30.10.18

Calibano: Metamorfosi


È stata colpa di Rumpus. Non era tornato a casa alla solita ora e sono uscita a cercarlo. L’ho trovato dopo aver camminato un bel po’, nel giardino di Villa Magistri. Lo so che non si può ma io sapevo come entrare, l’ho visto fare dai bucomani. Comunque Rumpus era con altri trenta o quaranta mici, tutti accucciati in cerchio a guardarsi senza muoversi. Mi hanno ignorata completamente e io non ho avuto cuore per disturbarli: sembravano così concentrati, così convinti. Sono passati anche un paio di tossico che ci hanno guardato e poi sono scappati borbottando qualcosa sul medioevo e sulle streghe. Dopo un’oretta di litigi e soffi i mici hanno smesso di colpo e si sono messi a miagolare tutti insieme. Avresti dovuto sentirli: un vero coro di trapassati che rimpiangevano la vita perduta. Io li ascoltavo godutissima. Pensavo a quanto stavano rompendo le palle al vicinato, a tutte le coppie che avrebbero litigato perché svegliate in piena notte, ai bambini picchiati, ai nonni brutalizzati perché maledicevano i tempi in cui vivevano, ai tossico terrorizzati, a tutti gli imbecilli che soffrono d’insonnia che avrebbero passato la notte a far solitari e mi sentivo proprio bene. Temevo solo che qualcuno avesse il cattivo gusto di chiamare la pula, ma per fortuna…Stavi dicendo qualcosa?
– No.
E. ha rinunciato da tempo a cercare di instillare un po’ di amore per i suoi simili nella cugina. Ma non è che lei si senta migliore, più furba o più intelligente della media. Probabilmente Mirella è solo delusa, un’osservatrice troppo acuta e sensibile per non soffrire delle infinite scemenze e falsità che vede o sente. Come tanti altri «più conosce gli uomini e più ama gli animali» e fa la faccia feroce per non farsi un fegato così. Ma è una brava ragazza, un cuor d’oro. Giuro.
– …Poi, sul più bello del concerto è arrivata la nave e ne è sceso un tizio che si è messo a parlare con i gatti. Parlava in italiano, il che mi è sembrato un po’ strano, e diceva qualcosa sulle condizioni insalubri di vita dei mici. Rumpus ha fatto un paio di osservazioni sull’eccesso di automobili e sulla loro pericolosità e… Ma cosa stavi dicendo?
– Niente, niente… – La scena non é molto diversa da quella alla quale ha assistito lui ed è quindi inopportuno che metta in dubbio le capacità raziocinanti e la conversazione dell’enorme Rumpus, un gatto che per dimensioni e malevola perfidia ricorda Alfred Hitchcock. – Ho visto Rumpus entrare nella nave ed ho gridato. “Rumpus, dove cazzo credi di andare?” L’ultima cosa che ricordo é il pilota che veniva nella mia direzione. Mi sono svegliata qui dentro con una punta di mal di testa e con te che russavi. Tutto qui.
E. la fissa e scrolla la testa.
Mirella é sicuramente capace di gridare dove cazzo credi di andare anche in presenza di un alieno. Dal suo racconto comunque desume un fatto fondamentale: contrariamente alle sue speranze anche la Puffa Cannibale é sprovvista di nozioni sulla loro destinazione e sulla loro sorte. 

 
– Adesso Rumpus dov’é?
– Cosa te ne frega, vuoi pestargli la coda un’altra volta?
– SSHHHT, vuoi farti sentire dal pilota?
– Beh, lì afferma di essere buono.– Mirella indica la scritta sulla lavagna. – Un po’ rintronato, magari, ma buono.
– Non intendevo…cioè …– Cerca di proseguire E.
– Rumpus non si vuole sbottonare, se è per questo che lo cerchi. Dice che ci sono in ballo cose grosse e che non è ancora il momento di spiegarci tutto. Comunque puoi chiederlo al pilota, è proprio dietro di te.
E. si gira di scatto, sentendosi nei panni del dottor Van Helsing nel sotterraneo del castello di Dracula. Ma essendo più lungo e sgraziato di Peter Cushing inciampa nel sacco a pelo gentilmente prestatogli dall’alieno, cade e si aggrappa ad uno dei banchi della prima fila che decide di seguirlo nella sua corsa. Raggiungono felicemente il pavimento insieme producendo un bel frastuono metallico e vocale. Non pago dell’esibizione balza in piedi, giudicando troppo assurdo l’essere sorpreso abbracciato ad un banco da un alieno, e infila un piede nel cestino della carta straccia.
I suoi tentativi di liberare il piede, simili agli sforzi di una distinta signora assillata da un barboncino allupato, non provocano reazioni sul viso rugoso e grigiastro dell’alieno, che si limita a circumnavigarlo cautamente, reggendo nelle mani a tre dita un ampio vassoio. Il vassoio viene quindi posato su un banco alle spalle di Mirella e l’alieno Pelagio dichiara con voce compunta, il viso rivolto verso la parete di fronte: – Il caffè. 

 

 
Di quale strana razza fa parte il pilota alieno? Dove è diretta la sua astronave? È buono il caffè degli alieni o è una sciacquatura di piatti bollente come in certe bettole della provincia francese?
Perchè Mirella ed E. sono stati rapiti? Quale segreto nasconde Rumpus, il gatto senziente di Mirella? Perché Mirella si diverte a spiare l’effetto della sua biancheria intima sul povero cugino?
Tutte tranne l’ultima sono domande di grande rilevanza, e le risposte avrebbero il sicuro effetto di cambiare la vostra concezione del mondo e di accorciare di un buon centinaio di pagine il romanzo.
Ecco perché risponderò solo all’ultima, in quanto decisamente la meno significativa.
Mirella, nata nel 1988, nove anni nel novantantasette come da foto che non allego, con in mano una lucertola e una serie completa di ditate fangose sulla guancia, è sempre stata una creatura tenacemente sovversiva, ironica e disincantata, una specie di versione padana di Marlowe.
Di femminile in senso classico Mirella ha sempre avuto poco: dopo un’infanzia passata a capeggiare gruppi di ragazzini nell’esplorazione di cunicoli e fabbriche abbandonate – abitudine che la madre, donna perbene, attribuiva all’influenza del padre speleologo – dopo un gran numero di scontri all’arma bianca con altri gruppi di ragazzini nemici che avevano reso la sua concezione del mondo molto simile a quella di un sergente cinquantenne dell’Armeé napoleonica, dopo infinite cadute dalla bicicletta e dagli alberi, zuffe nel fango ed eroici assalti a fortini dagli spalti di siepe, un brutto giorno aveva scoperto che il suo petto invece di rimanere piatto e duro come quello di un maschio, cresceva e si rammolliva.
La minuziosa e pedante educazione sessuale ricevuta dal padre le aveva permesso di capire ciò che le stava accadendo ma non l’aveva affatto consolata. Il regalo del primo reggiseno (di cotone bianco a farfalline rosa e gialle) era stato il sigillo della metamorfosi, alla quale Mirella undicenne assisteva con orrore, come il protagonista di un film di fantascienza contaminato da qualche disgustosa malattia.
Inutile era stato anche il rogo del reggiseno, avvenuta in una notte di novilunio in presenza dei ritratti sottratti allo studio del padre di Von Wegener e di Lyell, testimoni rispettabili e concentrati dell’incantamento. 

 
Ma entro pochi giorni Mirella dovette registrare l’inutilità del sortilegio oltre alla scarsa serietà dei geologi passati presenti e futuri. Nelle zuffe, negli assalti, infatti, i suoi stupidi compagni di giochi non sembravano più tanto interessati a vincere, quanto a far durare il più a lungo possibile il contatto, facendo scivolare le mani sul petto incriminato o su altre parti altrettanto metamorfiche.
Infine si era arresa alla verità: i ragazzi non la vedevano più come una di loro. Alcuni, i più misogini, come tanti Padri della Chiesa erano già corsi ai ripari, rimproverando i compagni che svilivano l’impeto guerresco nelle mollezze della sessualità e combinando appuntamenti senza avvisarla.
Si può immaginare lo stupore addolorato di Mirella, sergente malauguratamente divenuto transessuale, e l’amarezza consumata in sella all’eroica bicicletta dalle ruote semiovali, sola nel parco a pensare alle malefiche neotette, infiorellate dal secondo reggiseno.
Si era chiusa in casa uscendo solo per frequentare la scuola. La precoce delusione l’aveva resa amara, accentuando il suo già sviluppatissimo senso critico, tanto da farne uno spauracchio per insegnanti e compagni che temevano il suo umorismo perfido e surreale.
La trasformazione non aveva comunque migliorato il suo giudizio sul sesso femminile, che continuava a ritenere formato per metà da stupide galline e per l’altra metà da noiosissime piagnone, accomunate da un romanticismo da fumetto al quale dedicava i suoi peggiori sarcasmi. Ma quell’atteggiamento così reciso l’aveva privata della confidenza e dello scambio di esperienze, lasciandola, per quanto riguarda il mondo del sesso, nella stessa situazione di un antropologo di fine ottocento laureato a Tubinga appena sbarcato in un isola dei mari del Sud. 

 
La seduzione era rimasta per lei una mera bizzarria, un fenomeno simile alle migrazioni dei Lemmings o all’infanticidio negli orsi. Spiando le compagne di scuola aveva sí scoperto alcuni trucchi base – accavallare le gambe o sgranare gli occhi – ma non aveva mai trovato un ragazzo che reggesse per più di dieci minuti filati al suo humour.
E così, tra tentativi e frustrazioni Mirella aveva girato la boa dell’ adolescenza, trascorrendo lunghi pomeriggi in compagnia una fornitissima biblioteca di orrore e letteratura gotica. Approdata alla convinzione che l’altra metà del cielo non fosse poi tanto più furba, Mirella riusciva a sopportare quasi solo la compagnia del cugino, creatura dal cervello embrionale, ma dotata della serenità stuporosa necessaria a tollerare la sua ironia e di gusti ed interessi talmente rudimentali da non intralciare in alcun modo i suoi.

Nessun commento: