26.10.18

Calibano: L'Astronave di Jeeves


L’acqua fluisce lenta e lattiginosa senza creare schiuma ai due lati della barca. Lo scoppiettio del motore risuona amplificato, disarmonico sulla superficie immobile e liquida delle acque che mandano un profumo intenso, insieme acidulo e salmastro.
E. immerge una lunga pertica. Il fondo è compatto ed elastico, vibra leggermente come la pelle di una creatura viva. Il cielo, di un candore abbagliante, è chiuso dalle curve simmetriche di due montagne lisce e pallide, seminascoste dal riflesso chiaro.
E. alza il capo con lentezza malinconica e lascia che il suo sguardo si perda lungo le superfici debolmente illuminate delle due alture, la mente attraversata da una blanda eccitazione ma il petto oppresso dal desiderio di abbandonarsi ad un pianto silenzioso.
Le rive sono immobili, curve, incoronate da una fitta vegetazione scura e di consistenza cornea che sale ad arcuarsi su di lui. Il motore ansima troppo forte in quella quiete irreale ed E. decide di spegnerlo, lasciandosi portare dalla debole corrente.
Va a poppa e si china sul motore.
Solleva il coperchio di plastica nera che lo ricopre scoprendo le lucide pareti curve di ceramica bianca che affondano sotto il livello dell’acqua priva di riflessi.
Un movimento brusco della barca spruzza alcune gocce d’acqua sul pavimento di piastrelle a fiori della barca. Si china a pulirle, affannato da un improvviso senso di colpa.
Ma le gocce appena toccano la ceramica si trasformano in spruzzi di calce impossibili da togliere. Altre gocce cadono sul pavimento della barca che oscilla pazzamente ed E. sudando, bestemmiando si inginocchia a grattarle inutilmente. Il motore pulsa più forte ed in lontananza sente la voce di Mirella che lo chiama: “Edoardo… Edoardo…”
– EDOARDO!!!
–…Gram…Hfff…Epr…– grufola E. agitandosi e cercando di nascondere la testa sotto il cuscino. Ma data l’assenza di qualunque tipo di cuscino si copre la faccia con le mani, provando un’intensa quanto passeggera sensazione di sollievo.
– Edoardo, vuoi aprire gli occhi? Non sei nella tua cameretta, angioletto di mamma.
E. apre un occhio. Vorrebbe rispondere con una frase insieme amara e sferzante ma si inceppa.
Mirella sta seduta su qualcosa che assomiglia molto ad un banco di scuola delle dimensioni adatte a contenere un giocatore di basket. Ma questo è niente: la stanza che li contiene è circolare e sulle pareti ci sono gigantesche illustrazioni molto colorate che recitano in corsivo e in maiuscolo: UVA uva, IMBUTO imbuto, RUOTA ruota, CASA casa, GATTO gatto ecc.. Insomma c’è qualcosa di strano, bizzarro, singolare, assurdo, imprevisto ed imprevedibile, anche se nemmeno E. potrebbe definirlo minaccioso. 
 
– Ma… – E. guarda anche con l’altro occhio, quello con tre diottrie in più, senza che nell’insieme cambi qualcosa.
– Non dormi abbastanza, Edoardo? Non credevo che a fare un tubo come te ci si potesse stancare. – Mirella accavalla le gambe alla Sharon Stone mostrando 1.5 cm quadrati di slip neri, con l’intento di galvanizzare l’ottuso cugino. Oltre alla mini nera da esibizionista punkeggiante Mirella porta una felpa altrettanto buia con la scritta «Save the Wild Life: Kill the People».
E. non riesce – ma a questo è abituato – ad estrarre dal suo cervello le parole necessarie per una replica, men che mai spiritosa. Tra l’altro la vista della biancheria intima di Mirella lo illumina miracolosamente sul luogo del suo viaggio onirico e sulla quantità di esagerata di ingrandimenti elaborata dal suo subconscio. Si scombussola ulteriormente arrossendo fino alla radice dei capelli.
– Dove siamo? – Chiede come un rinvenuto da fumetto.
– Su un’astronave.– Mirella ha un tono leggero, salottiero, quasi annoiato. – Il pilota è un coso alto più di due metri vestito di una tuta argentata. Proprio come nei film di fantascienza a basso costo che ti piacciono tanto.
E. si solleva su un gomito e si guarda intorno sorridendo. Inarca anche le sopracciglia a esprimere elegante scetticismo e raffinata incredulità: – Mirella smettila di scherzare. Tira fuori una voce tale e quale il doppiatore di Clark Gable in Accadde un notte, cult-Movie di mamma.
– Puoi anche non crederci, caro il mio torzolone. Speriamo che non passi il controllore.
E. abbandona i modi impostati e cerca di ridurre a senso compiuto la frase della cugina, arcinota per avere girato l’intera Europa con la fotocopia di un biglietto usato.
– Controllore, che controllore?
– Chissà. Forse c’é anche qui. – Mirella ridacchia. – Ma stai tranquillo. Non credo che possano buttarti giù lungo la strada.
– Mirella, mica parli sul serio?
– Certo, cuginetto mio. Perchè non guardi la tua bussolina?
E. si illumina e consulta la bussola- portachiavi che porta perennemente appesa ad un passante del jeans. – ODDIO! – Urla. – Non c’é più il Nord.
Mirella scrolla la testa. – Chissà dov’é finito il tuo Nord.
– Ma allora é vero.
– Così pare.
– Su un astronave! Ma come fai a star lì seduta tranquilla, dov’é il pilota, dove stiamo andando?
– Il fatto è che l’ho visto e quindi non potevano lasciarmi andare. Non è per i giornali della Terra, che tanto nella Galassia non li legge nessuno. Penso che sia perché poco o tanto romperanno le palle anche a loro. Avranno anche dei superiori. Rumpus mi ha detto che è un problema del genere e che comunque non devo preoccuparmi. 

 
E., rimbambito dall’emozione, non prova neppure a discutere un’altra volta con Mirella sulle presunte capacità del gatto – Rumpus per servirvi – di parlare, e si concentra sugli altri problemi del momento, il primo dei quali (non in ordine di importanza) è un fastidioso ronzio ansimante, in tutto e per tutto simile al rumore di un motore fuoribordo giù di corda.
– Cos’è questo?
Mirella si schiaccia la punta del naso con un dito e risponde con la voce dell’ispettore Callaghan. – È il pilota che fa il caffè.
Le parole di Mirella arrivano alle orecchie di E. che, come di dovere, le inviano all’encefalo attraverso il nervo acustico. Là vengono girate e rigirate con imbarazzo, etichettate con la scritta «inaccettabili» e spedite in un’area poco frequentata del cerebro, in attesa che qualcuno venga a reclamarle.
Mentre ferve questo lavorio inconscio il protagonista maschile della nostra storia è comunque arrivato ad una conclusione abbastanza definitiva: anche lui è stato rapito dagli alieni.
Lo stordimento dura un attimo e lascia posto ben presto a due fortissime emozioni:
1) La rabbia per non riuscire a farlo sapere ai suoi amici e soprattutto a tutti coloro che lo giudicano un cretino.
2) La paura.
Si alza in piedi.
L’ampia stanza insiste ad avere l’aspetto di un’aula di una scuola elementare. Alle sue spalle, oltre ad un altra fila di banchi c’è anche una cattedra regolarmente scrostata ed un cestino di rete metallica che trabocca di cartacce e di schegge di matite temperate. Non manca nemmeno la lavagna a quadretti, dove spicca la scritta: “BUONI: Pelagio”.
– Chi è Pelagio? – Chiede E., conscio di fare la domanda più cretina tra tutte quelle che gli sono passate per la testa.
– Boh? Credo che sia il pilota. – Mirella si stringe nelle spalle. – Un tipo infantile direi, visto come ha arredato la nave. Ma tu come ci sei finito qui?
E. spiega brevemente, trascurando solo di citare «Macrosesso». Narra di un misterioso impulso che lo ha spinto in un luogo isolato, di ratti vestiti da vescovi che cantavano brani dei Carmina Burana, della terra vetrificata al contatto con gli scarichi della cosmonave, dei miliardi di voci che ha udito durante l’atterraggio – da Pink Floyd prima maniera – della misteriosa arma dell’alieno, dello stupore nel vederlo intrattenersi con i ratti ed infine dell’inevitabile oblio.
E. chiude la bocca soddisfatto. Il quadro del suo rapimento lo soddisfa e riverbera su di lui una luce di grandezza e di superiore sensibilità.
Definire il racconto una grossolana esagerazione, se non proprio una semipanzana, è senz’altro giusto, ma E. da un decennio e passa le studia tutte per portarsi a letto Mirella, con esiti finora dubbi o umilianti. E poi è sempre stata una sua caratteristica arricchire il poco che gli accade di riflessi fatali e di significati reconditi.
Mirella ridacchia e lo fissa con i grandi occhi scuri sgranati.
E. si sente improvvisamente ridicolo: un goffo cacciapalle pescato in castagna. Si rabbuia e chiede: – E tu come sei stata rapita? 

 

2 commenti:

Nick Parisi. ha detto...

Un altro capitolo divertente,specie per Eduardo. ;)

Massimo Citi ha detto...

@Nick: purtroppo ho dovuto interromperlo a metà per motivi di spazio. Non posso pretendere che un lettore arrivi a smazzarsi 5 o 6 pagine di un testo tramite PC o i-phone. La seconda parte del capitolo arriverà domani (martedì).