra armata aerea?
Intanto l'Europa ci considera con il sospetto e il disgusto che si dedica a un parente sgradevole, pericoloso e mentalmente malato.
Ma la cosa non preoccupa gran parte dei nostri concittadini che se vanno all'estero è solo per ritrovarsi in altrettante Rimini sul Mar Rosso o sull'Oceano Indiano.
Chissenefrega dell'Europa?
Ma con questa Europa dobbiamo lavorare tutti. E risulta difficile vendere qualcosa a qualcuno se quel qualcuno pensa che sei ladro e bastardo: «forte coi deboli e debole coi forti», ovvero spietato con i rom e sottomesso alla camorra, come ha detto una deputata olandese (liberale, mica comunista) al Parlamento europeo.
Calma, calma. È soltanto propaganda.
Soltanto propaganda.
Le parole sono pietre, è stato detto. Ma le parole hanno corso inflattivo in Italia.
E intanto chi dovrebbe preoccuparsi del nostro grado di civiltà (la sinistra ultraparlamentare) balbetta e scevera pietosi distinguo, preoccupata innanzitutto di continuare a essere opposizione ombra.
Ma io non sono un notista politica o di attualità. Me l'hanno fatto giustamente notare.
Quindi affronterò il problema secondo i miei strumenti, ovvero come uno che scrive. E scrive - tra l'altro - fantascienza e fantastico.
Traslare la situazione italiana in fantascienza è facile.
Può uscirne un discreto racconto o anche un romanzo.
Come si fa in ambito sf si prende una tendenza - la xenofobia divenuta legge dello stato - e la si sviluppa.
«Se essere stranieri è reato e se qualunque cittadino può contribuire al mantenimento dell'ordine pubblico, le “ronde” potrebbero diventare altrettanti gruppi di cacciatori»

Luogo: imbrunire, piazzale di fabbrica in disuso. Personaggi: Luca, produttore d'auto, Andrea, Co.Co.Co. in un'agenzia pubblicitaria, Goran, ex-sottufficiale proveniente dai reparti speciali di Milosevic e amico personale di Gianni, taxista e caporonda. Sono armati e la battuta avviene utilizzando un paio di SUV corazzati di proprietà di Gianni e di Luca. Hanno una decalcomania sul cofano. Sembrerebbe una specie di croce, ma per via della la scarsa luce non è facile descriverla. La benzina costa 5 euro al litro, ma Gianni ha la possibilità di acquistarla a prezzo agevolato in quanto taxista. Nella zona sono segnalati gruppi di stranieri illegali, fuggiti da una manifattura chiusa dalla polizia perché dava lavoro a immigrati clandestini. Dopo la chiusura alcuni lavoratori stranieri sono rimasti imprigionati nel sotterraneo dove dormivano. I poliziotti non li hanno trovati e qualche giorno dopo sono riusciti a scappare. Ma li hanno visti un paio di pensionati che vivono lungo la gora che passa dietro l'ex-parcheggio della fabbrica e hanno telefonato alle Ronde. Pensano che la polizia sia troppo morbida con gli stranieri. Gianni fuma seduto al posto di guida, Andrea è nervoso: è la sua prima caccia. Spara a un gatto che corre in fondo al piazzale. Lo manca. Il rumore del colpo fa abbaiare tutti i cani della zona. «Stai a cuccia, pistola. Così fai scappare la selvaggina. » Dice Goran.

La fantascienza funziona così.
Quando è buona ti porta dove non vuoi andare e ti dice quello che non vuoi sentire.
Personalmente non credo avrò voglia di scrivere davvero il racconto. Mi basta sapere che non è troppo lontano dalla realtà.

16.5.08

È morto Jurij Druzhnikov

La notizia è del 16 di questo mese.
Morto all'età di 75 anni, in California.
Dove risiedeva non in quanto appassionato della West Coast ma perché fuggito dall'URSS per evitare la condanna al manicomio criminale. Druzhnikov era scrittore - uno dei migliori scrittori russi del XX secolo - ma era stato espulso dall'Unione Scrittori Sovietici perché dissidente. Faceva circolare i suoi lavori, tra i quali Angeli sulla punta di uno spillo, in forma di samizdat, ovvero di ciclostilato.
L'ho letto e posso dire che si trattava di un grande scrittore. Della razza sempre più rara che riesce a raccontare nello stesso libro le piccole storie quotidiane e la Grande Storia di noi tutti.
Mi ha sempre colpito che il regime sovietico avesse una così grande paura dei libri.
Dei giornali, dei media è comprensibile.
Di internet magari, se l'URSS fosse sopravvissuta fino a oggi, come ne ha paura il regime cinese.
Ma dei libri?
Libri di narrativa. Narrativa raffinata e intelligente come quella di Druzhnikov, oltretutto.
Mi viene in mente una cosa. Tanto strana che non sono nemmeno certo di poterla sottoscrivere io stesso.
Ma la dico ugualmente.
I capi del defunto PKUS era gente che proveniva da una struttura - il Partito Comunista - che aveva nel suo «corredo genetico» il rispetto e la considerazione per la letteratura.
Anche la paura, se era il caso.
Gente che conosceva il potere della parola e che, conoscendolo, ne diffidava.
Che veniva dritta dritta da un altro secolo ed era figlia - sicuramente degenere - del pensiero illuminista, marxista, razionale e progressivo dell'Europa dell'Ottocento.
La dittatura ha significato, come per tutte le dittature, il dominio dei mediocri, delle spie, dei servi sciocchi che impediscono qualsiasi forma autonoma di espressione. Il vero nome della ditturata è «stupidità pianificata».
Ma adesso non ci sarebbe e non c'è più bisogno di manicomi criminali. Né in Russia né qui.
Basta il silenzio. L'impossibilità di essere pubblicati, distribuiti, letti e commentati.
La censura del mercato è più sufficiente.
«Ma noi abbiamo Saviano», dirà qualcuno.
Va bene. Abbiamo Saviano, rispondo io.
Mi deve bastare? Vi basta Saviano?
A me non basta.
Meno che mai mi basta la palude di narcisismo, piccolo calcolo, miseria morale e stupidità vanesia nella quale è affondata la letteratura italiana.
Rimpiango Druzhnikov perché era un laico.
Era ironico ma pietoso, sarcastico ma comprensivo, tagliente ma addolorato.
Ed era un grande scrittore.
Tutto qui.

Commissario alla questione ebraica. Cioé, volevo dire Rom



Il pensiero totalitario ha molte facce ma un solo fondamentale precetto, solido come la roccia. Propugnare e attuare soluzioni facili a problemi complessi. Affermare che l'immigrazione e i fenomeni di intolleranza sociale che ne derivano - più evidenti in un paese come l'Italia, dalla tradizione civile rudimentale - siano un problema ampio e complesso non credo sia opinabile. A questi problemi «il popolo» risponde con l'assalto ai campi Rom, «giustificato» da un episodio equivoco (il tentato rapimento di un neonato) che sembra nato da quell'armamentario di irrazionali pregiudizi razziali che l'occidente si trascina dietro dai tempi della caduta dell'Impero romano. La stessa palude dove è stato ripescato l'apocrifo «Protocollo dei savi anziani di Sion», per capirci. Convinzioni irrazionali, quindi solidissime. Curiose per un antropologo ma agghiaccianti quando diventano regola di condotta quotidiana. I Rom sono titolari di una colpa collettiva? Tutti ladri, rapinatori, stupratori? Più di mezzo milione di Rom sono morti nei campi di sterminio nazisti in quanto individui «asociali», criminali per diritto di nascita. La tutela dell'ordine pubblico e della tranquillità piccolo borghese fu la giustificazione agli arresti e alle deportazioni. Niente dilettanteschi roghi di campi nomadi. Un'organizzazione attenta e precisa, piuttosto, la pulizia etnica che elimina il problema eliminando prima socialmente e poi fisicamente i soggetti che lo costituiscono.
«Il popolo lo vuole».
La cattiva coscienza politica si nutre di questo genere di alibi. Si rinuncia a intervenire sul disagio - costoso e inutile, si dice - per poi urlare allo stupro sociale. Si rimuove il problema salvo stupirsi che qualcuno tra quelli che sono nati e vivono in condizioni di assoluto degrado rubino e rapinino. Qualche volta violentino e uccidano.
E la cosiddetta sinistra di questo paese (il paese dove è nato il fascismo, sarà un caso?) che si affretta a ricalcare le orme della destra. A seguirla, accompagnarla, confortarla, sostenerla. Anche quando si inventano i Commissari ai Rom, una trovata che suscita inquietudine a partire dal nome.
Ma sarebbe impopolare difendere i Rom, direbbe il nostro caro ometto, il nostro pacato Veltroni, capo dell'opposizione-ombra.
È vero. Anche criticare l'impresa d'Etiopia sarebbe stato impopolare.
E noi non vogliamo essere impopolari. Vogliamo che il popolo ci voglia bene. Ci voti, ci sostenga.
Emesso qualche ruttino e qualche borborigmo sull'intolleranza razziale che dilaga corriamo dal Cavaliere a farci dettare i suoi desideri e le sue concessioni.
Se ha ancora un senso parlare di sinistra, direi che il suo principale compito è quello di essere, in questo momento, impopolare. Controcorrente, tenacemente attaccata a qualche principio ormai vecchio e desueto. Come l'assurdità del concetto della responsabilità collettiva di un popolo. O come la necessità di creare condizioni di vita adeguate per tutti - italiani e stranieri - per prevenire fenomeni criminali.
Ma non è aria e non è tempo.
Viviamo in un paese in caduta libera da un punto di vista civile, culturale ed economico.
Spero di rileggere questo post tra qualche tempo con l'imbarazzo di chi teme di avere esagerato. Ma non è una speranza troppo viva.
La pigrizia, l'abitudine, l'età mi impediscono di prendere seriamente in considerazione la possibilità di andarmene, ma è una possibilità che da ora in poi ho ben presente.

14.5.08

La lunga agonia del fantastico (un altro chiodo nella bara)

N.B. Questa è una delle recensioni che usciranno sul prossimo numero di LN-LibriNuovi, il 46. Tra qualche giorno verrà pubblicata anche sul sito della rivista LN. La anticipo qui perché ho affrontato spesso nel mio blog sia il tema del racconto che quello del fantastico e questa recensione ha forte attinenza con entrambi i temi.
...
Esce un'antologia da Mondadori, curata da Sandrone Dazieri, editor di Licia Troisi (Cronache del Mondo emerso + Le guerre del Mondo emerso, quasi tremila pagine di fantasy rinunciabilissima) e scrittore lui stesso. Titolo: «I confini della realtà», collana Strade Blu, sottotitolo «Antologia del fantastico». La nota introduttiva del curatore non supera le 3000 battute, e questo è un brutto segno. Segno anche peggiore che l'unico riferimento – peraltro non letterario – sia quello alla (mitica ma ormai remotissima) serie televisiva «The Twilight Zone», presentata in Italia come «Ai confini della realtà».
Dieci gli autori convocati per l'antologia. Ma di questi gli autori di narrativa fantastica sono soltanto due: la già citata Licia Troisi e Tullio Avoledo. Ben quattro (Eraldo Baldini, Gianni Biondillo, Chiara Palazzolo e Marco Vichi) gli autori di thriller. E gli altri?
Carla Vangelista è la coautrice con Silvio Muccino di «Parlami d'amore» [!], Violetta Bellocchio ha lavorato per Radio Rai2 e ha pubblicato qualche racconto di incerta natura, Pino Corrias è dirigente RAI e ha pubblicato qualche saggio, L'ultimo romanzo di Luca Di Fulvio, infine: «La gang dei sogni», è un romanzo di formazione ambientato nell'America degli anni Trenta.
L'abito non fa il monaco, d'accordo. E poi qui siamo «Ai confini della realtà» ovvero nella zona grigia dove il reale e il fantastico si sovrappongono e si sostituiscono. Non c'è motivo per pensare che gli autori debbano per forza essere maestri o anche soltanto decenti conoscitori del fantastico.
Non c'è motivo per pensare, come no.
Però aiuta.
Aiuta a evitare al lettore ben 330 pagine per la maggior parte riempite di echi flebili di cose già lette. Aiuta a evitare Troisi che racconta una storia già letta mille volte - l'uomo rimasto solo al mondo - e risolta in maniera cervellotica e dilettantesca. A non rileggere lo svolgimento maldestramente contorto di una leggenda metropolitana - la bella autostoppista che lascia sulla propria tomba la giacca avuta in prestito da chi le ha dato un passaggio - perpetrato da Gianni Biondillo. Solo due esempi ma che rendono bene il tono e il livello dell'antologia.
A voler salvare qualcosa e qualcuno ci sarebbe Avoledo, autore di un racconto confuso, sbilanciato, steso con uno stile ultraomologato e con il consueto finalino a sorpresa, ma capace di qualche suggestione sia pure non troppo originale (tra P.K. Dick e John Saul) e Chiara Parazzolo con un racconto di gusto cyberpunk con un debito forse un po' troppo ingente nei confronti di Matrix.
In quanto agli altri…
Svelto e curioso - ma inconsistente - il racconto di Bellocchio, scenografico e rumoroso ma gratuitamente assurdo quello di Corrias, grottescamente prevedibile (e piuttosto cretino) quello di Vangelista, irritante nella sua colta vacuità quello di Di Fulvio, semplicemente banale e logoro - troppo uso di un'idea già poco originale - quello di Baldini. Il racconto di Vichi, infine, non è male. Peccato si tratti semplicemente di un raccontino giallo con colpo di scena finale come se ne potevano leggere su «Il giallo Mondadori».
Se questo è il quadro del fantastico contemporaneo italiano c'è veramente di che chiudere bottega e tornare a casa. Nulla da stupirsi o da eccepire se poi gli unici libri che escono sono noir de noantri o cloni fantasy di terza generazione. A mancare in questa antologia - ed è questa la scoperta più agghiacciante, il suo vero aspetto terrificante - è non solo l'assenza di idee originali ma la capacità puramente tecnica di condurre in porto efficacemente un racconto fantastico di trenta-quaranta cartelle. Non tanto e solo un problema « di stile » - anche se l'enfasi ermetica di Violetta Bellocchio e l'italiano affaticato e sciatto di Carla Vangelista sono discreti esempi di come NON si scrive - quanto un problema di « artigianato » e, prima ancora, di mancanza di riferimenti adeguati. I racconti di questa sciagurata antologia, in sostanza, mostrano quasi tutti una desolante afasia descrittiva - luoghi anonimi, personaggi stereotipi -, presentano storie inconsistenti o mal progettate e incongrue in rapporto alle dimensioni del testo previste. Montagne che partoriscono topolini, come nel racconto di Avoledo, o semplicemente topolini rachitici. In quanto alle chiuse, poi, prevalgono i finali a sorpresa ma ovvi e macchinosi, privi del dono di illuminare come un lampo notturno il paesaggio. Paesaggio comunque fin troppo usuale, dato per scontato fin dalle prime righe, insulso e anodino come in una pagina di Moccia.
Il limite è probabilmente nell'intera operazione, concepita straccamente e condotta in modo approssimativo. Mal scelti gli autori - per la maggior parte del tutto estranei al fantastico e quindi almeno in parte incolpevoli del deficit di conoscenza dei suoi meccanismi di base - e poco curati i testi. Ma il problema vero e drammatico è che questa discutibile antologia costituisce l'unica concessione al fantastico senza aggettivi (quindi non fantasy o horror) dell'intera produzione mondadoriana dell'ultimo anno. Il lettore semplicemente curioso ne trarrà probabilmente conclusioni errate sul valore intrinseco della narrativa fantastica ed eviterà altri acquisti avventati. Un prezzo davvero troppo alto per lusingare qualche vanità.

9.5.08

Se non ti occupi di Economia...

...Sarà lei a occuparsi di te.
Si tratta di un adagio coniato non so da chi ma che mi viene sistematicamente in mente quando una discussione o un ragionamento prendono a battere strade poco concrete o eccessivamente legate al contingente cioé all'emotività, alla passione o al desiderio di attribuire a un fenomeno i caratteri desiderati piuttosto che quelli reali.
Inutile dire, visto il mio lavoro, che la frequenza con la quale l'adagio mi torna alla mente in occasione di riflessioni e discussioni sul mondo del libro è veramente allarmante. Nel contempo mi viene in mente il mio insegnante di religione della scuola media e il suo personale racconto del Vangelo. Tutta la sua antipatia andava per i farisei che, se già Gesù - pericoloso radicale - non considerava con molta simpatia, nelle sue interpretazioni risultavano anche più meschini, sciocchi, ipocriti, fatui e perbenisti di quanto non li presentassero gli evangelisti. Tipico dei farisei del libro (minuscolo, non del Libro) è pensare che i libri siano spontanee manifestazioni del libero pensiero e della passione artistica. Che i libri arrivino in libreria o nei supermercati grazie alla mediazione dello Spirito Santo e che abbiano un costo vicino allo zero.
Altra serafica e malauguratamente diffusa convinzione è che le case editrici siano templi della Conoscenza e della Cultura - se non tutte, almeno molte - e che i libri nascano grazie a un prepotente erompere delle ragioni dell'arte dell'intelletto.
Non mi piace eccessivamente presentarmi nei panni del vecchio leone ormai rotto a ogni illusione, ma fatico a mantenere il controllo quando mi rendo conto che il mio interlocutore stenta ad applicare al mondo dell'editoria professionale le medesime leggi economiche e gestionali che non lo scandalizzano parlando di ortofrutta o di materie prime ferrose.
Tra queste il massiccio ingresso del marketing - con l'implicazione del concetto di target - nel mondo editoriale. Il marketing, che ce ne rendiamo conto o no, ha completamente sovvertito le norme che hanno governato per decenni il mondo editoriale. Un tempo esisteva la «letteratura popolare», considerata con degnazione dagli intellettuali e dai lettori più raffinati che prediligevano, invece la «letteratura alta». Il legame tra le due letterature anche se debole era comunque un legame dinamico, come dinamica era la figura del lettore che si postulava in grado, dopo una lunga frequentazione della letteratura meno nobile, di approdare finalmente al Parnaso letterario. La vulgata «progressista» di questa filosofia immaginava che tale ascesa del gusto fosse insieme stimolo e conseguenza del crescere della coscienza civile e di classe.
L'ingresso del marketing e del concetto di «target» in questo universo - che ci appare adesso un po' patetico - ha avuto e continua ad avere effetti catastrofici. Come dice Remo Bassetti nel suo «Contro il target» (Bollati Boringhieri 2008):

Tale meccanismo, di origine aziendale, mira al congelamento e alla cristallizzazione dei gruppi sociali esistenti […] Il progetto di vita che viene loro offerto è più seduttivo e accattivante: continuare a essere quello che sono.

Niente più magnifiche sorti e progressive, soltanto un accontentarsi perpetuamente di se stessi e della propria mediocrità. Sì, mediocrità, anche se sul campanello alla porta si porta scritto «prof. Umberto Eco» o «prof. Umberto Veronesi», perché cos'è la mediocrità se non la sensazione di essere perfettamente compiuti come si è?
Questo rintanarsi nella propria posizione, ideologia, visione del mondo, questo atteggiamento stizzosamente acritico («Le persono tendono a difendersi dalla dissonanza cognitiva e cercano di non ricevere informazioni discrepanti con le opinioni che già possiedono») che cerca di difendere la propria omeostasi sociale e culturale evocando estranei/nemici ai quali attribuire identità via via dettate dai media, è probabilmente una delle spiegazioni dell'esito delle ultime elezioni e se risulta pernicioso nei suoi addentellati politici è fatale sul piano culturale.
Un'editoria - come una musica, un cinema o una TV - che crei prodotti pensati in funzione di un determinato target rinuncia, con ogni evidenza, alla propria funzione civile e artistica.
Ancora più interessante - e allarmante - considerare un ultimo aspetto della «targettizzazione» del pubblico dei lettori. Un'industra editoriale che costruisce (costruisce, non seleziona) opere destinate a un pubblico predefinito lascerà ai margini della produzione opere e autori che non rassicurino e rafforzino le convinzioni e convenzioni dei lettori. La sorpresa, la scoperta, l'uscire fuori da sé per adottare altri panni e un altro punto di vista rischia così di essere definitivamente bandito.
A ogni spezzone o frammento andrà il libro che confermerà la propria visione del mondo.
C'è di che riflettere.

7.5.08

Astensione

Mi hanno detto che non posso esimermi.
Che nella mia posizione di one-man-band del libro (libraio, editore, autore, editor, correttore bozze, coordinatore et coetera) e in più torinese - sia pure d'adozione - non potevo non esprimermi sulla Fiera del Libro di Torino.
Non solo.
In questi giorni una persona su due tra quelle che sono entrate in libreria mi hanno chiesto: «Ci vediamo alla Fiera, allora?».
No, non ci vediamo.
«Ma sei filopalestinese, turigliattico, dilibertiano? Centrosocializzi? Bruci bandiere, emblemi, labari, stemmi, insegne?»
No.
Per quanto, da anarchico malinconico (anarconico) sia proclive a usare tutte le bandiere del mondo come stracci per la polvere.
Ma non intendo aggiungere una parola alle (troppe) spese in questi mesi sul tema Israele-Palestina, un groviglio storico-politico-economico dove chi si presenta con una posizione chiara, definita, senza sfumature né distinguo è necessariamente un cretino.
E non boicotto.
Semplicemente mi astengo.
L'ho già scritto nel numero 42 di LN-LibriNuovi:

una Fiera che relega i piccoli editori in spazi marginali per esaltare ciò che non ha bisogno di essere esaltato, ovvero i grandi spazi e i grandi editori.[...] un baraccone pericolante senza idee né prospettive che non siano quelle di esporre e vendere ciò che è abbondantemente esposto e venduto in mille altri luoghi [...] Credo che la Fiera dovrebbe essere interamente ripensata o abbandonata al suo destino, cominciando a riflettere sulla possibilità di organizzarne un’altra. Ad altri prezzi e con altre priorità.

In questa sede aggiungo che una fiera della piccola e media editoria e dell'editoria di proposta direttamente gestita dai librai - che hanno conoscenze e competenze decisamente più complete del personale degli stand della Fiera - sarebbe un vero appuntamento culturale.
Non ho avuto motivi per cambiare idea, nel corso dell'ultimo anno.
Anzi.
Quindi se l'anno scorso boicottai a titolo personale, quest'anno non boicotto ma semplicemente mi astengo.
Punto di vista da libraio che teme per la cassa?
Della cassa, visti i tempi, mi preoccupo marginalmente. Altrimenti dovrei passare tutte le notti a preoccuparmi.
Mi dà fastidio, invece, il culto dell'evento. Il berlusco-veltronismo che trionfa e oscura il lavoro quotidiano di migliaia di persone che pensano a promuovere la lettura per tutto l'anno e non solo per quattro giorni, l'esaltazione della consueta demenziale kermesse, dell'evento unico-e-spettacolare che guadagna pagine sui giornali e spazi nei TG.
«Ma si possono incontrare gli scrittori, gli editori, i protagonisti della cultura!»
Vero.
E qui debbo ammettere una debolezza, un difetto, un vizio assurdo.
Non mi interessa incontrare gli autori dei libri che amo.
Ho paura che la loro intepretazione del libro non coincida con la mia.
Sono un lettore geloso delle mie letture e dei miei sogni.
Non pretendo che sia una scelta condivisa. Riguarda soltanto me.
In controtempo, come mi capita spesso.

5.5.08

A che cosa serve un editore? Capitolo 9

Ancora sui racconti, come promesso.
Rapido riassunto della puntata precedente (con qualche elemento tratto dalla discussione che ne è seguita):
- I racconti sono considerati (a torto) dalla maggior parte degli editori, un sottogenere letterario.
- I racconti sono reputati (nuovamente, a torto) una premessa - anche non necessaria - al romanzo.
- Scrivere racconti non è quasi mai un viatico né un mezzo adeguato all'affermazione nell'editoria professionale.
- Difficile e probabilmente inutile definire rigidamente le forme narrative in base alla loro lunghezza.
Eppure la forma racconto è al centro dell'attività pratica di molte scuole di scrittura creativa e sono numerosissimi i concorsi dedicati ai racconti sparsi per tutta l'Italia.
C'è qualcosa che non quadra, evidentemente.
A questo punto è inevitabile scomodare Raymond Carver, ovvero l'autore più celebrato - insieme a Salinger - dalle scuole di scrittura creativa.
Raymond Carver - non certo per colpa sua - è una sorta di luogo comune fatto scrittore.
Premesso che a me personalmente Carver piace - e nemmeno poco - ha avuto:
- una vita difficile segnata da difficoltà economiche e da frequenti cadute nell'alcolismo.
- è stato colpito ed è morto di un male incurabile
- ha vissuto di espedienti alternando decine di lavori.
- ha cambiato molte volte residenza e due mogli.
- era un (ottimo) poeta.
Insomma la vita di Carver sembra congegnata apposta per riempire degnamente una quarta di copertina, anche se è lecito credere che l'interessato si sarebbe accontentato di un «visse di rendita per tutta la vita e morì serenamente nel sonno».
In più Carver è stato allievo di John Gardner, autore di un manuale per aspiranti scrittori «Il mestiere delle scrittore» che soltanto «Nel territorio del diavolo» della grandissima Flannery O'Connor arriva a uguagliare. Con tutto il rispetto per Gianni Celati, autore di un manuale di scrittura creativa del tutto superfluo se avete letto Gardner, O'Connor e Carver.
La principale peculiarità di Carver, comunque, è di essere stato un grande autore di Short Stories, ovvero di racconti, che nella letteratura inglese e americana hanno una cospicua tradizione.
Carver, in particolare, ebbe a dire: «Un buon racconto vale quanto una dozzina di cattivi romanzi».
È il caso di ricordare in questa sede il valore della letteratura breve nella lingua francese (Maupassant, Ville D'Adam), tedesca (E.T.A. Hoffmann, H. Böll), spagnola sudamericana (Cortazar, J.L. Borges) , russa (Cechov)?
No, non è il caso.
Sta a vedere che siamo soltanto noi i soliti gonzi che non hanno capito un tubo.
Come sempre, verrebbe da dire.
Resta la domanda: «Perché se nessuno si fila i racconti in Italia tutti - da Mozzi a Baricco - ci fanno due scatole così proprio sui racconti?».
«E perché nove concorsi su dieci hanno una sezione racconti?»
Esistono risposte a tutte e due le domande, credo.
Ai frequentatori di questo blog provare a trovarne qualcuna.
...
A proposito di Scuole di Scrittura Creativa, raccomando caldamente la lettura di un libro. Non è un manuale, ma un romanzo piuttosto eccentrico di Paolo Colagrande: «Fìdeg» [Fegato] nel quale potrete trovare alcune pagine dedicate alle lezioni di scrittura di Sandro Veronesi tra le più sommessamente e perfidamente divertenti vi possa capitare di leggere.
Parlando invece di lunghezza dei racconti ho provato a farmi la domanda:
«Va bene, non è noto né definibile con precisione un limite superiore di lunghezza per i racconti. Ma un limite inferiore?»
Già, esiste un limite inferiore?
...
Come molti (non in senso assoluto, ma soltanto tra i frequentatori di questo blog) sanno, io scrivo abitualmente anche fantascienza.
Ciò che segue è una mia (per nulla seria) antologia personale - certamente la più breve che potrò mai scrivere - dove mi cimento nel racconto brevissimo in cinque tra i molti sottofiloni della sf.
Se la cosa prende piede il prossimo ALIA Italia potrebbe anche uscire in SMS.
Buona lettura.

Ucronia:
«E questo Giuseppe Garibaldi, chi era?» Chiese il Re delle due Sicilie.
«Un generale sardo morto in Sud America, maestà»

Space Opera:
«Ehi, facce spinose, se volete restare nostri amici tenete i tentacoli lontano dalla plancia di quest'astronave.»

Viaggi nel tempo:
«Cazzo, nonno, lo sai che mi assomigli da matti?»
«Lo so, papà»

Distopia:
«Vietato sporgersi da finestrino senza aver indossato l'apposita maschera»

Cyberpunk:
«Quei fottuti bastardi mi hanno bannato e non posso più accedere allo scambio di personalità peer-to-peer»

1.5.08

Lei coltiva fiori bianchi

Conosco Consolata Lanza da un bel po'. Una decina d'anni e anche più. Mi è stata presentata da una comune amica con una serie di avvertenze, come se si trattasse di un farmaco pericoloso: «È una mia amica, ma è un po' strana… non nel senso di matta, ma un po' perfida, un po' maligna… in senso buono, naturalmente… e anche le cose che scrive sono un po' così… strane, inconsuete».
La presentazione, apparentemente ambigua, veniva da una persona che sapevo apprezzare questo genere di caratteristiche - la stranezza come emblema di mente libera, la perfidia come gusto antiretorico e antiautoritario -, quindi fui molto contento della conoscenza. E ancora più contento di leggere le cose che Consolata scriveva. Ricordo anche la sensazione di «gelosia» (non saprei descriverla diversamente) che provai sapendo che qualcun altro pubblicava le sue storie.
Libro dopo libro cresceva il mio interesse per il suo mondo narrativo e cresceva la mia gelosia.
Già, probabilmente perché Consolata riesce a scrivere ciò che a me non riuscirebbe nemmeno se vivessi trecento anni o se rinascessi e potessi ricominciare tutto da capo. Com'è naturale, questo non significa che mi sia piaciuto nello stesso modo e senza riserve tutto quello che ha pubblicato o che ho avuto occasione di leggere, ma averla letta è stato un correre sul filo dell'imprevisto emotivo, dell'assurdo come regola profonda della realtà, del'incompletezza come norma della percezione, del fantastico come malinconia, rimpianto e fiaba crudele. La «perfidia» di Consolata e la ruvidità di certe descrizioni e giudizi mi hanno sempre dato la sensazione di un remoto accoramento, trattenuto per pudore e gusto del paradosso. Non ricordo, d'altro canto, molti altri autori altrettanto capaci di costeggiare il sentimento, illuderlo, negarlo e persino riderne senza però mai nasconderlo o cancellarlo.
Ma finalmente ci sono arrivato.
Proprio in questi giorni è uscito il suo nuovo libro per CS_libri.
Volendo si può addirittura comprare presso il sito di LN.
La gelosia è passata.
Si chiama «Lei coltiva fiori bianchi».
Per motivi redazionali l'ho letto più di una volta, e ogni volta ho avuto la sensazione di aver colto qualcosa di più delle tre storie collegate che racconta.
Penso che noi - Silvia Treves, Cettina Calabrò autrice delle fotografie che accompagnano i racconti, io e Consolata – si sia fatto un ottimo lavoro e spero che siano in tanti a leggerli.
Non credo, però, che Consolata sarà mai una scrittrice popolare e famosa, anche se sono convinto che lo meriti.
Ma lei non illude, non blandisce, non accarezza fronti stanche e non culla animucce esacerbate.
Scrive storie per chi non si aspetta consolazione e per chi ama considerare le cose con altri occhi.
Per me è ottimo, è O.K.
Speriamo di essere in tanti.