7.4.08

Sempre più indeciso

A una settimana dalle elezioni...
No, calma. Un momento.
Pensavo di riuscire a superare l'increscioso momento delle elezioni senza parlarne. Ma non ce la faccio. Chiedo scusa a mio nonno materno che si è fatto pestare dai fascisti per permettere al suo scapestrato nipote di esercitare il diritto di scegliere chi governerà l'Italia nei prossimi cinque anni. Gli chiedo scusa perché questo nipote si è piantato come un motorino con lo zucchero nel serbatoio e non sa se e come andare avanti. E si chiede spesso se è proprio il caso di perdere una mezz'ora di una domenica per andare a rigettare in un'instabile cabina invece che farlo comodamente in casa propria.
Faccio parte di quel 30% di elettori italiani che non ha ancora deciso un tubo. Ovvero, ha via via scartato le possibilità fino a restare con nulla in mano. Sono al terzo o quarto giro e l'esito non promette di essere diverso. Questo no, questo nemmeno, questo nemmeno morto, questo mi fa ridere solo a vederlo, questo mi fa pena, questo mi fa venire il nervoso, questo è infantile, questo è troppo scemo, questo è puro/duro e patetico... Non che la volta scorsa abbia votato convinto o fiducioso, per carità, ma c'era da buttare fuori lo psiconano, fare un po' di pulizia e quindi...
Stavolta mi dicono che bisogna fermarlo, lo psiconano.
Lo dice Flores d'Arcais e lo dice anche Camilleri.
E uno dice: «Beh, ma kekzz avete fatto in questi due anni? Com'è che lo psiconano è ancora lì? Com'è che tutte le volte debbo partire a salvare la patria mentre voi non cavate un ragno dal buco?»
Che poi il Cavaliere Insistente è un po' floscio, in questo giro. In cinque anni di governo ha potenziato l'Azienda ed è riuscito a non finire in galera. Insomma, ha fatto en plein e ha i riflessi appannati da dopopasto. Anche perché due anni di governo Prodi non han cambiato nulla ma proprio nulla, ai fini di B.
La sua corte non è sazia, questo è vero, e si tratta della perenne e paludosa mala genia post-democristiana con riporti e aggiunte di fascisti pentiti (di non aver cominciato prima a guadagnare) e di piccoli e grandi potenti locali che vivono di spesa pubblica.
Gente che è da tempo arrivata, piantato le tende e messo su il suo banchetto anche nella cosiddetta sinistra, comunque.
È un'illusione ottica, che lo psiconano sia il vero problema.
Il vero problema, a guardare appena fuori dalle frontiere, è che sta vertiginosamente cambiando il quadro e il modello di sviluppo. Che gli USA non sono più il motore di niente, che entro venti o trent'anni bisognerà non solo e non tanto smettere di usare il petrolio, ma proprio smettere di produrre per un futuro che non potrà comunque più essere simile al passato.
Scrivo fantascienza, tra le altre cose.
E nell'ultimo romanzo di sf che ho scritto e che partecipa all'edizione di quest'anno del Premio Urania (qualcuno tra i frequentatori di questo blog l'ha persino letto) immagino la conquista dello spazio come disperata fuga dalla Terra. Come esodo verso il nulla di un'umanità disperata, a bordo di navi guidate da cosmoscafisti senza scrupoli. La Diaspora, l'ho chiamata. La partenza da un'Antartide senza più molto ghiaccio e senza leggi.
Mi preoccupo di questo, sinceramente. Molto di più del paventato ritorno dello psiconano. Ancora meno, se possibile, mi frega di sostenere un cinefilo imbecille che scambia il suo vetusto sogno americano con la realtà, tanto è vero che si cova un progettino di repubblica presidenziale che è una pura bestemmia in un paese che ha inventato il fascismo e che soffre di un complesso di Edipo mai risolto. Ma Veltroni è la superficialità fatta uomo, il gesto al posto del pensiero, l'apparenza invece della sostanza. Sta facendo un figurone, si dice. Meno male. È l'unica cosa che sa fare.
A volersi preoccupare di quello che accadrà tra un mese, resta soltanto da dire che, siccome è molto probabile un pareggio almeno al senato, dovranno trovare un accordo di un qualche genere. Fiutando l'aria direi che si tratterà di un accordo che perpetuerà queste facce, TUTTE, almeno fino alla prima, grossa crisi planetaria. Poi scapperanno tutti, come fecero i Savoia. Senza nemmeno poter approdare a una possibile Brindisi. Magari in Groenlandia. E lasciandoci qui ad arrangiarci dopo aver comentificato coste, arenili e fiumi.
Ma tranquilli, fino a quando si riuscirà a dare la sensazione che tutto vada come sempre potremo contare su una brillante carriera nell'industria turistica, l'unica che resterà in Italia.
Cominciamo a provare gilé con stampato il nome del locale e crestine bianche. E cerchiamo di imparare a portare un vassoio con quattro bicchieri sopra senza rovesciare tutto.
Quando arriverà il mare troverà i più fortunati a copulare sotto il bancone con l'ennesima ricca turista cinese.
Siccome scrivo fantascienza, comunque, penso che il problema sia nel non credere nel futuro.
Mentre dovremmo ricominciare a ragionare sul futuro, a vederlo. Senza ingenue illusioni ma anche senza terrori.
Dovremo cominciare a immaginare una vita che non ci apparterrà per motivi anagrafici (fatta salva la profezia di Clarke, beninteso), ma che potrebbe essere possibile. Basta cominciare a immaginare. A desiderare. A sognare. I sogni dimenticati sono la zavorra che porta a fondo.

3.4.08

Prestati alla letteratura

Dando un'occhiata alla cronologia dei post ho notato che a questo punto dell'anno ho già raggiunto il numero totale di post scritti nell'intero 2007. Ho più tempo? No. Semplicemente ho deciso di trasformare il blog in un laboratorio per gli articoli che successivamente scriverò per la rivista LN-LibriNuovi. Laboratorio nel senso che posso postare qui anche semplici idee che poi non utilizzerò, considerazioni poco sistematiche o mal documentate, trovate assurde o pistolotti nati dal malumore.
Ciò che segue si potrebbe probabilmente far rientrare nell'ultima categoria (... pistolotti) o rivelarsi un'idea brillante per il prossimo «Luna storta». Di notevole ha il fatto che, come promesso a un certo punto del 2007, parlerò di libri senza averli letti. Linea di condotta che potrà anche apparire balzana ma che nasce da due considerazioni:
1) di gran parte libri (e degli autori) dei quali parlerò me ne importa meno di nulla.
2) una volta su due leggo per recensire ma, in questo caso, cerco libri significativi o comunque libri che mi incuriosiscono o che, attraverso legami misteriosi o palesi, possono dialogare con libri che ho già letto.
«I lettori sono il tramite attraverso il quale i libri dialogano tra loro», scrive Umberto Eco.
Quando vuole Eco sa dire cose notevoli.
Avevo detto due considerazioni, ma me ne viene in mente una terza:
3) non parlo qui di libri in quanto media artistici ma come epifenomeno dell'industria culturale. Quindi leggerli sarebbe perfino fuorviante.
Esaurita questa lunga premessa, vengo al punto.
Siete in libreria.
Marciate verso la sezione novità.
(bel problema, nelle librerie adesso esiste quasi soltanto la sezione novità, vabbé)
Sottosezione: «Autori italiani, narrativa».
Ovviamente troverete soltanto libri editi da grandi gruppi editoriali, Mondadori, Rizzoli ecc.
Apritene uno e leggete il risvolto di controcopertina (3a di copertina) o semplicemente la controcopertina. La bio dell'autore, insomma.
Bastano le prime righe:
«È autore e regista televisivo»
«Insegna Analisi del film all'Università di Roma»
«Giornalista, autore televisivo e radiofonico»
«Scrive da molti anni sul “Corriere della Sera”»
«Insegna alla New York University»
«Presentatore televisivo e speaker radiofonico»
«Giornalista, è stato deputato per tre legislature»
«Autore e consulente televisivo»
«È giornalista e critico teatrale»
«Insegna presso l'Università di Napoli»
...
Mi fermo qui, tanto avete già capito.
«Ma di scrittori non ce ne sono?» Viene da chiedersi.
Qualcuno c'è.
Pochi nel gruppone dei grandi editori, qualcuno in più tra i medi editori.
Si riconoscono perché hanno note bio in genere più brevi - al massimo allungate dai titoli dei romanzi precedenti - e non insegnano, non collaborano, né sceneggiano, conducono, presentano, scrivono su, vengono consultati a proposito di o eletti.
Non si parla qui di nomi di grandi narratori («di italiani ce ne sono?»; «Zitto!») ma di quel popolo medio di narratori medi che ammiccano - illudendosi di risultare interessanti & originali - dalla quarta di copertina del rilegato Mondadori, Bompiani o Rizzoli.
Tutti autori «prestati alla letteratura» che, tra una sceneggiatura, una lezione universitaria e un'apparizione televisiva trovano il tempo di distillare la propria anima sensibile e riversarla tra le pagine di un libro.
Una vocetta dentro di me chiede: «E restituirli al loro legittimo lavoro, no?»
La ignoro.
A voler essere positivo e propositivo mi stupisco, piuttosto, della facilità con la quale certa gente transita dal marketing insegnato al marketing praticato, dalla teoria della sceneggiatura alla sceneggiatura di se stessi. Mi stupisco molto meno, invece, del fatto che si tratti:
a) di soggetti che hanno già rapporti professionali con il mondo dei media, del quale l'editoria libraria è un'appendice scarsamente rilevante da un punto di vista economico.
b) di soggetti in possesso di una propria più o meno rilevante notorietà in grado di lubrificare le vendite.
c) di soggetti depositari di un qualche indistinto e nebuloso potere di richiesta e/o di ricatto.
Mi vengono in mente due cose contemporaneamente.
Non è grave, mi capita spesso.
La prima è una statistica - una volta tanto significativa - a suo tempo pubblicata su «L'autore in cerca di editore», edizioni La Bigliografica. Significativa perché La Bibiografica è il centro studi dell'AIE, Associazione Italiana Editori e raccontarsi balle da soli non serve a niente.
In questa si mostrava come il 90% dei nuovi autori pubblicati avesse a vario titolo rapporti professionali con mondo editoriale prima della pubblicazione.
Ricordo perfettamente che quando lessi questa statistica mi feci l'appunto mentale di lasciare perdere l'invio di manoscritti agli editori.
La seconda riguarda un breve articolo di Luca Oleastri pubblicato sul blog parolando, un franco e interessante «Vademecum per lo scrittore esordiente». Premesso che sono d'accordo quasi al 100% con quanto scrive Oleastri, suggerirei l'inserimento di una breve appendice al suo scritto riguardante «personaggi più o meno famosi con l'ansia creativa» ai quali fa da contraltare «editore disponibile a pubblicare qualsiasi scemenza che si venda da sé grazie al nome dell'autore».
In questa Italia neofeudale penso nessuno abbia di che stupirsi.
La terza (lo so, avevo detto due, ma ho un cervello disorganizzato che viaggia a diverse velocità e stenta a coordinarsi e capirsi da sé) è che se siete - narrativamente e non solo - dei nessuno e vi stampate un libro per conto vostro siete dei coglioni mentre se telefonate a Mondadori e ve lo fate stampare da loro siete dei fighi. Narrativamente dei nessuno, s'intende, ma chi volete che lo dica? Se siete giornalisti difficilmente ci sarà un collega che si esporrà scrivendo: «Il libro di Marco Gianmarco Marcolino fa schifo», anche perché un giorno anche il collega si sentirà chiamato dall'arte eccetera. Se lavorate nella stessa holding a un piano diverso, nessuno vi leggerà ma nessuno perderà tempo a sputtanarvi. E se insegnate all'Università (o siete ex- o proto-onorevoli) potrete sempre contare sull'omaggio codardo dei valvassini e sul silenzio degli innocenti.
In quanto, infine, ai romanzi pubblicati come saldo (o buonuscita) di favori sessuali concessi... le voci in proposito sono sempre - ovviamente - poco attendibili ma numerose e ghiotte. Essi non costituiscono, comunque, una quota particolarmente significativa della produzione editoriale. E non è detto - parlando di queste opere, figlie primogenite dell'eterogenesi dei fini - che si tratti per certo di disgustosi bidoni. Amanti di ogni sesso, infatti, non sono necessariamente tromboni ultranarcisi come i giornalisti, i docenti universitari o i politici.
Ultima cosa: l'elenco prima riportato è genuino fino all'ultima riga, desunto da un campione di libri che ho qui in libreria. Se non vi fidate potete fare una campionatura personale.

1.4.08

A che cosa serve un editore? Capitolo 7.

Ci eravamo lasciati con la (mia) promessa di parlare di racconti e novelle e del loro rapporto con l'editoria maggiore, ovvero delle possibilità di approdare alla pubblicazione a fini di lucro scrivendo racconti.
Ho appena finito di scrivere la frase e già mi viene da ridere.
Precorro?
Può essere.
Meglio non precorrere.
E invece parlerò d'altro. Ritornerò al tema originale di questa serie di post.
Ovvero: «A che cosa serve un editore?»
La domanda non è assurda né malposta.
E la sua sola risposta valida non è: «A fare i soldi, a essere portati in giro per presentazioni e a dare la possibilità di scrivere mezza pagina di sciocchezze sul supplemento del quotidiano cittadino».
Siamo seri, via. Si tratta di capire qual è il surplus di significato e di valore che un editore può dare al vostro manoscritto.
Può darsi che siate autori talmente bravi da non aver alcun bisogno di un lavoro di edizione dei vostri testi. Complimenti. Ma se, come accade per la maggior parte di noialtri poveri mortali, vi fa comodo avere un personaggio competente che vi fa notare che la tal frase va tagliata, quell'altra va girata e l'altra ancora va volta in forma diretta, allora benvenuti nel club.
Si tratta di un lavoro da certosini, meglio dirlo subito. Non mi ritengo un editor professionale ma mi è capitato di curare l'edizione (=fare editing) di alcuni racconti. Si tratta di un lavoro lento, delicatissimo perché si tratta di accettare completamente e senza riserve la voce dell'autore senza tentare di sostituirla con la propria. Difficile resistere alla tentazione di suggerire - o tentare sbrigativamente di imporre - sviluppi, esiti e andamenti diversi da quelli scelti dall'autore e più vicini alla propria sensibilità. Tanto più che può capitare di «vedere» una soluzione o uno sbocco che si ha il sospetto che l'autore non abbia visto e che «sicuramente» renderebbero il racconto un piccolo capolavoro (?).
E qui bisogna fare una prima, grossolana distinzione.
Nell'arte dell'edizione esistono la chirurgia ortopedica e la chirurgia estetica.
Nella prima si usano sega, pialla, martello, viti e chiodi. Si amputano delle parti, se ne spostano e sostituiscono altre fino ad avere un testo che si ritiene possa camminare da solo.
Nella seconda si usa un ago fine, un po' di trucco, poco silicone per gonfiare certe parti e una siringa per sgonfiarne altre. Non si taglia quasi nulla se non qualche avverbio o congiunzione, si aggiusta la punteggiatura e via.
Personalmente mi sono occupato quasi esclusivamente della seconda, anche perché i racconti sono organismi fragili e leggeri e massacrarli a colpi di sega, oltre che letale, può rivelarsi inutile. In certi casi può perfino essere consigliabile buttare via tutto e ricominciare da capo.
Scelta draconiana che mi è capitato di fare con testi di mia produzione ma che non ho mai consigliato a nessuno. Semplicemente, in questi casi, mi limitavo a non pubblicare il racconto fornendo qualche consiglio, talvolta - debbo dire - accolto senza troppo entusiasmo.
Tra i racconti ne esistono che (narrativamente) nascono bene e finiscono male, nascono male e finiscono bene e anche, purtroppo, quelli che nascono e finiscono male, ovvero nati da un'idea banale (... ho ucciso venti persone a colpi di mitra, oggi pomeriggio...) condotta straccamente (... mi ricordo quando mio padre mammenava con la cinghia e la mamma rideva...) e che verso la fine si impennano in una chiusa improbabile (... ho ucciso venti persone a colpi di mitra, oggi pomeriggio. Non male per un dodicenne, vero Lucifero?...).
Siete ancora lì?
Come va lo stomaco? E il fegato?
Di questo genere di racconti me ne arriva almeno uno al mese.
Scritti necessariamente in prima persona.
Scabri, ruvidi, essenziali... nelle intenzioni.
In realtà enfatici perché fatti. Di frasi. Troppo. Brevi.
Lo so Soria (mica Hemingway, eh?) scrive così, ma non si tratta di un esempio da seguire.
Se avete il punto e il ritorno a capo facili disintossicatevi leggendo una pagina di Dostoevskij o di Tolstoi. In una sola loro frase ci sono abbastanza storie da riempire un'antologia.
Solo i fessi e Piero Soria scrivono troppo corto (sono paratattici, per dirlo in italiano), ma è un trucchetto scemo per conferire drammaticità a testi che non sanno crearla con altri mezzi.
E imparate a descrivere!
Ecco. Mi sono fatto prendere la mano.
Ma i racconti arrivano a me, non a voi.

A che cosa serve un editore - uno vero - lo si può capire ragionando su un libro che sto leggendo in questo periodo.
«Le radici dell'insalata» di Sergio Astrologo.
Sergio, che conosco da una decina d'anni, è uno scrittore.
Vale un quarto di quello che crede di valere: quanto basta a farne un autore straordinario.
È perfettamente in grado di portarvi altrove con una mezza pagina, di far ridere singhiozzando o sogghignare piangendo. Sa scrivere descrizioni a un passo dal teletrasporto e riassumere uno stato d'animo, un'emozione, una vita in due righe.
Ha un numero incalcolabile di difetti ma vale la pena di sopportare tre sue pagine mal condotte per tre righe che illuminano.
Sergio non ha un buon rapporto con l'editoria.
Ha pubblicato con editori minori e in qualche caso ha pubblicato alcuni libri da solo e a sue spese - vantandosene - perché nessuno era disposto a scommettere un eurocent sui suoi romanzi.
Di quest'ultimo suo romanzo ho letto le prime cento pagine su quasi trecento.
Belle, intense e penetranti le prime cinquanta.
Opache e ridondanti le seconde cinquanta.
Lo ragione sociale di un buon editore - «Einaudi» mi vien fuori quasi automaticamente - sarebbe quella di acchiappare il romanzo di Astrologo e batterlo come un tappeto per eliminare la polvere. E poi istigare l'autore a ricucirlo, tagliuzzarlo, spostarlo, rovesciarlo.
Ma Einaudi non è più Einaudi e Sergio ha abbastanza talento da trovare comunque qualcuno che lo pubblichi. E, oltre al talento, un pessimo carattere. Quanto basta per scoraggiare un editor non abbastanza risoluto.
È un'opinione a caldo, quindi vale quello che vale e potrò modificarla con o senza preavviso.
Ma, al di là dell'esempio scelto, serve a comprendere l'enorme importanza del lavoro di un buon editore.
Nonostante tutto.

31.3.08

Fata Morgana: le regole del gioco



Davide ne ha già parlato nel suo blog Strategie evolutive, accludendo alla cronaca una mesta e lugubre fotografia di sua produzione che diffido pubblicamente dall'andare a vedere.
Anche se già so che correrete in massa a farlo.
Di mio aggiungo che alla presentazione erano presenti una dozzina degli autori coinvolti, i curatori e un manipolo di lettori affezionati. Serata gradevole - spero non solo per me - con Massimo Soumaré, autore e traduttore dei racconti giapponesi pubblicati in FM 11, giunto all'ultimo istante, giusto in tempo per mangiare qualcosa. E bere.
Della lettura dei brani si è egregiamente occupata Silvia Treves.
Di illustrare scopo, funzione e storia del progetto «Fata Morgana» il sottoscritto.
Avete già capito, immagino.
Sto per pubblicare la mia relazione/introduzione.
Tranquilli, è breve.
Non arrivo ad affermare spudoratamente che sia interessante, ma credo sia un'utile sinossi al nostro modo di lavorare. Nel caso a qualcuno venisse mai voglia di farsi pubblicare un racconto da CS_libri o anche, semplicemente, avesse voglia di discutere.

Probabilmente molti di voi hanno un'idea abbastanza precisa di che cos'è il progetto Fata Morgana, di quando è nato e perché.
Ma un piccolo ripasso o una riassunto delle puntate precedenti, soprattutto a beneficio delle new entries, può essere proficuo. Anche perché è nel passato che si trovano le radici del futuro.
Cominciamo col dire cosa non è Fata Morgana.
- Non è un'operazione commerciale.
Se questo fosse stato il nostro scopo avremmo rigorosamente evitato di accostare autori già noti a esordienti e narrative di genere alla narrativa maggiore.
Avremmo probabilmente creato una scuola di scrittura creativa ad hoc e una rivista allegra e positiva distribuita nelle Feltrinelli e avremmo intervistato il Veronesi o il Piccolo della situazione. Dopo una serie di interviste unte e scivolose avremmo avuto molto probabilmente la possibilità di pubblicare i nostri lavori preceduti dalla paterna e benevolente introduzione del grosso nome in oggetto.
Ma ci teniamo un po' troppo alla nostra indipendenza di giudizio per tentare questa strada. E LN non è una rivista allegra e positiva. Magari divertente. Probabilmente attenta e sicuramente polemica. Ma non è il tipo di rivista che si sforza di trovare interessante un autore o un libro sulla base dal calcolo delle possibili benemerenze nel mondo editoriale.
- Non è una fiera delle (piccole) vanità
Chi scrive è narciso, non si scappa.
Ma se l'esercizio di narcisismo riesce a affascinare, incuriosire, divertire e appassionare lo si può anche perdonare.
Personalmente sono convinto che una volta terminato di scrivere l'autore abbia il dovere morale di scomparire e non farsi più trovare. Ma le cose non vanno così e i lettori hanno sempre qualche domanda da fare. Va bene. Ma il narciso si perdona se ha qualcosa da raccontare e se lo sa fare. Pubblicare su FM ci illudiamo sia la prova che il testo viene sempre e comunque prima dell'autore.
- FM non è un trampolino di lancio.
Siamo all'11a edizione. Qualche autore esordiente pubblicato su FM ha trovato la strada per l'editoria maggiore e ne siamo felici. Felici anche perché, evidentemente, avevamo visto giusto. Ma l'antologia è poco nota, è distribuita soltanto attraverso le librerie on line e fatalmente sconta le antipatie accumulate dalla rivista LN nei suoi quindici anni di attività. In più raccoglie scritti brevi di diversi autori uniti dal tenue filo di un tema comune. Anatema per l'editoria italiana. Della nostra povertà tuttavia, come il barone di Sigognac, siamo orgogliosi.
Una volta definito che cosa non è FM penso che le sue caratteristiche saltino all'occhio per semplice contrasto.
È un'antologia di racconti.

Secondo noi di volta in volta curiosi, affascinanti, divertenti, appassionanti.
Raccoglie i racconti vincitori del concorso e, accanto a essi, racconti di autori stranieri, di autori già pubblicati e più o meno noti e racconti di autori che hanno almeno una volta vinto il concorso e che si sono tanto affezionati al progetto Fata Morgana da partecipare ogni anno con nuovi testi.
La gente è strana.
Dal momento che ho scritto io la prefazione all'antologia dovrei o potrei limitarmi a ripetere ciò che ho già scritto.
Una linea di condotta minimale.
Anche perché l'aspetto interessante della serata sta nella lettura dei brani e non nelle mie chiacchiere.
Però altre due parole su alcuni racconti merita dirle.
- I racconti di autore straniero.
Tre giapponesi e un cinese. Una sinergia - per usare un vocabolo caro alla new economy - con l'attività svolta per ALIA, l'antologia trilingue di narrativa fantastica da noi pubblicata e giunta alla sua quarta edizione.
Racconti ricchi di immagini impossibili da dimenticare - pensate al volo di gru del racconto di Tsujii Hitonari o alle tre donne riunite nel piccolo ristorante sul mare di Ekuni Kaori - quelli degli autori giapponesi tradotti da Massimo Soumaré, traduttore e curatore della sezione giapponese di ALIA. Leggerissimo e divertente il racconto dell'autore cinese, tradotto da Federico Madaro, titolare della libreria Mangetsu.
Ci tenevo a dirlo perché è una dimostrazione pratica del fatto che i librai sanno fare qualcosa, nella vita.
Racconti che della musica scelgono un aspetto particolare non indicato nel bando: il ritmo.
- I racconti vincitori.
Di questi mi piace sottolineare la varietà degli stili e, nella varietà di registri e soluzioni narrative, la vena divertita e paradossale che li sorregge. Quando li ho letti per la prima volta ho sinceramente avuto la sensazione di non leggere autori italiani. O perlomeno non di autori di questi anni. Niente efferati omicidi, nessuna confessione davanti allo specchio, nessun autocompiacimento stilistico o tentativo di stupire o choccare il lettore.
Racconti uniti dal piacere del gioco, a loro modo «giocosi».
Ma giocosi non significa scherzosi né tantomeno facili.
Amichevoli, piuttosto.
Un risultato, non un approccio o un modo. Davvero non poco.





28.3.08

Un esperimento da seguire

Da qualche tempo Davide Mana - curatore e traduttore della sezione in lingua inglese di ALIA - ha cominciato a tradurre in inglese una scelta di racconti di autori italiani tratti dalle quattro edizioni finora uscite dell'antologia.
Una follia?
Un'assurdità?
Un controsenso?
O un esperimento da seguire con attenzione?
Io sono per quest'ultima possibilità, senza nascondermi che c'è almeno un pizzico di shakesperiana follia in questa operazione.
Non si rischia il patetico?
O un'operazione al limite del comico che può ricordare quel vecchio film dove il principe di uno sconosciuto staterello balcanico dichiara guerra agli Stati Uniti?
Perché mai il mondo narrativo che parla inglese dovrebbe prendere in considerazione un pugno di autori italiani - ignoti per definizione nel mondo anglofono - e oltretutto di difficile sistemazione nell'universo della narrativa fantastica?
D'altro canto disporre di una buona traduzione (e sarà buona, potete giurarci) dei nostri lavori può rivelarsi un efficace presentazione presso gli autori che hanno collaborato e collaberanno con il progetto ALIA. Può creare legami più solidi e duraturi, favorire collaborazioni, scambi, confronti.
Un aspetto particolarmente interessante del lavoro di Davide è che questo avverrà in pubblico, presso il blog glossolALIA. Ovviamente in inglese.
Annotatevi questo indirizzo.
E visitatelo.
Assistere step-by-step al lavoro di un professionista ha qualcosa di affascinante.

26.3.08

Nel retrobottega

Ciò che la maggior parte dei lettori non sa è che, nella maggior parte dei casi, i libri che trovate in libreria sono scelti dai librai sulla base di informazioni scarse, inattendibili, fuorvianti e tendenziose.
Proverò ora, con qualche (lieve) esagerazione a descrivere come funziona tutto il baraccone.
Vi verrà probabilmente una frase di Karl Krauss: «Chi crede nella politica e ama le salsicce non dovrebbe mai sapere come l'una e le altre vengono fatte»

Teoricamente - molto teoricamente - la scelta dei libri, fatta con un anticipo di 3-4 mesi sulla data di uscita, avviene nel corso dell'incontro tra il buyer della libreria (che non è necessariamente il responsabile commerciale della libreria o il libraio) e il promotore editoriale. Quest'ultimo presenta le novità, illustra il loro valore commerciale, risponde alle domande, mostra le copertine, illustra, spiega e contratta le condizioni commerciali.
Molto teoricamente, dicevo, perché la mole di novità in uscita è tale che per considerare con attenzione una cedola (= gruppo di novità in uscita in un periodo X dell'anno) di un grande gruppo editoriale ci vorrebbe all'incirca il tempo di un week-end. Per un libraio medio si tratta di tempi semplicemente impensabili e improponibili. Un'ora per un editore come Piemme e un paio d'ore per tutto il gruppo RCS Rizzoli Corsera (una ventina di marchi tra i quali Adelphi, Rizzoli, Bompiani, Archinto, Etas, Fanucci ecc. ecc.) è il massimo che un libraio può ritagliare dai propri impegni.
Ma se il buyer non ha tempo, lo stesso vale per il promotore che ha come minimo settanta-ottanta punti vendita da girare in un arco di tempo che va dal mese ai due mesi, tenendo conto che è difficile riuscire a «fare» più di tre librerie al giorno e che il lavoro del promotore non è finito con «il giro» ma comporta anche l'invio delle prenotazioni al centro distributivo.
Aspettarsi poi che un promotore possa esprimere una qualche opinione sensata sui libri che propone è quantomeno illusorio. I promotori «subiscono» le presentazioni dei libri da parte di autori e responsabili commerciali nel corso di raduni aziendali più o meno fantozziani dove vengono ammaestrati a ripetere a pappagallo le colossali fanfaronate escogitate da individui (l'ufficio commerciale del gruppo editoriale) che hanno idee molto teoriche sul funzionamento di una libreria. In quanto agli incontri con gli autori se ne rileva traccia nel pallido sorriso del promotore che, giunto alla pagina del catalogo delle uscite con il libro dell'autore XY, dichiara: «XY è molto simpatico».
L'unica guida per chi acquista sono le presentazioni del catalogo delle uscite.
Un testo non molto più lungo e dettagliato di una normale quarta di copertina, con bio e foto dell'autore, occhiello molto appariscente - «Raffinato, elegante, ricco di suspense» o «Difficile indagine tra le aule di Cambridge», «Il più elegante e feroce narratore del Novecento», «Il fascino inquieto dell'adolescenza» e via vagheggiando - e un riassunto al max di una ventina di righe per un romanzo di tre o quattrocento pagine.
Nessun problema se l'autore è al terzo o al quarto romanzo. O se si tratta di un saggio.
Diverso il discorso se l'autore è alla sua prima uscita con una grossa casa editrice o un grande gruppo editoriale
Proviamo ad applicare questi criteri a un libro che conoscete bene.

Occhiello: «Un thriller a sfondo religioso nell'Italia della Controriforma»

Bio: «A. M. È stato un giovane ribelle e anticonformista e un raffinato poeta. Ora è ritenuto uno degli scrittori più interressanti e innovativi dell'Ottocento italiano. La sua è una voce inconfondibile, attenta e partecipe dei più profondi moti dell'animo umano. Ha pubblicato...»

Riassunto: «Sullo sfondo di una Lombardia colpita dalla Peste nera, un crudele feudatario terrorizza il popolo e il clero minore imponendo col sostegno degli invasori spagnoli la sua legge, una legge fatta di soprusi, rapimenti, violenze e stupri. Sarà un giovane contadino al quale l'infame signore, aiutato da una lasciva religiosa, ha rapito la promessa sposa a riunire intorno a sé le forze e le personalità capaci di fermarlo per sempre

Insomma, non è poi così difficile fare de «I promessi sposi» una via di mezzo tra un fantasy e un thriller morboso. Ovviamente il libraio che ha prenotato il libro sulla base di questa presentazione non sarà in grado di riconoscere il libro una volta ricevuto e se non avrà il tempo di leggerne qualche pagina - eventualità divenuta molto rara - lo sistemerà nella sezione thriller.
O in quella dedicata ai romanzi storici.
O, se in copertina appare una Lucia poco vestita e/o in catene insidiata da una specie di Porthos ghignante, nella sezione fantasy.
Ecco.
Quando parlavo di «informazioni scarse, inattendibili, fuorvianti e tendenziose» intendevo proprio questo.
Lascio ai miei gentili «venticinque lettori» qualsiasi valutazione sulle possibilità reali per un autore esordiente o sconosciuto di essere apprezzato - e acquistato - sulla base di questo genere di note di presentazione. Anche perchè dopo un po' si impara che quasi tutto quello che compare nel catalogo delle prossime uscite è attendibile quanto un numero del Volkische Beobachter o della Pravda.
E si agisce di conseguenza.
Frequentemente, com'è fatale, sbagliando.

22.3.08

Lo spettacolo (l'Ultimo) deve continuare

Non è un moto di popolo, d'accordo, ma qualcuno ha letto e ha chiesto di continuare a leggere.
Parlo di «Ultimo spettacolo», il romanzo che ho iniziato a pubblicare su questo blog.
I primi quattro capitoli servivano a definire la situazione.
Ossia, riassumendo:
La Terra è (meritatamente) in pericolo
I feroci alieni (giustificatamente) la minacciano.
O quantomeno vorrebbero far cessare le nostre trasmissioni televisive.
A preoccuparsi della sorte della Terra ci sono alcuni individui assai poco raccomandabili. Tra questi un vecchio amico/nemico degli uomini il cui nome inizia con la «S».
Dalla parte dei «nostri» un bamboccione - ovvero un maschio adulto tuttora vivente in famiglia con Mà e Pà - di nome E.(doardo) e una virago formato mignon di nome Mirella, oltre a un vecchio gatto maschio scorbutico e dispettoso.
Difficile che ce la facciano, ma non si può mai dire.
In questi secondi quattro capitoli succedono parecchie cose, ovvero «l'intreccio si infittisce», come si dice per i feuilleton.
Fanno la loro comparsa ulteriori pericolose creature e si apprendono nuove informazioni sulla luminosa civiltà galattica.
Intanto l'astroflotta aliena si avvicina...
Prima di correre a scaricare, una domanda.
Guardate le immagini che appaiono in questo post.
La prima raffigura un paio di generali argentini del periodo della dittatura militare e dei desaparecidos, la seconda un coccodrillo australiano.
La domanda è: «chi è più pericoloso?».
Io non ho dubbi, ma se voi ne avete vi sconsiglio di leggere il seguito del romanzo.
Per il «come fare», vi basterà cliccare sul link sotto «Quante storie» (mio.discoremoto.alice.it) sulla colonna dx del blog e aprire la cartella «Ultimo spettacolo».
Se non l'avete ancora fatto, scaricate prima il file «US avvertenze e precauzioni».
I vostri eventuali commenti saranno graditissimi sia in calce a questo post sia alla casella di posta elettronica massimo.citi@virgilio.it.
Mi scuso anticipatamente per eventuali refusi - che invito comunque a segnalarmi - e ringrazio la piccola pattuglia di lettori che mi hanno scritto per invitarmi a continuare. Tra questi ringrazio in particolar modo Fran(cesca) sia per avermi scritto che «Grigio su grigio» non è un granché, sia per avermi scritto che « mentre leggevo i primi capitoli sono morta dal ridere».
Morta dal ridere in accordo con l'autore, non «nonostante gli sforzi dell'autore».
C'è una bella differenza...
In quanto alla terza immagine, beh leggete e saprete!
Buona lettura!


Al fulmine segue il tuono


È uscito, disponibile, pronto il primo numero 2008 di LN-LibriNuovi, rivista di attualità libraria.
Io ne sono l'editore e il co-coordinatore e quindi tutto ciò che seguirà va preso con beneficio d'inventario.
Però è un gran bel numero, giuro.
Ricco - 172 pagine - interessante, divertente & istruttivo.
Come mi capita ogni tre mesi ho la certezza sia il più bel numero mai uscito della rivista.
Tranquilli, tra tre mesi ripeterò la stessa cosa per il numero 46...
Ma non è propaganda. Semplicemente è che fare la rivista è piacevole, quindi tutti danno il meglio di loro. E co-coordinare diventa un piacere.
Indice e copertina compariranno presto sul sito di LN. Intanto potete dare una scorsa all'indice presso il blog di Davide Mana, tempestivo e rapido come tutti i free lancer.
Buone letture!

18.3.08

Di quale editoria parliamo

Mi è appena passato per le mani un articolo pubblicato su Alchimie, scritto da Andrea De Caro. Articolo-recensione che, partendo dall'ultimo pamphlet dell'editore americano sviluppa alcune riflessioni sullo stato dell'editoria in Italia e nel mondo. Riflette sul grado reale di democrazia e di libertà di stampa che questo modello di sviluppo rende possibile.
Mi sono occupato di questo tema per qualche anno. Con Alfredo Salsano, lo scomparso editor della Bollati Boringhieri di Torino, e con altri colleghi librai torinesi. Dalle nostre riflessioni e dal nostro lavoro, ormai vecchio di qualche anno, è nata l'idea di Slow book, idea, ahimé, rimasta inerte e inoperosa - come si può notare constatando lo stato di abbandono nel quale versa il sito - anche per la morte di Alfredo, «anima» dell'iniziativa.
Ci siamo preoccupati della sorte dell'editoria di proposta - la locuzione è di Alfredo - e, in parallelo, della sorte delle librerie indipendenti. Abbiamo individuato nelle seconde gli interlocutori «naturali» dei primi e abbiamo cercato di ragionare sulle possibilità di creare una struttura che riunisse e coordinasse tutti coloro che credono nella possibilità di preservare la bibliodiversità. Abbiamo fatto fiasco, per tanti motivi. Al massimo siamo riusciti a creare un vago movimento di opinione, comunque limitato agli addetti ai lavori, senza riuscire a raggiungere altri attori della produzione e distribuzione libraria. Gli autori, per esempio, spesso chiamati, come scriveva Antonella Cilento a fungere da serraglio per il mass-market.
Ne abbiamo guadagnato in consapevolezza, come no, ma la consapevolezza che non si diffonde è come la saggezza dell'eremita: ricca ma inutile.
Questo polposto post non nasce da una tardiva resipiscenza. Soltanto serve a definire un po' meglio il quadro nel quale noi tutti - lettori, autori, operatori - ci troviamo a operare.
Esiste una linea che, unendo i punti numerati, può definire un disegno? Un «che cosa apparirà» dell'editoria mondiale?
Il discorsetto non è poi tanto gratuito e/o azzardato.
Senza bisogno di essere Adam Smith o Karl Marx si può convenire che, essendo l'editoria un'attività industriale, debba produrre un plusvalore. A meno di fare ciò che l'ottimo ex-amministratore delegato Mondadoriano, Kaiser Franco Tatò, definiva «propaganda», ovvero editoria in perdita, prodotta per propugnare una causa, politica o anche artistica.
Aguzzo il CEO, non è vero?
Prima conseguenza della necessità di un plusvalore è l'esigenza di trovare autori vendibili.
Questo vale per l'editore Treves che nei primi del Novecento pubblicava i romanzi osé di D'Annunzio come per la Rizzoli che nel 2007 pubblica Moccia. Certo, D'Annunzio scriveva meglio e sotto il cappello possedeva un cervello ma lo scopo è lo stesso: far soldi con il libri.
Senonché il signor Treves, capitalista dell'italietta umbertina, non faceva parte di una superholding nella quale il settore editoriale librario è soltanto un'appendice minima di attività quotate in borsa e che producono un utile finanziario. Il signor Treves dava «un'uciadina ai cunt» e se un libro non vendeva smetteva di pubblicare quell'autore.
Il CEO del settore editoriale librario della superholding, viceversa, si preoccupa della quotazione in borsa e dei dividendi per l'azionariato, delle sinergie con altri settori della comunicazione, della ricaduta in termini di gadget, mode, fenomeno. Il CEO è pronto a versare anticipi da capogiro, a sfruttare l'economia di scala garantita dalla grande distribuzione e delle grandi superfici delle librerie di catena, a massimizzare l'impatto mediatico creando il «fenomeno». Libro+film+gadget+canzone per iPod+sfondo e suoneria per telefonino eccetera.
E dietro il «fenomeno» vengono le legioni di cloni.
Così abbiamo il fantasy che «tira». Come «tira» il «noir», il giallo da sala settoria, l'autobiografia comica femminile, la biografia del perseguitato dai fondamentalisti.
Il fatto che un libro risulti un epigono non fornisce informazioni reali sul suo valore, tuttavia.
Si può supporre che non sia granché da un punto di vista artistico ma nulla di più.
I libri che non rientrano nel «fenomeno» possono aspirare, al massimo, a raggiungere nicchie di mercato. E possono, nel caso, essere distribuite anche attraverso canali secondari.
Anche le librerie indipendenti.
Si tratta di uno schema necessariamente grezzo, ma - spero - illuminante.
Quando parliamo di grande editoria parliamo, in realtà, di un sistema integrato teso a massimizzare i profitti. Il plusvalore della produzione ma soprattutto il valore finanziario complessivo della holding al quale l'editore appartiene.
L'editore deve mostrare continui incrementi di fatturato per poter passare nella cruna dell'ago degli analisti finanziari.
E gli incrementi di fatturato si ottengono invadendo il mercato di libri di bassa qualità.
È un meccanismo automatico. Le opere di valore - di narrativa o di saggistica - hanno tempi di gestazione lunghi, necessitano di contributi da parte di più figure professionali, durano nel tempo ma hanno ritmi di assorbimento lunghi.
«Bah!», dice il CEO, «stampiamo un altro pseudo-Moccia».
Qual è la sorte delle produzioni indipendenti?
Per la saggistica di ricerca l'essere messa in commercio a un prezzo elevato (di nicchia = per pochi = costoso). Per la narrativa quella, semplicemente, di non nascere per nulla.
Inutile dire - come sottolineava anche André Schiffrin - che la sorte tendenziale di pubblicazioni risolutamente antagoniste allo stato delle cose è l'invisibilità, virtuale o reale.
Quando pensavamo che l'alleanza tra editori di proposta - ovvero editori «puri» –, librerie indipendenti, autori critici, traduttori, redattori e forti lettori potesse essere la chiave di volta per far saltare il coperchio di una grande editoria che produce - automaticamente - montagne di libri inutili e favorisce il conformismo intellettuale e artistico, eravamo probabilmente nel giusto.
Ma sarebbe necessaria una maggiore attenzione da parte del potere politico (Eh? Che cosa?) e maggiore sensibilità ai temi civili da parte dei grandi media. Che sono di proprietà delle medesime holding.
Al momento attuale in Italia non esiste neppure un politica a sostegno della lettura.
E poi dice: «tu per chi voti?».
Mapperpiacere...

14.3.08

A che cosa serve un editore? Capitolo 6

Post tosto, anzi tostissimo.
Si tratta di affrontare due-temi-due.
L'utilità dei premi letterari per opere inedite. L'utilità non in termini assoluti - esistono premi letterari che danno in omaggio prodotti locali come prosciutti, polenta, castagnacci, torte, salsicce, formaggi tipici, vino ecc. e che quindi sono sicuramente utili e preziosi - ma l'utilità ai fini di una possibile pubblicazione con qualche editore che vi dia del denaro (e non ve lo tolga) per ciò che scrivete.
In secondo luogo affrontare il tema dei concorsi per racconti.
Peggio che andar di notte, considerando che scrivo racconti, pubblico racconti, ho una moglie che scrive racconti, mia figlia ha preso un premio (75 euro) per un racconto pubblicato on line, ho un sacco di amici che scrivono racconti e che hanno vinto qualcosa pubblicando racconti. Che è come dire che praticamente TUTTI LORO o quasi possono legittimamente dire qualcosa in proposito e magari schiantarsi dalle risate leggendo le quattro scemenze che scriverò.
Ma contro il ridicolo sono assicurato, quindi proseguo.
Punto 1.
Ne abbiamo parlato diffusamente nel post precedente e nei commenti e repliche al post.
E abbiamo fatto una collezione di affermazioni necessariamente parziali. Nel senso che sicuramente vincere un premio - un premio che non preveda la pubblicazione del testo, naturalmente - migliora l'autostima, permette di avere un riscontro e persino di tirare su qualche soldino ma il non averlo vinto (qui sta il nocciolo del problema) non è necessariamente la controprova di nulla, se non del fatto che a qualcuno il vostro testo non è piaciuto. Può avere avuto ragione, certo, nel senso che avete idee banali, uno stile sciatto, un incipit barboso, un finale sconclusionato, inserite scene che non c'entrano un tubo, avete tendenza alle digressioni pseudofilosofiche, non avete ritmo o - peggio - avete troppo ritmo, tanto che il lettore rischia il nistagmo ecc.
Ma anche, forse, che siete un po' troppo originali, politicamente scorretti, sessualmente devianti, coltivate l'assurdo o l'iperreale.
O, semplicemente, che il lettore non sa bene dove appendere il vostro romanzo.
E ai lettori per i premi viene l'orticaria se non sanno dove appendere un libro.
Se non riescono a stabilire chi è il vostro padre nobile.
Le ascendenze.
Gli influssi.
I riferimenti.
I giurati dei premi sono quasi sempre forti lettori che per giudicare un libro debbono prima di tutto situarlo, operazione legittima e utile ma con un certo sapore scolastico. E che rischia di crocifiggere il malcapitato scrivente al suo vero o presunto riferimento.
Per essere abbastanza originali da sorprendere e circuire un giurato bisogna avere letto un bel po', tanto da non imitare (inconsapevolmente) l'autore prediletto. E bisogna avere sempre con sé un metaforica valigetta dalla quale estrarre le suggestioni e sistemarle.
Un momento alla Conrad, un attimo di Carver, un passaggio buzzatiano, una suggestione borgesiana, un tocco alla Cortazar, un'atmosfera ballardiana, un ricordo à la Proust.
Non una riscrittura di Marquez o di Raymond Queneau («ti ho beccato!», mormora il giurato), ma una combinazione personalissima di «ombre letterarie» guidate dalla vostra mano.
Il che è facile a dirsi, ovviamente...
L'importante, comunque, è che tutte queste ricchezza di riferimenti salti all'occhio dopo aver scritto e non prima. Possibilmente almeno un paio di mesi dopo aver finito di scrivere, quando il manoscritto è «freddo» e leggete soltanto le parole effettivamente scritte e non anche quelle soltanto immaginate.
Non è una mia soluzione, l'ha enunciata formalmente Calvino e chiunque scriva sa che è sacrosanta e andrebbe scritta nella pietra.
In tutti i casi fare il genio incompreso è peggio che inutile.
È chiaro che un genio viene riconosciuto persino dai lettori del Calvino ma un certo numero di buone idee affogate in un romanzo poco strutturato, grezzo e cigolante non permettono di vincere molto.
Non è il caso di buttarsi giù, comunque.
Il problema resta che è difficile capire perché il vostro romanzo non sia stato accettato.
E l'unica soluzione che mi venga in mente - a parte richiedere le schede di lettura, se il concorso le prevede - è quella di darlo da leggere a quante più persone diverse possibile.
Come si fa?
Beh, il romanzo che sto pubblicando a puntate in questo blog «Ultimo spettacolo» è stato scartato e vilipeso da - se mi ricordo bene - almeno tre premi letterari. Uno per «giovani narratori» (l'ho scritto nel 1995) e gli altri due per narrativa di genere.
È un romanzo pieno di difetti.
Possiamo far notte a enumerarli tutti e credo che, comunque, voi sareste addormentati da un pezzo mentre io ne sto ancora trovando qualcuno.
Resta il fatto che almeno qualcuno dei difetti scoperti da voi a me non sarebbe mai venuto in mente.
Bingo!
Certo, perché la gente venga a leggere il vostro libro dovete sbattervi non poco. Tenere in piedi e aggiornare un sito o un blog (che vuol dire lavoro), cercare di dire cose anche non mostruosamente intelligenti ma perlomeno plausibili (altro lavoro), rispondere gentilmente a chi vi scrive (lavoro, lavoro, lavoro...) e così via.
Il tutto senza nessuna garanzia che la prossima volta prenderete un premio...
Ma in fondo questo non è poi così importante, se nel frattempo avrete imparato almeno un pochino a scrivere e avrete trovato dei lettori... Che è poi ciò che dovrebbe spinge un autore degno di questo nome a scrivere.
Il mio parere, in definitiva, è che l'utilità dei premi ai fini della pubblicazione sia quantomeno dubbia.
Opinabile.
Perfino sospetta.
Sarà forse - o sicuramente - perché io di premi ne ho vinti ben pochi e anche quei pochi attribuiti per motivi curiosamente diversi da quelli da me immaginati.
Un'altra simmetria rispettata, a pensarci bene.
Oltre al dubbio che, in realtà, i premi non siano un punto di partenza per la pubblicazione ma un punto di arrivo.
Se sapete già scrivere avete buone possibilità di vincere un premio.
Ma che vi frega, a quel punto, di vincere un premio?
Resta il Punto 2.
Ma l'ho già fatta troppo lunga.
Ne parleremo presto.

12.3.08

In controtempo: colpo di coda


Lunedì scorso, il 10 marzo, incontro con i lettori organizzato da Alex Defilippi.
Incontro con i lettori nel senso che buona parte delle persone che ho incontrato avevano letto la mia antologia. E questo basta già a fare dell'incontro qualcosa per me di molto più che sorprendente. Praticamente di soprannaturale.
A fare da commentatore, allenatore e ottimo lettore di qualche brano dell'antologia Silvia Treves. Che poi sarebbe mia moglie. E che vale tant'oro quanto pesa. Unico difetto, a questo proposito: pesa poco. Quaranta chili e poco più, dei quali una buona parte in cervello di prima qualità.
Alex ha degnamente introdotto. Silvia ha presentato l'iniziativa editoriale e io...
Dovevo ben fare qualcosa per guadagnarmi la cena gentilmente offerta.
Qualcosa che non fosse parlare dei racconti - in diversi casi già letti - dire come andavano a finire o narrare dei miei traumi infantili per spiegare perché le mie storie sono così.
Sicché ho preparato un intervento un po' più generale sul narrare e sul rapporto tra autore e lettore. Di tutta la zuppa, che riporto di seguito, mi piace la definizione di "narratore in seconda battuta". Ovvero la semplice constatazione che chi legge è in realtà "coautore" della storia narrata. Nel senso che la reinterpreta, la distilla, ne sceglie una chiave e un possibile significato.
Di particolarmente piacevole nell'incontro la discussione che è nata sullo scrivere e sul suo artigianato, resa anche più interessante per la presenza di altre tre persone che hanno scritto e pubblicato. Alex, ovviamente, Silvia e Barbara, due volte pubblicata in due edizioni di Fata Morgana. Faticosissimo, infine, scrivere dediche che abbiano un senso, soprattutto a persone che si conoscono poco o per nulla... ma un prezzo che si paga con enorme piacere sapendo che sono persone che hanno letto qualcosa di tuo.
E adesso una parte del testo del mio intervento.
Naturalmente sarebbe bello poter riprendere la discussione a partire da queste righe.
Disponibilissimo, per quanto mi riguarda.

«Scrivere è un gesto appartato ma non solitario.
Nella scrittura si presuppone l'esistenza del lettore. Ovviamente fantomatico, nel mio caso, quando scrissi questi racconti. La scrittura in forma narrativa, a differenza del diario con il quale ha comunque profondi legami, si conforma a canoni e criteri universalmente accettati. Si accetta la forma narrativa e nel farlo si accetta la presenza di un lettore che si suppone interessato a ciò che si va raccontando. Si narra davanti a un pubblico potenziale, avendo ben presenti le norme definite per il tipo di scrittura scelta.
Ci si sforza di interessare, in sostanza, non potendo contare sull'educazione e la tolleranza dello sconosciuto lettore.
Si devono prendere decisioni preliminari. Tra queste il grado di libertà del quale si intende fare uso e di quello che si intende lasciare al lettore.
È un aspetto importante della scrittura, questo.
Gli autori possono essere ritrosi o invadenti, enigmatici o didattici. Possono temere di apparire o cercare di apparire. Possono tenere per mano il lettore o affibbiargli una carta appena abbozzata e scomparire.
Possono fornire una spiegazione unica e incontrovertibile al loro testo o lasciare che i loro testi rimangano ambigui e non del tutto esplicabili.
Sono personalmente convinto che la seconda via sia un buon punto di equilibrio tra le esigenze di chi narra e di chi legge, ovvero del narratore in seconda battuta.
La scrittura è un tentativo di imitare la vita, «imitation of life», come cantano i R.E.M.
Una ricostruzione in bottiglia di fatti, eventi, persone.
La scrittura narrativa - se onesta - non vanta pretese di esaurire il reale ma soltanto di alludervi, di rappresentarlo per sommi capi lasciando al lettore il compito di arredare anche gli angoli non illuminati, di immaginare lo scenario, il tempo, il luogo.
In questo senso la separazione tra letteratura fantastica e letteratura «realistica» è estremamente labile. Giudichiamo realistico ciò che crediamo di conoscere, ovvero la sezione illuminata del mondo che l'autore è disposto a concederci. Riteniamo fantastico un mondo nel quale la parte illuminata non è familiare al nostro sistema di riferimenti, o, simmetricamente, che è in gran parte avvolto nell'ombra.
Le opere ambigue lasciano al lettore la convinzione fallace di comprendere il mondo nel quale la vicenda si svolge. In questo senso «barano», illuminando parti non significative e nascondendone altre che potrebbero fornire al lettore elementi di valutazione e di giudizio.
In realtà, a mio parere, la loro «imitazione della realtà» è spesso più raffinata e attenta di molte opere ritenute «realistiche». La nostra nozione di realtà è infatti largamente insufficiente, limitata com'è dalla qualità della nostra percezione e dal nostro modo - personale e socioculturale - di organizzare le informazioni in arrivo. Tutti abbiamo sperimentato frustrazione per non avere saputo giudicare una situazione, i motivi di un comportamento, le conseguenze delle nostre stesse azioni.
Io mi sforzo di scrivere testi ambigui, ovvero di rispettare - nella forma e nella sostanza - l'ambiguità profonda del reale. Faccio il possibile perché sia chiaro al lettore che la nostra capacità di afferrare e giudicare il reale è ben lontana dall'essere infallibile.
In qualche caso mi sforzo consciamente di condurre il lettore a conclusioni errate o parziali.
In altri casi il meccanismo scatta anche senza un mio disegno prederminato.
Mi sforzo di concludere le mie storie senza fornire un'intepretazione univoca di quanto accaduto.
Scrivo storie frustranti, mi hanno detto.
È possibile, anzi probabile,.
Ma non riesco a trovarlo un difetto, nonostante tutto.»
Silvia Treves a Duino, come Rainer Maria Rilke...

9.3.08

Giovani per sempre invecchiano presto


A parlare troppo di lavoro...
Ma mi hanno provocato.
Mi ha provocato un articolo di Javier Marías, ottimo scrittore, pubblicato qualche giorno fa su «la Repubblica».
Marías, parlando con il suo libraio - AntonioMéndez - ha scoperto che per un libraio un libro uscito da un mese e mezzo è «vecchio». Non solo, Marías sottolinea, nello stesso articolo, che il suo amico libraio è «spossato dall'inondazione di novità editoriali che gli arriva ogni giorno e che trasforma la sua professione in un perpetuo aprire casse, tirar fuori libri, collocarli e restituirli - più che leggerli, raccomandarli e venderli».
Ci voleva Marías, viene da dire, per poter leggere su un quotidiano nazionale che il lavoro di libraio è diventato un incubo senza senso.
Ma come, non è una ricchezza la sovrappoduzione? Non è una fortuna? Il bengodi, il paradiso?
NO.
È la notte nella quale tutte le vacche sono grige.
Il Ragnarök dei buoni libri, annegati dentro una produzione alluvionale, idiota e proterva.
Marías fa notare che per scrivere un libro ci vuole tempo e fatica. Che un buon libro prevede una gestazione complessa e una nascita delicata.
«E dopo un mese e mezzo un libro costato un anno di lavoro è già vecchio?»
Già.
Ironicamente Marías osserva che gli scrittori - quelli veri - non lavorano in modo diverso dai loro colleghi di tre o quattro secoli fa mentre i media sono diventati rrrrrapidi, tanto rrrrrapidi da essere divenuti praticamente inafferrabili.
A reggere i ritmi dell'industria dei media possono essere soltanto i libri seriali, i cloni dei cloni, le imitazioni, le novelisation, gli instant-book.
Le rimasticature.
I mosaici ottenuti da altri libri.
Le riproposte di libri che hanno funzionato un tempo.
Vista sotto questa angolatura la distribuzione per mezzo delle librerie non ha più molto senso. Esattamente come non ha più senso il cinema che non si è fatto multisala o multiplex.
La fine delle librerie è probabilmente inevitabile ma è difficile dire chi la pianterà prima, se i librai o questo modello di sviluppo.
Ma forse anche l'articolo di Marìas è uno dei tanti piccoli sintomi. Forse uno dei tanti scricchiolii.

5.3.08

Il prossimo LN


Chi frequenta questo blog è probabile sappia già che sono editore e co-coordinatore di una rivista di attualità libraria, LN-LibriNuovi. Una rivista gloriosamente indipendente che esiste e resiste da 44 numeri (è trimestrale quindi sono 11 anni...), non facile da trovare - si può acquistare per abbonamento, sul sito o presso le librerie on line - ma curiosa e (sicuramente) diversa dalle altre.
Siamo dei piantagrane, innanzitutto. Facili alla polemica e al commento acidulo, poco impressionabili, per nulla devoti all'ortodossia letteraria, indisponibili a fare gli stuoini degli uffici stampa o a sbrodolarci e strisciare nel tentativo di metterci in vista con l'Autore. Ci filano in pochi, di conseguenza. E non ci invitano agli appuntamenti con la gente che conta.
Paghiamo la nostra preziosa libertà lavorando per la rivista a titolo gratuito, leggendo e scrivendo senza percepire alcunché, anzi cacciando per primi i soldi per l'abbonamento annuale.
È una rivista ondivaga nelle scelte, costituzionalmente anarchica dal momento che non prevede quasi mai scalette predefinite e viene montata e costruita sulla base degli articoli che arrivano, che sono lo specchio fedele dei gusti e delle passioni di chi collabora con noi.
Probabilmente è questo il motivo per il quale ci capita di sbagliare, di sottovalutare o sopravvalutare, di dare troppa importanza alle letterature di genere / degeneri, di ignorare fenomeni e esultare per i carneadi, di combinare accostamenti impossibili tra narrativa e scienza, tra poliziesco e filosofia, tra storiografia e fantasy.
In più sappiamo che i libri sono prodotti e stampati da qualcuno, che nascono o non nascono per un motivo e arrivano o meno in libreria per un motivo. Forse lo stesso...
In questo momento sto terminando l'impaginazione del prossimo numero, il 45, che uscirà dopo il 20 di marzo. È un numero eccellente. Lo so, dirselo da soli non è opportuno, ma lo faccio lo stesso. È una sensazione che ho quasi sempre. Penso: «questo numero è meglio di tutti quelli fatti finora».
Forse ho soltanto la memoria corta.
O forse no.
Se volete emergere nel mondo editoriale lasciateci perdere.
Presentarsi come uno «della redazione di LN» comporta strane reazioni. C’è chi comincia a sorridere e a dare di gomito, chi si rabbuia, chi dice: «ah, siete quelli che…». Capita raramente che qualcuno chieda: «della redazione di che?».
Segno che il mondo editoriale è davvero piccolo.
Sicuramente LN è un miracolo.
Più o meno come il calabrone che non può volare ma vola lo stesso.
E in più mi ha permesso di conoscere un sacco di gente meravigliosa.
Dal momento che gli ho dedicato un bel pezzo della mia vita, non è un cattivo risultato.
Anzi.

3.3.08

Attivo, passivo e disponibile a tutto


Titolo ambiguo, volutamente.
Alcuni piccoli fatti mi hanno costretto a riflettere su un interrogativo che, immagino, tutti i lettori almeno una volta nella vita si sono posti. Che, enunciato semplicemente suona come: «meglio leggere o essere letti?».
Così presentata la domanda è indiscutibilmente idiota. Ma articolata meglio può forse permettere qualche riflessione. Cominciamo a trasporla in un altro campo dell'umano agire: la cucina.
«Meglio mangiare o cucinare?»
Se possibile la domanda appare anche più cretina.
Ma, in qualità di cuoco di lungo corso (anche se non eccelso o originale), mi rendo conto che tanto cretina la domanda poi non è. Amo mangiare cibi cucinati con cura e attenzione e, se ne ho l'occasione, sono felice di prepararne personalmente per la gioia che mi dà vedere altre persone contente di assaggiare qualcosa che apprezzano.
Ho cucinato per anni raggiungendo una certa perizia ma non mi considero un professionista. Al massimo ho imparato qualche trucco per risparmiare tempo e qualche piccolo accorgimento per rendere un più gustoso un piatto senza caricarlo di calorie. Mi interessa assaggiare cibi cucinati da altri perché possono fornirmi idee e nuove soluzioni e detesto i piatti nati con l'intenzione di stupire ma senza sostanza e senza amore per la pratica gastronomica.
Mi rendo conto , a questo punto, che ho praticamente enunciato anche il mio punto di vista sulla letteratura e sull'agire letterario.
Richiamando due figure geometriche elementari, il segmento e il cerchio, posso provare a pensare una sorta di diagramma. Sul segmento posso fissare un estremo A (massimo piacere nel leggere, minimo nell'essere letto) e un estremo B (il contrario) e stabilire un punto C a piacere a una distanza da A e B tale da definire la mia posizione in proposito. Fin qui il segmento. Poco interessante, ammettiamolo.
Il cerchio, ora.
Non ha estremi.
Il punto nel quale A e B sono più lontani è anche il punto nel quale coincidono.
Praticamente impossibile fissare la propria posizione in maniera inequivoca. «Io sono qui» non ha senso, dal momento che posso essere distante da A un semplice arco oppure, percorrendo il cerchio nell'altra direzione, l'intero cerchio + l'arco.
Se non posso fissare la mia posizione in maniera precisa sono costretto ad ammettere che è preferibile non fissare una posizione precisa in proposito. Leggere, scrivere, essere letti sono tutti atti che si trovano all'interno di un ininterrotto anello, proprio come cucinare.
Non esistono estremi, ma diversi momenti all'interno di una medesima traiettoria circolare.
Questo mi conforta molto.
E mi conferma che non si può essere buoni autori senza essere lettori anche migliori.
Che si deve assaggiare e riflettere, gustare e confrontare, provare ma essere anche pronti a buttare tutto in pattumiera.
La scoperta dell'acqua calda, in apparenza. Ma forse non troppo, dal momento che viaggiando per il web e nel mondo letterario si incontra spesso gente che parla del proprio scrivere - ma anche del proprio leggere - come di un gesti che dividono la letteratura tra un «prima di me» e un «dopo di me», spesso senza neppure rendersene conto.
Il web letterario diviene spesso, così, una serie di gabbie di babbuini dove ognuno deve affermare il proprio ruolo di individuo alfa.
Ruolo che, non essendo un babbuino, lascio volentieri a chi ci tiene.