25.1.08

Anche se il peggio deve ancora venire...

Interrompiamo i programmi parte seconda.
Riporto qui integralmente la lettera al presidente della Repubblica Napolitano, «Solidarietà ai docenti della Sapienza a difesa della laicità del sapere» promossa dal blog AppelloLaico.

To: Presidente della Repubblica Italiana Napolitano, Rettore della Sapienza Guarini

Esprimiamo la nostra piena solidarietà e la nostra gratitudine ai docenti firmatari dell'appello affinché la partecipazione di Papa Benedetto XVI all'inaugurazione dell'anno accademico venisse annullata.

Apprezziamo la sensibilità del Papa per aver declinato l'invito; non altrettanto si puo` dire del Rettore Renato Guarini, che si è mostrato inadatto al ruolo che ricopre, incapace di tutelare la laicità dell'Università e il dialogo universale. Inadempiente alle sue responsabilità di garante, ha posto i firmatari del suddetto appello nella scomoda posizione di dover supplire ai compiti di garanzia che gli sarebbero stati propri e determinato una spiacevolissima situazione.

Siamo inoltre stupiti ed amareggiati per la superficialità con cui esponenti politici e istituzionali di primo piano, tra cui dispiace in particolar modo dover annoverare il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il Ministro dell'Università Fabio Mussi, si sono uniti al linciaggio morale cui i firmatari dell'appello sono stati e sono tuttora sottoposti.

Infine, ci dichiariamo esterrefatti dalla devastante superficialità ed incompetenza di gran parte della stampa, che si è lanciata alla ricerca dello scoop nel migliore dei casi, o della strumentalizzazione politica nel piu` frequente. In particolare, è stato completamente stravolto il significato dell'appello, non certo inteso a tacitare una voce e a impedire il dialogo e il confronto, ma a tutelare il profondo significato storico e morale dell'inaugurazione dell'anno accademico, la piu` solenne cerimonia accademica, nella quale l'università celebra la libertà del sapere universale, idealmente libera da qualunque condizionamento e patronato.


Per aderire e firmare bisogna cliccare sul titolo di questo post.
Quod fecit. Beh, che cosa aspettate?

23.1.08

Interrompiamo i programmi...

« Sospesa la ratifica della nomina di Maiani alla presidenza del Cnr.
Era di due giorni fa la notizia che Angela Filipponio Tatarella, parlamentare di Alleanza Nazionale, aveva chiesto al governo di bloccare il procedimento di nomina del professor Luciano Maiani, cittadino sammarinese, alla presidenza del Cnr per essere tra i firmatari del documento che ha portato a 'censurare' papa Benedetto XVI.
E' datata 17 gennaio la notizia del Corriere della Sera che si riporta per intero:
Avrebbe dovuto essere ratificata ieri nella commissione cultura del senato. Ma la nomina del fisico Luciano Maiani alla presidenza del Cnr è stata sospesa: troppe le polemiche per la lettera sul Papa.
Maiani, infatti è stato uno dei 67 firmatari della lettera che ha definito "incongrua" la visita di Benedetto XVI alla Sapienza, facendo esplodere le proteste.
"Sono stato io stesso a chiedere una pausa di riflessione" ha spiegato Giuseppe Valditara, Senatore di An e segretario della commissione. E ha spiegato: "ho pensato fosse importante questa pausa per rasserenare gli animi e consentire al professor Maiani di chiarire la sua posizione".
Valditara ha precisato che: "la ratifica è stata rinviata a data da destinarsi. Non ha senso una nomina con il parlamento spaccato a metà: non possiamo dimenticare, infatti, che la proposta della presidenza di Maiani era stata bipartisan" ».

Fonte: Libertas

Bene. Debbo ritornare al post sulla visita del papa alla Sapienza. A chi ha indebitamente citato Voltaire per sostenere il diritto - del tutto fuori contesto - di un appartenente a un'istituzione medievale a sovrintedere all'inaugurazione di un anno accademico. Questi sono i frutti avvelenati. Mi piacerebbe sapere chi difenderà a questo punto il diritto del professor Maiani di definire "incongrua" la presenza del papa alla Sapienza. Il diritto di svolgere un lavoro per il quale è abbondantemente qualificato, violato da un politicante di ispirazione fascista. L'essere allontanati dal proprio lavoro per avere espresso liberamente le proprie opinioni non è precisamente ciò che è accaduto sotto tutto i regimi fascisti?
Si potrà dire che si tratta del semplice zelo di un individuo meschino ansioso di mettersi in vista. Gli individui come Valditara guidavano i treni per Auschwitz, direbbe Deutlav Peukert. Lo zelo dei mediocri è la notte del fascismo.
Spero che la stupida e imbelle sinistra italiana si alzi a protestare. Ma sono pessimista.

A che cosa serve un editore? Capitolo 3


Sono contorto e quindi ritorno al primo post sul tema, ovvero al capitolo 1.
Ricordate? Elvezio Sciallis, lettore attento e acuto oltre che a sua volta autore, comunica a chiunque passi sul suo blog che non ha più intenzione di scrivere di libri editi a spese degli autori, autoprodotti eccetera. Una scelta che sembra andare nella direzione esattamente opposta alla scelta di autoproduzione che viene sempre più spesso adottata nel campo musicale e cinematografico.
Io, libraio e da lungo tempo collaboratore - oltre che editore, ma questo ha molta meno importanza - di una rivista di recensioni, non posso che dargli ragione. Assolutamente e completamente ragione.
Interrogo il me stesso di una decina di anni fa.
Che cosa avrei pensato di questo me stesso più vecchio, così reciso nel negare una possibilità a un nuovo autore?
Non troppo bene, certo.
«Bello st...zo».
Eppure penso di avere delle ragioni.
Altro passo indietro. Ricordate Viligelmo D. che ha speso cinque milioni per restare nessuno? Ho affermato che tale scelta smascherava un atteggiamento profondamente sbagliato nei confronti della narrativa.
Non sbagliato in un senso astrattamente morale. Siamo soltanto esseri umani, quindi lasciamo pure la morale a chi si illude di non esserlo.
Sbagliato nel senso di controproducente, ovvero autolesionista e ingannevole.
Perché controproducente?
Semplice. La fama di certi editori arriva ovunque. Essere pubblicati da uno di loro (ricordate "La Garaunta"?) è sicuro indizio quantomeno di un testo non curato né redatto o rivisto da nessuno che non sia l'autore o, al massimo, qualche amico o conoscente più o meno competente. Mentre scrivo mi basta alzare lo sguardo per vedere un mezzo scaffale carico di questo genere di libri inviati alla libreria o alla redazione di LN, libri mal impaginati, peggio corretti e con copertine nella migliore delle ipotesi artigianali, nella peggiore semplicemente grottesche.
Un aspetto importante ma spesso trascurato del libro è che esso è, entro certo limiti, un'opera collettiva, frutto del lavoro dell'autore ma anche di chi ne ha curato l'edizione, del correttore di bozze, del grafico che ne ha scelto la copertina, del tipografo che lo ha realizzato. In questo senso affidare il proprio libro a un editore di vanità (questa è la definizione corretta, anche se un po' deprimente) è un modo egregio per sprecarlo - se vale qualcosa - o per autoilludersi e non imparare nulla sulla natura dei libri se il libro non vale granché o non vale nulla..
La funzione di un buon editore possiamo dire stia tutta in questa capacità di trasformare un sogno grezzo sognato dal suo solo autore in un sogno che tutti abbiano potenzialmente la possibilità di sognare. La realtà è che spesso i libri autoprodotti nascono per la stragrande maggioranza già morti. Una volta assolta la loro breve funzione di autoillusione diventano come quei ritagli di giornale che raccontano della volta che si è vinta la gara di biliardo o si è vinto un premio per la ceramica, dimenticati in un album e da nascondere ai figli.
Scopo di un buon editore è pubblicare libri che non scadano.
Ma che cosa debbono fare gli autori che non riescono ad arrivare alla pubblicazione?
Autoprodursi?
Può non essere un'idea da buttare via.
Cito da un intervento di Davide Mana sul suo blog strategie evolutive:

. un titolo originale - credetemi, è di una difficoltà pazzesca.
. una bella copertina - assoldare un professionista per l'illustrazione potrebbe non essere una cattiva idea. Esistono siti nei quali artisti di professione e dilettanti mettono in mostra le proprie opere. Farci un giro e cercare contatti potrebbe essere una buona idea.
E poi necessario ricordare che una copertina non è semplicemente una figura con un testo appiccicato sopra, ma deve avere un certo design.
Scelta di caratteri (font, dimensione, colore, effetti), posizione dei diversi elementi e quant'altro è fondamentale - si può ammazzare un'immagine bellissima o aggiungere carattere ad una figura qualunque.
. editing e impaginazione professionali - un font di buon gusto, testo giustificato, interlinea che renda agevole la lettura, niente refusi, formattazione consistente…
Ne abbiamo già parlato ma lo ribadiamo: non limitarsi a Word o OpenOffice per preparare il testo finale, ma usare una cosa tipo LaTeX o Scribus.
Fin qui, per la parte di produzione del libro.
Lo scopo è quello di lucidare al massimo la nostra gemma, se vogliamo che brilli fra il pattume.
Veniamo ora alla promozione del nostro prodotto
. ISBN - primo e fondamentale accorgimento, distingue i libri seri dalle opere dei dilettanti. Costa, ma ci garantisce la rintracciabilità globale del testo; in questo modo anche le librerie on-line potranno ordinare e rivendere il volume.
. un sito di presentazione che riprenda illustrazione e design del volume, e che regali un capitolo in formato pdf e il wallpaper della copertina, per fare in modo che i lettori si facciano un'idea non solo della qualità del testo, ma anche della qualità dell'oggetto.
È probabilmente il caso di spendere 25 euro e comprarsi un dominio.
Il sito dovrà anche accogliere un calendario delle nostre apparizioni pubbliche (ne parliamo fra un attimo), e magari un po' di blog per informare lettori e curiosi delle nostre attività.
Non sarebbe male poi avere un booktrailer (lo si fa con flash o con synfig) breve e di buon gusto da piazzare in giro sulla rete… YouTube, MySpace, siti e blog di amici e supporter etc.
. sbattersi - a morte. Conferenze, presentazioni, saloni, sagre di paese, serate in parrocchia, corsi per i boy scout. Senza svendersi, ma bisogna essere presenti.
Si comincia in piccolo, ovviamente, ma poi ci si può allargare. Senza bruciare le tappe.
Serve a vendere più libri?
Non credo.
Ma conoscere di persona i lettori potrebbe aiutarci a capire perché certi elementi di ciò che scriviamo piacciono ed altri no.
E le nostre foto circondati dal pubblico faranno un figurone sul nostro sito.


E se invece si volesse proprio cercare un editore interessato?
Beh, ne parliamo nella prossima puntata...

17.1.08

Perché non Rocco Siffredi?

Nonostante tutto non riesco a indignarmi per la mancata presenza del papa all'inaugurazione dell'anno accademico alla Sapienza di Roma.
Nonostante appaia inopportuno e poco saggio, intollerante, per nulla voltairiano, degno di un neolaicismo ateizzante e cattolicofobico, non riesco a capire il motivo per il quale il papa avrebbe dovuto essere presente a un rito ridicolo finché si vuole ma che celebra un'istituzione laica e scientifica. L'attinenza di Herr Ratzinger con l'università pubblica è probabilmente inferiore a quella di Bepppe Grillo, di Bono, di Cristina Aguilera o di Rocco Siffredi.
Quest'ultimo, in compenso,non avrebbe meritato un invito in quanto esperto di amore, sia pure non spirituale?
Il nostro Rocco sarebbe stato adeguato - è uomo di mondo ed educato - anche se scopo del rettore fosse stato semplicemente quello di convocare un po' di VIPpame per dare lustro all'ateneo.
E invece ha inviato il papa, facendo girare i santissimi a un certo numero di persone.
Sono modestamente convinto che scopo fondamentale dello sciagurato rettore fosse quello di arruffianarsi anche Herr Joseph Ratzinger (l'università in Italia se la passa malissimo), senza però dedicare nemmeno un pensiero all'attuale rapporto tra scienza e religione cattolica costituita. Non tra scienza e fede, beninteso, ma proprio tra il fare scienza e l'istituzione ecclesiastica. E gli esempi di pesanti invasioni di campo da parte della Chiesa sul terreno della ricerca e del pensiero scientifico sono innumerevoli e parecchio tossiche. E non sto parlando soltanto di Galileo (che l'ha passata liscia) o di Giordano Bruno (che invece ragionando di infiniti mondi è andato bruciato) ma di posizioni su staminali e fecondazione che rendono parecchia gente infelice e ancora di più ne renderanno infelice in futuro. Soprattutto in Italia, detto per inciso.
Il problema fondamentale è che il pensiero religioso muove da un articolo di fede improvato e improbabile: l'esistenza di Dio. Da questo assunto fa derivare a cascata una flusso di dinieghi, divieti e interdetti che se talvolta hanno un'evidente valore sociale (non uccidere, non rubare, non scoparti la mamma o tua figlia, non mentire, non tradire la fiducia di chi ti ama ecc.) ma che non hanno bisogno di un dio rivelato per essere ritenuti giusti da chiunque, svolgono comunque la funzione fondamentale di legittimare l'esistenza di una casta di individui essenzialmente nocivi, mantenuti dalle nostre tasse.
Sono affetto da laicismo ateizzante e cattolicofobico?
Temo di sì.
Fino a qualche anno fa mi limitavo a essere blandamente agnostico, affettando tolleranza verso i credenti. Ma da quando i rappresentanti politici che anch'io ho contribuito a eleggere (ma non accadrà più) hanno rinunciato a qualsiasi dignità di pensiero per allinearsi ai diktat dei seguaci dell'Opus Dei e della sua versione longobarda che fa di nome Comunione e Liberazione, ho cominciato a diventare sempre meno tollerante.
Sentire giorno sì e giorno pure persone per nulla qualificate a ragionare d'amore (la pedofilia non vale) dettare norme di comportamento sociale e sessuale non solo a chi li ritiene competenti a farlo (peggio per loro) ma anche a chi vive anche senza norme e divieti ecclesiastici è diventato - e rischia di diventarlo sempre di più - sinceramente intollerabile.
Che poi la fuga del papa sia un argomento in più per il vittimismo delle gerarchie è un argomento risibile. Ormai qualunque pistolotto vescovile è preceduto da una lagnanza sulla crescente intolleranza laicista e ateizzante (e tre!). Si chiama tattica e dovrebbe non più impressionare nessuno.
Ma c'è chi si impressiona ugualmente.
I poveri di spirito, avrebbe detto un profeta palestinese di duemila anni fa.
O forse avrebbe detto i farisei.


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6.1.08

A che cosa serve un editore? Capitolo 2

Post che prevedo non troppo breve, ma spero non banale. O non troppo banale.
Si parlava di autori ignoti, di editori fraudolenti o distratti e di editoria di vanità, ovvero di libri pagati dall'autore.
Qual è il problema medio dell'autore ignoto?
Ha scritto qualcosa, non importa (ancora) che cosa, e vorrebbe farlo pubblicare. Importante il motivo per cui, prima di ogni altra cosa.
Non c'è mai un solo motivo.
Il narcisismo è il primo motore,naturalmente, ma questo non significa necessarimente MALE. Se suonate uno strumento anche solo così così, passato un certo tempo - a meno non siate dei completi imbecilli - vorrete suonare in pubblico e/o con altri. In questo la scrittura non è differente.
Il grosso problema è che esistono e sono esistiti eccellenti strumentisti autodidatti e altri - di nuovo eccellenti - che sono regolarmente andati a lezione, ma mentre suonare uno strumento non è un'attività quotidiana e richiede una quantità anche notevole di pratica e di nozioni specifiche, scrivere è all'apparenza un'attività che non richiede competenze maggiori di un discreto voto in italiano.
Questo crea l'illusione che scrivere sia facile e alla portata di tutti.
Non è affatto così. La scrittura professionale comporta la conoscenza e l'uso di strumenti di organizzazione di un testo che non vengono insegnati a scuola o all'università. Non solo, scrivere poesia o narrativa richiede una buona conoscenza di testi di altri - possibilmente non soltanto di autori che si amano alla follia - disciplina mentale e grande dedizione.
Dopo di ché c'è gente che passa la vita a fare il sessionman e gente che incide dischi e diventa famosa. Vivere non è facile.
Farsi il proprio libro da sè è paragonabile - musicalmente - al trovare una cantina/garage dove provare e fare piccolissime esibizioni. Non c'è nulla di sbagliato in questo.
Personalmente ho suonato quasi in ogni luogo possibile (garage, studi, tendoni, cantinacce fetide ecc. ecc.) senza però sentirmi praticamente mai un fenomeno.
Ci avviciniamo al cuore del problema
Lo scrivente (abbiate pazienza, la parola «scrittore» per me è riservata a gente tipo Kafka o Dostoevskij)è solo. Come diceva il «buon dottore» (ma mediocre autore) Isaac Asimov, una volta scritto qualcosa lo scrivente si sente infatuato di se stesso e sogna di farlo leggere a chiunque gli capiti a tiro, convinto che il lettore non potrà che condividere il suo parere.
Appunto, lo scrivente è solo.
Raramente troverà qualcuno che gli dirà che la sua intonazione è debole o incerta e che il suo staccato è fuori tempo come facilmente accade in musica. Amici e parenti gli diranno che è «bravo».
Essendo «bravo» sarà ovvio per lui mettersi a cercare un ente che si preoccupi di far conoscere la sua bravura al mondo.
Sto semplificando, ne sono conscio, ma è per comodità di esposizione.
Il nostro scrivente manderà quindi il suo / i suoi / testo/i in giro per il mondo. Da Bollati Boringhieri alla Feltrinelli, a Mondadori, a Garzanti, Newton Compton, via via fino a Zanichelli, ultimo editore della lista. Ben che vada riceverà mesi e mesi dopo una letteruzza che lo ringrazia e lo invita a non rompere più. Altrimenti il silenzio.
«Mascalzoni!» dirà lo scrivente e si metterà alla cerca di qualcuno più attento e sensibile. Se non è un completo impedito lo troverà perfino. Per esempio Edizioni «La Garaunta» di Prosdocimi e Zatteroni (nomi di fantasia, sia chiaro).
P&Z pubblicheranno il romanzo o la raccolta poetica nella famosa collana «Il Collante», lo distribuiranno «nelle principali librerie italiane» e «a mezzo internet» in cambio di un «contributo dell'autore».
È fatta?
È fatta.
Almeno sembra.
Un passo indietro.
Il nostro scrivente ha mandato il suo romanzo a tutti o quasi gli editori italiani, si diceva.
Si è preoccupato di capire, innanzitutto, quali sono gli editori che pubblicano libri almeno vagamente simili a quello che propone lui? Ha fatto un salto in libreria per farsi un'idea delle diverse produzioni editoriali, ha cercato informazioni e ne ha chieste a qualcuno del settore, anche solo al suo libraio di fiducia?
«Non ho un libraio di fiducia», dice lo scrivente.
«Kzzz», dico io.
Parlare con un libraio non è poi tanto facile, anche se si tratta, a ben vedere, dell'unica figura professionale del settore editoriale a portata di mano.
Quindi è bene per lui insistere.
E lo dico contro il mio interesse.
Se lo scrivente compra libri soltanto al supermercato o nelle Feltrinelli Village vien voglia di dire: «Beh, si arrangi e vada da P&Z», ma non lo dirò. Basta soltanto un'avvertenza: prima di firmare il contratto con P&Z faccia un salto in una libreria (una vera) e chieda a gran voce: «Avete libri delle edizioni "La Garaunta"?».
Se viene guardato come un povero deficiente è già mezzo salvo.
Ma P&Z sono due truffatori? E lo scrivente (lo S., per velocità) è un fesso o un furbastro? Propendo per il fesso, anche se non vedo nella di male (a parte ogni considerazione sulla carta sprecata) nel pagare una cifra ragionevole per avere il proprio testo stampato e rilegato. Fondamentale:
1) trovare qualcuno che per stampare con copertina a colori un romanzo di 200 pagine in 500 copie non chieda più di 1500-2000 euro.
2) non illudersi che il semplice riconoscere il proprio nome sulla copertina di un libro sia un passo verso la fama imperitura.
3) Non pensare che ciò che si tiene in mano sia davvero un libro. Esattamente come non si può dire di aver «fatto un concerto» se avete suonato la chitarra sulla spiaggia per quattro amici.
Ma che cos'è, allora, un libro? Beh, cercherò di parlarne in uno dei prossimi post.

Per chiudere un piccolo aneddoto personale.
Anni fa conobbi uno S. che, pubblicato un racconto in un'antologia, si autoconvinse di aver finalmente sfondato. Mesi dopo mi telefonò per dirmi che era uscita una sua antologia da le «Edizioni del Plantigrado». Me ne portò qualche copia in libreria, entusiasta in maniera imbarazzante.
«Bene», dissi, «quanto hai pagato?».
Il suo sorriso non si incrinò: «5 milioni (correva l'anno 1993), ma me lo mettono in tutte le librerie».
«Se è così...»
I suoi racconti non mi piacevano, ma il mio parere in fondo non era importante.
Conoscendo la fama de le «Edizioni del Plantigrado» dubitavo però con tutte le mie forze che il libro sarebbe andato in qualche libreria che non fosse la mia.
Telefonai per curiosità a un paio di colleghi: «Sai qualcosa di un'antologia di Viligelmo Diotallevi pubblicata dal Plantigrado?».
Siete svegli, avete già capito.
Adesso Viligelmo ha smesso di scrivere. O forse ha soltanto smesso di credere di poter diventare uno scrittore. Una cosa triste, certo. Ma la sua fretta di pubblicare a tutti i costi (Anche 5 milioni di allora per 500 copie e 120 pagine... un furto!) mi era parsa il segnale di un atteggiamento profondamente sbagliato verso la letteratura.
Del perché ne parlerò presto.

25.12.07

Odiare il Natale?


Nonostante l'immagine non odio il Natale. Anche perché, essendo libraio, mi dà da mangiare e sputare nel piatto eccetera non solo non è di buon gusto ma non è nemmeno intelligente.
La mia amica Francesca diceva che il Natale ha di buono la famiglia e, negli incontri di famiglia, il tentativo che più o meno fanno tutti di comportarsi amabilmente. È abbastanza vero, anche se debbo dire che alcuni dei litigi familiari più epici che ricordo sono avvenuti in occasione delle festività. Già, perché a volte è proprio la lontananza a tenere sotto la cenere certi fuochi.
Natale è una delusione.
Leopardiamente parlando ha di bello ciò che lo procede: l'attesa e la preparazione. Il «viaggio» e non la destinazione. Di per sé il 25 dicembre è un giorno nel quale si finisce per mangiare comunque troppo - per noia o per albagìa - si è obnubilati fin dalle prime ore del pomeriggio e si tira sera con una vaga nausea - fisica ed esistenziale. Il giorno di Natale ha qualcosa di malinconicamente definitivo, è una metafora o, meglio, un'immagine della nostra condizione. È la delusione perfetta, socialmente accettata e tollerata.
E tutta la kermesse ultraconsumista che lo precede? Non sarà responsabile in qualche modo di questa condizione? Come qualsiasi cosa troppo desiderata che si rivela in definitiva una delusione?
Certo, certo. Come no.
Posso essere d'accordo per pigrizia mentale, ma in realtà non sono un francescano di ritorno né un teodem. Penso che un essere umano medio in condizioni standard faccia ciò che è in suo potere per vivere meglio possibile, divertendosi e viziandosi e cercando di garantire le stesse condizioni ai suoi eredi. Il guaio è che il pianeta non può offrire questa ricchezza a tutti, ai sei miliardi e passa di bipedi che lo abitano. L'abbiamo capito da poco e ho timore che i prossimi decenni avranno qualcosa di sinistramente simile all'ultima mezz'ora del film «Titanic» (quello di Negolescu, con Barbara Stanwyck e Robert Wagner, che avendo visto da bambino ricordo molto meglio) ossia un affannarsi a cercare di trovare un posto sulle scialuppe di salvataggio. Ovvero a cercare di salvare il proprio allegro angoletto in un mondo dove le risorse diminuiscono troppo rapidamente.
Nulla di più facile che le strippate natalizie - con rincorse a regali e soldi sprecati - tra un paio di decenni siano soltanto un ricordo disperato, di quelli che si raccontano a bimbi increduli.
Quindi godiamoci in santa pace la nostra malinconia da post-coitum, prendiamo nota da subito che quei tempi sono finiti e mettiamoci una pietra sopra. Se non altro saremo stati dignitosi senza diventare bigotti come certi fondamentalisti.

22.12.07

A che cosa serve un editore? Capitolo 1

Colgo l'occasione offerta da un intervento di Antonella Cilento ripreso dal blog di Massimo Maugeri (letteratitudine) per iniziare una riflessione che, come mio costume, risulterà tutt'altro che sistematica e puntuale. Chi fosse interessato sia paziente, spero che alla fine le mie riflessioni si rivelino di una qualche utilità per qualcuno.
Comincio dall'inizio: chi è Antonella Cilento? Italiana, scrittrice, piuttosto raffinata e non «facile». Ma – attenzione! – il contrario di «facile», almeno nell'italiano di questi anni non è «difficile» e nemmeno «impegnativo». Il vero contrario è «serio», ovvero «personale».
Del suo interessante intervento riporto qui le prime righe, tanto per darne un assaggio:

«Ormai per essere pubblicati bisogna passare un casting. Sei interessante? Sai parlare in pubblico? Sei un attore/attrice? Sei strano/a? Trasgredisci, porti le giarrettiere, sei sexy? Hai la faccia giusta, incuriosisci, puoi andare in tv, hai i denti a posto? Manca poco al Grande Fratello degli scrittori, in questo spaventoso vuoto pneumatico della progettualità editoriale. Da tempo non si leggono i libri ma si guardano le facce degli scrittori, li si chiama, nelle riunioni editoriali o nelle cene fra addetti, per cognome: ce l’ho, ce l’ho, mi manca. Siamo figurine dei calciatori. E poiché non tutti vendiamo le cifre che agli editori fanno comodo, siamo spesso calciatori di serie B. Quello non lo voglio perché c’ha troppa storia (cioè ha segnato poco, un’intera stagione in panchina), quella la tengo come fiore all’occhiello anche se mi va sempre in fuori gioco. Ovviamente nell’editoria (italiana) non ci sono in gioco le cifre del calcio, ma hai voglia a star lì a scrivere davvero, a lavorare tutti i giorni, a non fare la velina della letteratura: hai perso. C’è una schiera di bellocci, furbastri e manovratori che ti passa avanti.»

«Vuoto pneumatico di progettualità editoriale» è la frase chiave del discorso della Cilento, per lo meno ai fini di questo scritto.
Ma adesso cambio blog e autore.
Andiamo dalle parti di Elvezio Sciallis e del suo blog (il cui indirizzo trovate nella colonna a dx di questo post).
Tempo fa (3 dicembre) Elvezio ha postato un intervento «Editori a pagamento», nel quale, tra l'altro, scriveva:

«Piccolo post per comunicarvi che da questo momento in poi non intendo più parlare, scrivere news o recensire prodotti in qualche modo collegati con gli editori a pagamento, print on demand, autoproduzioni e satelliti vari di questa protogalassia.[…] I motivi che mi hanno portato a questa decisione sono molteplici e hanno lavorato a lungo.
Non hanno a che vedere direttamente con la qualità del prodotto, alcuni esordienti pubblicati da editori a pagamento hanno stoffa e idee, manca loro un sarto supervisore e se non si sbrigheranno a capirlo finiranno con il cucire per una vita i saldi al grande magazzino.»

Mi piace giustapporre i due interventi anche se, in apparenza, vanno in direzione opposta. Se per Antonella la professionalità dell'editoria maggiore si è ormai profondamente snaturata, tanto da renderla irriconoscibile, Elvezio, invece, è proprio alla professionalità fa appello quando invoca la necessità di un «sarto supervisore».
Ma esiste, tale sarto?
«Ti trovi a discutere con uno sbarbatello che ne capisce meno di te ma fa lo stesso le pulci al tuo testo senza nemmeno arrivare a capirlo».
Relata refero. Questa frase è stata pronunciata da un mio amico - scrittore di lunga data, vincitore del Premio Calvino e autore di romanzi e testi teatrali - nel corso di una conversazione con la sua agente editoriale.
Il sarto, ovvero l'editor, è evidentemente una figura sempre meno presente e soprattutto sempre meno qualificata nell'ambito dell'editoria maggiore.
Mi viene in mente André Schiffrin che nel suo primo libro, Editoria senza editori denunciò il crescente peso, all'interno delle case editrici, del settore commerciale su quello editoriale.
Una prevalenza che probabilmente può, da sola, spiegare parecchie cose dell'intervento di Antonella Cilento. Ma essendo in circolazione da un bel po' di tempo ho imparato a fidarmi poco delle spiegazioni troppo facili. Resta il fatto che «formare» un buon editor non è cosa di pochi mesi né attività da corso di formazione regionale...
E gli editori hanno interesse a formare figure altamente professionali (e conseguentemente abituate a ragionare di testa propria) come un «editor»?
Ho più di qualche dubbio, anche se le eccezioni non mancano.

Un momento.
Da come sta procedendo il discorso parrebbe proprio che Elvezio abbia tragicamente torto, pur avendo, a mio parere, in gran parte ragione.
Sul ragionamento di Elvezio mi riprometto di ritornare al Capitolo 2, provando anche ad ampliarlo un po'. Per il momento mi fermo qui, al problema della crisi qualitativa (evidente per chiunque abbia occhi)della letteratura italiana.

14.12.07

Confitto interiore (sparare a Umberto Eco?)

– Ma me lo dici tu a che cosa serve un blog se poi stai delle intere settimane senza scrivere neppure una parola?
– Ma tu lo sai che lavoro faccio? Ma tu lo sai che avevo la contabilità+lafatturazione+ lacorrezione& impaginazione di LN 44 e di FM11+deicoccidarimettereinsieme+ unromanzodaspedire a un concorso che tanto ne farà coriandoli+... no, basta non mi viene in mente altro.
- Niente di nuovo, insomma. La contabilità la fai per deprimerti, tanto lo sai già che la libreria è in perdita. La fatturazione... che tanto poi ti pagano a babbo morto. LN 44 e FM 11: i cataloghi delle buone intenzioni. Quando mai hai ottenuto uno straccio di segnalazione, di presentazione... quando mai vi hanno considerato - un quotidiano, un settimanale, la radio, una televisione locale - anche solo per dire: «cretini!». I cocci... vabbé. In quanto al tuo ultimo romanzo, lo sai che cosa ne penso: è fantascienza. Scritta in italiano. Una cosa da ridere. E comunque non va bene, lo sai meglio di me. Troppe immagini e poca azione. E sì che te l'hanno anche scritto. Non va bene. Ti preoccupi dei personaggi, dei luoghi, dei dialoghi e non hai ritmo...
- Ma un po' di ritmo nella scrittura, almeno quello, c'è.
- Un par di ciufoli, come dice il nostro amico Gordiano Lupi. Sai chissenefotte del ritmo, cioé dello stile della scrittura, in un romanzo di fantascienza? Ma da dove arrivi? Frasi brevi, pochi pensieri, zzzzoot! Uiiiinzzzz! Kerbluummm! «Stiamo perdendo l'allineamento subparallattico, comandante». «Uhm, attivate il campo di macrocollisione».
– Non vuol dire un cazzo.
- E allora? La fantascienza in forma scritta è diventata la parente povera, praticamente pezzente, di quella cinematografica. Immagina un montaggio cinematografico skizzato, quando scrivi, non fare la Emily Bronte (ci vanno i due puntini sulla e, lo so, ma non li trovo) della fantascienza. L'unico risultato sicuro è che gli uomini non ti leggono e le donne nemmeno perché non leggono fantascienza.
L'unica cosa decente che hai per le mani - parlo del nuovo blog di ALIA - su quello non hai ancora scritto nemmeno la risposta alla risposta a un post.
- Meditavo su cosa scriverci, per la verità.
- Te l'ho appena detto. Ti metti lì con i piedi sul tavolo e dichiari: «La letteratura fantastica deve imparare dal cinema. Se non si sa mutuare il linguaggio cinematografico in letteratura il fantastico è morto».
- Ma non è vero, cribbio. La letteratura ha un suo linguaggio. Tempi, forme, possibilità che il cinema...
- Sei patetico. La letteratura come linguaggio è morta, defunta da un bel pezzo e sta a puzzare sul tavolo di CSI Miami in attesa che qualcuno la apra come un merluzzo e dichiari: «morta di inedia, stenti e di una mezza dozzina di malattie». Lo sai no come legge ormai la gente? Non lo vedi? Non te ne stai dietro il banco di una libreria?
- Qualcuno che SA leggere è rimasto.
- Sempre meno. Lo sai benissimo. E poche curiosità, nessuna voglia di mettersi in gioco. Pappine precucinate, al massimo sperimentazioni a bassa voltaggio. Ironiche citazioni e giochi eruditi. Mi piacerebbe sparare a Umberto Eco, per dire.
- E che ha fatto, poveretto?
- Poveretto? Ci prende per i fondelli fin dai tempi del Nome della rosa, ecco che cosa fa. Ci presenta uno Sherlock Holmes vestito da frate e sulla trama di un gialletto innesta un po' di divulgazione filosofica, qualche battuta sapida e sapiente, elementi di storia e di politica per consegnarci il post-romanzo definitivo. Quello dove non esiste nulla di originale ma è tutto, integralmente, già letto e già digerito. Ma in fondo faceva parte del Gruppo '63. Aveva avvisato che il romanzo era morto già allora. Solo che invece di essere coerente ne ha scritto uno. Per celebrarne la morte. E via, tutti a comprarlo perché è furbo e ti fa sentire furbo, è colto e ti fa sentire colto, è astuto e ti fa sentire astuto. Per quattro soldi è un gran risultato.
- Te la prendi tu la responsabilità di questa intemerata?
- Ce la prendiamo noi.
- Ma... io mi sono divertito a leggere il Nome della rosa. Certo, la letteratura è un'altra cosa. Ma è un romanzo da compagnia. Non qualcosa che ti cambia la vita, ma comunque un piacevole incontro.
- Anche i successivi?
- Ehm... no, i successivi no. L'ultimo poi, la Regina Loana o qualcosa del genere,è stucchevole come una caramella già succhiata.
- Bisogna sparare a Eco, te lo dico io. E a tutti i post-qualcosa.
- Sono un non violento, io.
- Io no. Tutti al muro. All'alba, quando fa ancora freddo e quasi sei contento di non dover più battere i denti.
- Cribbio. Ma sei contorto, eh?
- Soltanto stufo. Vorrei leggere dei libri nuovi, non avanzi ricuciti e ricucinati.
- Hai ragione. Beh, qualcosa l'abbiamo scritto, non trovi.
- Già. Mi chiedo a chi interesserà.
- Me lo chiedo anch'io. Ma non è poi molto importante.

20.11.07

Magagne



Il mio amico Piotr, che potete vedere (sfocato) nella foto allegata, mi ha mandato un lunghissimo intervento zeppo di critiche perfide & avvelenate sull'organizzazione, la conduzione, la gestione e i temi della presentazione a «In controtempo».
Siccome sono un tipo democratico ho accettato di pubblicare il suo intervento, specificando, però, che - per espressa richiesta di Piotr - nulla di quanto dice deve essere preso sul serio.
Anzi, che proprio l'intero intervento - nonostante dica in modo spiritoso cose intelligenti - non dovrà essere preso sul serio.
Strano tipo, Piotr.
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C’era qualcosa di sbagliato, e qualcuno dovrà pur dirlo, no?
O magari vi aspettate che solo perché quasi tutto era carino, bello e giusto, si possa tacere delle magagne? Ah, già… troppo facile, così. Troppo semplice, allora.
Le magagne, bisogna che qualcuno le tiri fuori.

Ad esempio, la libreria. Certo, è bella e la conosco; e di notte, poi, ha un fascino speciale, con le vetrine accese. Respira insieme a Torino, a quel pezzo di Torino: forse, per sentirlo davvero, bisogna conoscere un po’ quella zona (ma senza conoscerla del tutto, però). C’è Fisica, a giusto un isolato di distanza. E anche Chimica, certo, è la zona delle facoltà scientifiche; almeno finche non le sposteranno tutte, fuori città, in un avanzato tecnologico asettico comprensorio deprimente. E c’è il Galileo Ferraris, tic-tac ufficiale d’Italia, davvero poco distante; e il Valentino, giusto là dietro. Ci sono anche prostitute che impressionano il figlio quattordicenne, ma sono prostitute in fondo rassicuranti, quasi consolatorie. Provo a spiegare a Paolo che, per quanto possa sembrare impossibile, sono quasi certo che quella più piccola, con stivali lucidi e rossi, probabilmente era già qua quando ho varcato per la prima volta la soglia del sacro edificio della Facoltà di Fisica. Cioè trenta anni giusti fa. Il figlio sembra non credermi, e forse fa bene.

Torino scura e calda, nonostante la temperatura siberiana e novembrina. Vetrina di libreria accesa, come faro regolamentatore della notte, e vedi che funziona tutto? Vedi che i due pellegrini trovano riparo, proprio come Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk, all’inizio del Nome della Rosa? Vedi che non c’è nulla ce non vada?
Balle, c’è sempre qualcosa che non va. Le magagne ci sono, esistono. Infatti, la porta è chiusa.

Chiusa! Per un misero quarto d’ora di ritardo! E noi qui fuori, dispersi nella tormenta metropolitana, facili prede di peripatetiche e di pericolosissimi studenti? Tra foglie secche e carte sporche che volano, dopo un’ora intera di macchina, cinquanta chilometri, dalle rive della Baltea fin qui sul Po, e la porta è chiusa? Ah, disperazione, abominio e devastazione! Vedi, vedi, vedi le magagne?
- Bussiamo, papà? –
Il figlio mi stupisce, mostra un’incredibile spirito d’iniziativa, decisamente poco genetico, e in effetti l’opzione m’era sfuggita. Prima che io possa assentire o vietare, già bussa, lui, quattordicenne spudorato e senza ritegno. Ma cavolo, magari rompiamo le scatole! Ma cavolo, avranno già iniziato! A ben vedere, io non m’ero manco peritato d’annunciare la mia presenza (figuriamoci quella del figlio), perché un conto è passare con nonchalance davanti ad una libreria che uno si aspetta popolata dietro la vetrina, un altro conto è bussare e chiedere asilo. M’ero ripetuto più volte l’approccio, nella mia mente startegica: noi si passa davanti, dentro si vede un mucchio di gente, Massimo o Silvia mi riconoscono, indi aprono-sorridono-invitano ad entrare. Io mi schermisco-sorrido-nego intenzione (“Passavamo di qui per caso, facevamo quattro passi, proprio qui, guarda te la combinazione…”). Sì, a cinquanta chilometri da casa. Sì, a meno cinque celsius, con tosse e otite reiterata. Vabbè, tanto avrebbero comunque fatto finta di crederci, e noi avremmo fatto finta di accettare (“Ma solo un attimino, neh?”). Che detto da uno con accento centroitalico, è pura devastazione vandalica dell’etica vernacolare.

Ma niente di tutto quest’immaginario prende corpo, cazzarola; perché la porta è chiusa, perché il figlio bussa, sfacciato. Ah! Come farò, adesso? Adesso che – eccolo - Marco risale le scale, e sorride, perfino. Adesso che – ehi, c’è anche lei - Morgana appare e sorride anche lei, e ci fanno posto, scendiamo le scale, ci portano giù, giù. Giù, nel profondo ventre della libreria. Nelle viscere della carta stampata, nell’intestino della conoscenza.
Che trabocca, infatti. Tracima, ribolle, riversa: insomma è strapiena, e mica solo di libri. Di umanità, soprattutto. Stretti, puntuali e ordinati, su piccole sedie e sguardi attenti, mentre i miei novanta chili ottundono la scala a chiocciola. Cavolo, vedi? C’è sempre una magagna, in agguato. Avevano iniziato, ma fingono di no. Trovano sedie, chissà come fanno, ci sono più sedie che spazio per sedie, e questa è cosa curiosa, che avrebbe incuriosito più d’un filosofo naturale del Seicento. Vedo Massimo e vedo Silvia, e sento un sacco d’occhi addosso, e sono quasi certo di conoscere i nomi, anche, oltre agli occhi che solo ora si rivelano, ma prova ad accoppiare nomi e occhi, adesso, se ci riesci. Magagne, magagne, è tutta una magagna. Perché non hanno tutti un bel cartellino col nome, come nei congressi seri? Perfino le società segrete, ce li hanno. Scommetto che perfino la Giovine Italia di Mazzini doveva averli, i bigliettini coi nomi. Guarda Provenzano, ad esempio, lui ce li aveva eccome, i pizzini. Qui, invece, come faccio, io? Sicuro come l’arcobaleno, qui dentro ci sarà il Davide Mana. Certo come l’effetto Doppler, qui dentro ci sarà perfino il Soumarè, vuoi che non ci sia? Magagne, magagne, e magagnette.

Atterro sulla sedia, colpevole. Gente ordinata e puntuale, dietro di me, si vede la visuale oscurata da un corpulento cinquantenne in giaccone chiaro. Giaccone che tolgo a fatica solo a presentazione iniziata; fossi in loro, sarei incavolato di brutto, a vedere il ritardatario occupare il posto migliore. Vabbè, che volete farci, anche a voi toccano un po’ di magagne, o volete che me le becchi tutte io? Ad esempio, perdincibacco, dove è finita Francesca? Me la narrano attrice e fine dicitrice, e qui invece la vedo trasparente e muta, insomma assente. Non è trucco, truffa, magagna, questa? Il libercolo ce l’ha in mano Silvia, vuoi vedere che hanno magagnato anche lei, e che toccherà a lei fare le veci? Povera Silvia, l’hanno fregata di brutto. Si vede, non ha mica l’aria contenta. Però.
Però.
– Però Silvia è proprio brava a leggere, vero papà?
Saranno le prime parole di mio figlio, quando saremo usciti. E cavolo sì, che è brava. Quindi, forse, non è stata magagnata, lei. Forse era tutto un complotto preordinato, visto che ha letto così, limpida e sicura, quasi avesse studiato recitazione col metodo Stanislawski, cercando di immedesimarsi con una fonte d’acqua sorgiva. Ma io intanto sto ancora qui, prima che la presentazione inizi, cerco di farmi piccolo ma non ci riesco, mi chino sull’incolpevole figlio che sopporta, e per fortuna che nel frattempo capisco chi sia Cettina, visto che si parla d’una fotografa. Giusto qua, ad una sedia da me, e sorride bene, la signora Calabrò. E fa anche ridere, quando dice; “Insomma, smettetela di chiedere, diamine. Io faccio la fotografa per non dover parlare”. Rido, mi rilasso perfino un po’. Forse, quelli seduti dietro sono dispiaciuti della cosa, perché quando io mi rilasso divento più voluminoso. Massimo è già seduto, Silvia è già pronta, manca solo il Defililippi. Dove sta, il prefatore? Ah, eccolo! Diamine, seduto ordinato tra il pubblico anche lui, s’alza e si erge. Uffa, si vede proprio che è uno scrittore lui. Ha le physique du role, pure la faccia du role, perfino i capelli e gli occhiali du role. E’ simpatico, si vede subito. Tutti lo conosco e lo applaudono, è verosimile che sia simpatico a tutti, tranne agli invidiosi. Io, per esempio, non lo sopporto.
La sedia alla mia sinistra è ancora vuota: Morgana si muove a compassione e la occupa. E così, con alla destra il mio figlio unigenito e alla sinistra una fanciulla che prende il nome da una fata e che lo ha trasmesso ad undici antologie, sono pronto alla battaglia. Perché battaglia certo ci sarà, si capisce benissimo. E’ una sera piena di magagne.

Il Defilippi comincia a presentare così come ha prefazionato. Gioca sul sicuro, il fellone.
– E’ un libro che mi sarebbe piaciuto scrivere…
Dice, tra l’altro. E qui si palesa la fellonìa. Qui si fa sentire tutto il peso e la forza del potente. O del prepotente. Ah! Facile, eh? Semplice, nevvero? Se lui dice quella frase, un novello autore va in brodo di giuggiole. Se io dicessi la stessa frase, l’autore mi guarderebbe come si guarda un ramarro con in bocca una farfalla. Facile, eh? Ah! Anche a me sarebbe piaciuto scrivere quel libro! Solo che se lo dico io non gliene frega niente a nessuno. Invece, se lo dice Alessandro Defilippi…
Ah, è chiaro. Sarà una lunga e difficile serata. Scorrerà del sangue, e ci saranno magagne a non finire.
Poi parte in quarta, parla di letture e riletture, e l’importanza delle riletture. Vabbè. Articola, conciona sulla natura del fantastico. Vabbè. Ne dice di cose, e tutto sommato, non dice solo robaccia. Ad esempio, quella storia del crinale, di qua il fantastico, di là il reale, come Massimo che fa una fatica boia nei racconti a restare sulla sommità, a camminare sullo spartiacque, uh, che fatica deve essere. E il Defilippi se ne è accorto. Vabbè. E poi fa parlare Massimo, che sorride e tentenna. Incredibile, saremo in tutto venti o trenta persone, gli vogliamo tutti bene, eppure si vede che si emoziona. Che roba, come farà uno a sopravvivere alla ambasce e alle cattiverie del XXI secolo, se si emoziona per queste cose?
Per fortuna sorride, più con gli occhi che con le labbra, e a me fa impressione seguire la strana iperbole disegnata dalla sua barba, dal suo sorriso, dal suo occhio destro e dall’Alonso-Finn, sacro testo di Fisica, giusto dietro di lui. Non so che significato abbia questa presenza (quella dell’Alonso-Finn, intendo), ma di sicuro ne ha uno. Eppure perfino Massimo riesce a tirar fuori una magagna, ci credereste?
Si sente in imbarazzo, dice; anche se di presentazioni ne ha fatte tante. Perché, dice, ha visto spesso tavoli con libri da presentare, con prefatori e presentatori come il Defilippi, e con autori che concionano. Ma è che di solito, di fianco agli autori, ci sono i librai.
… e io sono un libraio…
Dice imbarazzato e divertito. E diverte, infatti. Chi manca, in quel tavolo? Il libraio, o l’autore? Sommerso da un conflitto (irrisolto ma irrisorio) d’interessi, rinuncia, e poi risponde alle incalzanti domande del Defilippi.
Ma la magagna c’è ed è grossa come una casa. Libraio, Massimo? Solo libraio? Ah! Facile per te, scegliere il tuo ruolo, e deciderlo, facile! Ma io, da questa parte del tavolo, vedo parlare l’autore d’un libro, il libraio che l’ha venduto, e l’editore. Che è l’editore del suo libro, ma – perdincibacco baccone – anche del mio! E figurati, allora, scrittore-libraio-editore, con che reverenza ti si guarda dall’alto della mia sedia piccola. Che poi, fosse finita lì! Perché poi recensisci, o recensore, e talvolta lo faccio pur’io, e quindi sei co-recensore, per non parlare del fatto che pubblichi la rivista di recensioni, co-edito-recensore. Libraio, dice lui. Libraio e basta… tzè. Ma io ho Morgana vicino, e me lo ricordo, che fai anche i concorsi, caro il mio concorsitore. E li giudici, mio caro giudicatore. Poi li stampi, nevvero, stampatore?
E allora, ecco che finiscono i sostantivi, e mi servirebbe il Devoto-Oli per continuare. E per fortuna che qua sotto, magari il Devoto-Oli c’è davvero. Non necessariamente vicino all’Alonso Finn., però.
Ma si entra nel vivo. Perché il ventennio, chiede perfido il Defilippi. Per le narrazioni delle mie vecchie donne, risponde Massimo, e Alex sorride come vipera in agguato. E un fotografo dall’aria saggia ricorda quali siano i percorsi leciti del narrare, che non sempre sono tutti aperti e tutti disponibili. E lo scrittore psicoanalista annuisce e psicanalizza. Tende trappole, lancia sguardi seduttori alle signore, aspetta altri commenti.
Mi alzo, finalmente devastato e irritato, lo sovrasto e lo distruggo:
- Perché il ventennio è marchiato, e marchia ancora. Perché, con somma vergogna dell’italica gente, è l’unico fottuto periodo originale italiano del ventesimo secolo. Marchio d’infamia, certo, ma inevitabile. Un narratore può far balenare un microdettaglio, e il lettore sa, capisce, vede. Solo la nappa nera d’un fez, e il lettore capisce. Un rombo accennato di folla a piazza Venezia, e immediatamente la trama è collocata. Potesse fotografarlo il dettaglio minimo possibile, a Cettina basterebbe un ottavo di negativo, un angolo distratto, meglio se in bianco e nero, per portarci subito dove la storia deve portarci. In tutto il resto del secolo, dannazione, abbiamo altre passioni, altre storie, altre vite. Tutte più giuste e belle, o quasi, ma inevitabilmente di seconda mano. Per questo il ventennio, per questo, purtroppo: altro che stronzate come l’apologia di fascismo. I tempi interessanti, come dicono i cinesi, sono quelli più antipatici da vivere. Per questo le narrazioni che le donne facevano a Massimo sono tutte lì. Inchiodate in quei tempi fottutamente interessanti.

Questo gli urlo, forte e cattivo, in faccia.
Anzi no, col cavolo che lo faccio. Ho una fifa blu anche solo a respirare, figuriamoci se intervengo per dire una roba del genere. E poi, perché dovrei prendermela col Defilippi, che è simpatico a tutti? A me no, perché sono invidioso, ma qui non lo sa nessuno, lui meno degli altri. Non posso mica fare subito uno scrittoricidio. Ci sono troppi testimoni.
Ma poi Silvia torna a leggere leggera, e altre domande ritornano. Ancora il crinale, e le similitudini con Poe, con James, e perfino sulla giusta lunghezza, l’ideale, per le storie del fantastico. Il romanzo breve, dice il Defilippi. Ha maledettamente ragione, che noia, ce l’ha spesso, come faccio a litigarci, se dice un sacco di cose che vorrei aver detto io? Ma poi i tempi, ecco, forse qui è solo troppo poco, troppo tirato via. Anche se parliamo di “In Controtempo”, non è solo il tempo, ad essere protagonista. Massimo è d’accordo, ma lui è solo l’autore, che volete che ne sappia, l’autore? Parla di tempo percepito e di tempo reale, e della difficoltà di narrazione, e della voluta dilatazione dei tempi. Tutto vero, sacrosanto, evidente. Ma non è tutto qui.
Mio figlio, che temevo si sarebbe addormentato, è attentissimo.
Alessandro gioisce quando arriva la lettura del brano preso da “Linea di Confine”, che è il suo preferito. E’ qui che non capisco, è qui che devo metterlo alle corde.
Perché lui per primo ha parlato di stile, e Massimo sembrava contento, perfino. Non si accorgeva che gli stava scippando qualcosa. Lo stile è difficile da definire, ma è una proprietà intessuta nelle dita dell’autore. Paradossalmente, anche l’assenza di stile è uno stile, e quindi la parola non basta. E proprio quando si parla di crinale, di stile e di tempo che vorrei urlare a tutti che è Vetro di Seta che rende perfettamente l’equilibrio impossibile, mentre invece Alex devia sempre l’attenzione su Linea di Confine. E no, non è così, che si deve fare!
Perché Linea di Confine è racconto puramente attanagliante. Come una tagliola crudele, ti cattura e non molla. Peggio, è una tagliola lenta: la vedi scattare lentamente, vedi il piede nella traiettoria delle ganasce, e non hai la possibilità di sfuggire. Quindi, un capolavoro, certo, chi lo nega. E’ un bolero ineluttabilmente in crescendo, parte con una casa vuota, come è vuota la musica che inizia col solo tamburo nel didascalico pezzo di Ravel, ma che si sente crescere e che si capisce subito che finirà con tutta l’orchestra urlante in crescendo. Come la casa, che si riempie dei noi-fantasmi della televisione sempre accesa, e che si svuota dalla vita reale. La tagliola; la vedi chiudersi, ma non riesci a ritirare la gamba.
E va bene. C’è qualcosa di male, a preferire Linea di Confine? Certo che no! E’ un capolavoro, un esercizio di stile, anche. Perché il “crescendo” è, tutto sommato, un meccanismo stilistico classico, e proprio per questo è difficile da interpretare. Non a caso il Citi – che in questo caso si merita l’articolo, come i grandi – saggiamente evita di esasperare troppo il finale, di non dettagliare i denti della tagliola che finalmente mordono la carne, lacerandola. Si sa. Si sente.

Ma il crinale, qui, è definito! E’ stupendamente definito, tra fuori e dentro la casa. Anzi, tra “dentro la casa con la TV accesa” e il resto del mondo. E il ritmo è un crescendo. E il tempo è un tempo condiviso, tra il fuori e il dentro. Quindi, non è Linea di Confine il racconto più rappresentativo, proprio secondo il paradigma critico del Defilippi!

Il perfetto rappresentante del respiro onnipresente in tutta l’antologia è Vetro di Seta. Perché non è solo questione di stile, ma anche, forse soprattutto – di tecnica. Uno scrittore vero e affermato (come il Defilippi), forse non se ne accorge più. Uno scrittore malriuscito, uno che fa sempre fatica ad alternare dialoghi e segni d’interpunzione, descrizioni e congiuntivi, personaggi e consecutio temporum (come il sottoscritto), sa invece sempre benissimo quanto sia difficile permeare le pagine con le atmosfere. E Vetro di Seta è un capolavoro di tecnica, in questo. Perché le atmosfere sono sempre sospese, sia da un parte che dall’altra del crinale citico, o defilippico, se si preferisce rendere eponimo il critico invece dell’autore. La storia rimane perfettamente in equilibrio, perché non v’è mai decisione verso uno o l’altro versante: non si deve precipitare con crescendo verso il fantastico o il reale. Tutto sta nel titolo, e nell’oggetto del titolo: il vetro di seta, il pezzo di vetro lavorato dal mare, opaco se asciutto e trasparente fino all’invisibilità se bagnato. Consapevole o meno che fosse, Massimo per tutta la durata del racconto mette l’obiettivo della trama su un pezzo di vetro di seta, e lo avvicina all’acqua. La sua storia, nella parte del “reale”, è quando il vetro è asciutto, opaco, tangibile. E così c’è la caccia ai suoni, la tecnica, la villa, i nostri giorni. Quando il vetro si bagna diventa trasparente, e vediamo cosa c’è sotto l’acqua: tre quarti di secolo prima, paesaggi, persone, climi diversi e diverse passioni.
Facile da rendere? No, difficilissimo. Quasi impossibile. Ma il vetro di seta non resta fermo, continua ad oscillare dentro e fuori dell’acqua per tutto il racconto, negando la separazione netta, cosa che invece, almeno in termini spaziali, Linea di Confine fa. Il lettore non sa mai bene quando il pezzo di vetro levigato si immergerà un po’, nella storia, diventando trasparente e facendo balenare il passato. Accade, e poi cessa di accadere. La narrazione si muove sul crinale con la perfezione di un esploratore dei ghiacciai, al punto che il colpo di scena finale è un colpo di scena mai nascosto, ma sempre presente. Il passato era già nel nastro, ma non era riconoscibile, identico al presente. Il vetro di seta aveva divorato persino l’ultima tensione superficiale del liquido, e restava asciutto e bagnato al tempo stesso.
E glielo ho detto, al Defilippi. Ho atteso la fine dell’incontro, l’ho fatto alzare, ho scelto il momento in cui, non più protetto dal tavolo (cattedratico tavolo) era tornato ad essere solo un uomo, e non uno scrittore affermato e bravo. E gliel’ho detto in faccia, con tutta la forza retorica e dialettica che mi era andata salendo in corpo.
Il che significa che gli ho mormorato: “A me piace di più Vetro di Seta”.
Al che lui ha controbattuto: “Non sono d’accordo”.
Ma io dico! Si può rispondere così, a cotanta verve dialettica?
Ho allora preso cappotto e figlio, e sono scappato verso il canavese. Ma mi ripromettevo, andando a lunghe falcate verso la macchina, di leggere bene e meglio ogni singolo parola stampata dal perfido Defilippi. Conosci il nemico, se vuoi batterlo. E lui me l’avrebbe pagata cara.

17.11.07

In Controtempo: ultimi fuochi



Nella foto, scattata da Davide Mana che ringrazio pubblicamente, Alessandro Defilippi, autore di una raccolta di racconti pubblicata da Sellerio e tre romanzi pubblicati da Passigli, uno migliore dell'altro. Leggeteli e ne riparleremo. Ieri sera, nella libreria CS di Torino Alex ha presentato il mio In Controtempo, alla presenza di una trentina di amici. Non si è trattato di un incontro a fini commerciali: praticamente tutti i presenti avevano letto l'antologia e hanno partecipato per amicizia, simpatia e curiosità. E questo è stato il primo lato sorprendente della cosa. Che avessero, cioé, voglia di sentirne parlare ancora. Alex in apertura ha detto di averlo riletto per la presentazione, aggiungendo di averlo apprezzato di più alla seconda lettura. Qui sono semplice cronista, sia chiaro, non me la sto cantando e suonando da solo.
È una frase chiave, questa, comunque.
La lettura è una cosa, la rilettura un'altra. E nella rilettura le magagne saltano fuori... ah, se saltano fuori. Quindi debbo pensare per forza che In Controtempo stia abbastanza bene in piedi. Incasso e gioisco.
La presentazione di Alex è stata grande.
Mi ha fatto domande maledettamente complesse alle quali penso di avere risposto da par mio: facendo una gigantesca e patetica confusione.
Davide nel suo blog mi ha definito "schivo", scrivendo che ho parlato brevemente.
Lo ringrazio, ma io ho avuto la sensazione di aver parlato troppo a lungo dicendo un sacco di cose che c'entravano poco o nulla. In più la mia adorabile figlia adolescente mi ha detto: «Papà tu scrivi bene ma a parlare non ci sei tagliato».
Il problema è l'ingorgo.
Tu hai scritto una cosa.
Mentre la scrivevi un 20% del cervello controllava la struttura - periodi, frasi, parole, punteggiatura ecc. - mentre il restante 80% scavava negli angoli più bui tirando fuori materiali scelti a caso e sottoponendoli all'io più o meno cosciente. L'io ne prendeva qualcuno e gli altri li buttava. Seguendo logiche del tutto sue.
Provare a ricostruire il momento, il motivo di quelle scelte è un'impresa disperata. Ci si può fare belli dicendo che si ha sempre, costantemente la situazione sotto controllo. Ma non è vero. Nemmeno per scrivere l'ultima scemenza possibile, stesa per tirare su un po' di soldi.
Sembrerà paradossale, ma a scrivere onestamente si rischia il fiasco molto di più che a procedere con l'attenzione miope dell'autore alla ricerca di un pubblico, possibilmente pagante.
Questo post, comunque, l'ho scritto per scusarmi con tutti i presenti della mia confusione mentale. Per ringraziarli di essere venuti a sentirci. Per ringraziare Cettica delle foto e dell'intervento, per ringraziare Alex di qualche momento magico che ha distillato ed estratto nella (mia) confusione e per ringraziare mia moglie, Silvia, dell'ottima lettura ad alta voce.
Non potevo saperlo prima, ma gli effetti collaterali della pubblicazione - le presentazioni, i commenti, le recensioni, i post nei blog - si sono rivelati più gratificanti del gusto narciso di vedere un libro con il proprio nome sopra.
Un enorme GRAZIE a tutti. Di cuore.

Kronstadt 2


Tempo fa (ma soltanto tre o quattro post fa, come dire che scrivo troppo poco) parlai di un libro appena uscito sulla vicenda di Kronstadt. Una storia poco nota, almeno per coloro che non hanno un passato remoto nella ultradefunta sinistra extraparlamentare. Ma non quella cazzona e appassionata di L.C., no, in quella ingessata-e-leninista di A.O.
Più o meno come parlare della classica Spal-Pro Vercelli del campionato di calcio del1922, vero?
All'incirca lo stesso appeal...
Il libro l'ho letto in un paio di settimane con un senso di scoraggiamento crescente. La preoccupazione principale dell'autore, in più di un'occasione, mi è parsa quella di polemizzare con il gruppo di storici autori de «Il libro nero del Comunismo» rimproverando loro imprecisioni, grossolani errori, tortuose esagerazioni e tendenziose rimozioni. E va bene. Che il famoso «Libro Nero» abbia tra i suoi massimi estimatori Silvio Berlusconi è la prova di un valore scientifico elastico come il girovita di Tiramolla. Ma se ho letto Kronstadt 1921 è per cercare di risolvere un mio problema personale, non per sostenere chi polemizza con Stephane Coutois & friends.
Oltre a questo il libro è steso con stile criptoburocratico, probabilmente per avvalorare il suo valore scientifico e mostrare che non trattasi di libro poco serio. Penultimo difetto: l'affollamento di nomi è tale che in certi momenti si ha la sciagurata sensazione di leggere la guida telefonica di San Pietroburgo. Ultimo difetto, una quantità prodigiosa di errori ortografici, imprecisioni e refusi che se si possono tollerare in una brossura da 4,99 euro edita da Newton Compton sono viceversa imperdonabili in un libro da 23 euro pubblicato dall'Unione Tipografica Editrice Torinese.
Dulcis in fundo la foto di copertina, tratta dalla Hulton-Deutsch Collection, riproduce un gruppo di militari inglesi della guerra Anglo-Boera.
Ma chi diavolo l'ha scelta?!?
La tesi di Jean-Jacques Marie, comunque, è che Kronstadt sia stato uno dei tanti moti confusi e anarcoidi che scuotevano la Russia di quegli anni, nati dalla carestia e dall'instabilità della situazione politica. Krostadt non sarebbe stato il primo vagito della Terza Rivoluzione, in sostanza, quella che avrebbe potuto affermare il vero volto del socialismo, ma soltanto la pietosa illusione di Victor Serge e di qualche altro intellettuale non russo. E io sono un intellettuale, con quanto di significato negativo ha ormai assunto la parola (anche se non francese, un punto per me) e sono praticamente certo di non essere russo.
Ecco un'altra illusione perduta.
Che cosa rimane? Rimane il fascino - che il libro non sa trasmettere nemmeno per un istante - di giorni dove tutto era forse ancora possibile. L'ebbrezza della partecipazione e l'ansia di essere presenti, discutere, informarsi, sollevarsi.
La terribile bellezza di una rivoluzione che resta un punto essenziale della storia umana.
Questa rimane.
Nonostante Marie e Coutois.
Alla faccia di tutti gli omiciattoli che cercano di farne un regolamento di conti tra nobili decaduti e giovani vampiri.

20.10.07

Il ritorno dei Borboni


Avevo votato per Prodi (che detesto da sempre per la sua falsa bonomia e i modi da boiardo di stato) e il suo carro dei Tespi con poche illusioni ma senza negarmi una speranza.
Non soltanto scacciare Berlusconi e la sua corte di yesmen, mafiosi, fascisti e clericofascisti ma anche e soprattutto metterlo nelle condizioni di non poter più alterare la democrazia attraverso il possesso di tre reti televisive e di tutto l'indotto pubblicitario da esse creato.
A distanza di una quantità ragionevole di tempo debbo ammettere di avere capito male.
Evidentemente dell'equilibrio della democrazia a Prodi etc. non frega nulla. Sul tema dell'anomalia Berlusconi è stato partorito soltanto un timido e insufficiente disegno di legge che morirà presto, in compagnia di una maggioranza che va dai centri sociali fino ai procacciatori di voti di Mastella e ai cattolicissimi della Margherita. Una maggioranza che era una semplice somma di voti ma che aveva alcuni scopi fondamentali - a mio modo di vedere. Garantire le regole della democrazia, avviare il risanamento dei conti dello stato e dare impulso all'economia.
Senonché Prodi e compagnia hanno fatto padella.
E di brutto.
Si vantano di aver risanato i conti, ma né la Banca d'Italia né l'UE sono d'accordo. Per motivi magari inconfessabili, ma resta il fatto che i conti sono stati risanati mungendo i soliti noti e senza riuscire a toccare davvero e definitivamente le evasioni fiscale e contributiva che sono strutturali nel sistema produttivo italiano. Hanno depresso i consumi e hanno fatto un gran can-can sulla tutela dei consumatori ma senza minimamente postulare alcun progetto di orientamento dei consumi che non fosse il sostegno alla Holding Coop. Sempre sia lodato il ministro Bersani.
Poi - in disordine - hanno ritirato i soldati dall'Iraq ma non dall'Afghanistan, dove restano senza un preciso mandato a rischio loro e di tutti i poveri cristi che stanno da quelle parti. Ridiscutere con gli alleati il senso della missione? Mappercarità. D'Alema ha troppo da fare con il suo feudo in Puglia. La base militare di Vicenza, la TAV. E norme fiscali che restano cervellotiche e farraginose, tanto da obbligare chiunque a valersi comunque di un commercialista non tanto per evadere le tasse ma giusto per evitare grane. Ma già, noi si rompono i marroni ai benzinai ma non ai commercialisti. Una legge sulla fecondazione artificiale degna del Sultanato dei mamelucchi (o della ASL di Salem) ma che nessuno si sogna di toccare per non far piangere la Madonna e non far imbufalire il Vaticano.
Che altro?
I lavavetri divenuti il principale problema sociale creato dall'immigrazione, il degrado della RAI, la farsa indegna della votazione sulla legge sul Welfare, le cordate e cordatine delle primarie PD con accuse di brogli e un vincitore annunciato come mesi di anticipo...
Una legge del piffero sui libri, persino peggiorativa della già non eccelsa legge approvata dal governo Amato e massacrata dal governo Berlusconi.
E adesso questa.
L'obbligo di registrazione di qualsiasi sito o blog su internet (quindi anche il blog pieno di cuoricini e bestioline di mia figlia quindicenne, per dire) nel Registro Operatori della Comunicazione (con annessi e connessi problemi burocratici e fiscali) e la possibilità di essere perseguiti per quanto scritto sul proprio blog e/o sito, con l'ovvia possibilità che qualsiasi cretino potrà scrivere sul vostro blog: «L'On. Imbuto Crepapanza è un mafioso, un ladro, un figlio di zoccola e tiene pure le corna» e ad andare nelle grane sarete VOI.

«Ma lo fanno per evitare il precariato tra i giornalisti».
Certo, come no.
Ed è il Sole a girare intorno alla Terra.
Infatti TUTTI i giornali su carta stampata stipendiano regolarmente chi scrive per loro.
E a Natale a portare i regali è Babbo Natale.

Bene. Con quest'ultimo tentativo di affossare il media più democratico che esista (e che lor Signori NON conoscono, non sanno usare e temono) hanno davvero colmato la misura. Cosa c'è dietro? Beh, chiunque può fare le sue ipotesi.
L'ansia di sgonfiare le gomme a Grillo (che non mi piaceva granché come comico e mi piace ancor meno come politico, ma questa è un'opinione personale) e di eliminare quel po' di giornalismo indipendente che esiste in Italia. La semplice abissale ignoranza e la conseguente paura. Il desiderio di regolarizzare, regolamentare e magari tirarne fuori qualche soldino, utile a pagare gli interessi sul delirante debito pubblico creato negli anni '80 da DC,PSI e PCI e a sostenere tutta la giungla di tirapiedi, sottopancia e cacicchi delle amministrazioni locali (pensate a Bassolino e alla sua gestione dell'emergenza rifiuti o ai DS e Margheriti implicati nel traffico di posti di lavoro e tangenti in Calabria...).
«Sì ma altrimenti cebberlusconi!»
Che è come dire un governo insieme corrotto, autoritario, incapace e criminale.
Vero, sacrosanto. Ma è possibile continuare a ingoiare m... giusto per evitare il ritorno del Cavaliere? È legittimo? Senza contare che questi qua sono talmente imbecilli che riusciranno a farlo tornare anche senza che i delusi si facciano sentire.
L'unica è suonare loro la sveglia. Una sveglia molto forte, tipo quella suonata sabato 20 dalla cosiddetta sinistra radicale. O magari, firmando la petizione contro la legge sui siti web.

In ogni caso credo sarà bene attrezzarsi per una lunga attraversata del deserto. All'opposizione.
Una buona occasione per sbarazzarsi di tutto l'ingombrante e invadente personale politico che non ha avuto il buon gusto di scomparire dopo cinque anni di bagnomaria con il quinquennio Berlusconi.
In ogni caso si sta come stava un poveretto sotto i Borboni, costretto ad augurarsi che fossero... i Savoia a salvarlo.

Per leggere il testo originale della proposta di legge e firmare la petizione visitate il sito www.librinuovi.info, nelle pagine dedicate alle «news».

19.10.07

L'innocenza e la scrittura


Quest'uomo è Vittorio Catani, membro di spicco del manipolo di incoscienti che da anni si sforzano di mantenere viva la fiammella della fantascienza italiana.
Tutte le volte che mi capita di sentirlo o di leggerlo (abita a Bari e io a Torino e gli incontri vis-a-vis sono complicati) ho la sensazione di aver cambiato lunghezza d'onda, anzi di trovarmi in uno dei «suoi» mondi, un mondo luminoso, quieto e rarefatto dove le parole riacquistano la loro vera funzione: la comunicazione.
Mia madre, che come molte madri possiede, perlomeno per alcuni temi, il dono della sintesi, lo definirebbe «un signore». E io mi associo, riunendo nell'appellativo «signore» l'eleganza della modestia, della sincerità, dell'onestà mentale e dell'umiltà. Oltre al dono - automatico per un autore di fantastico - dell'innocenza.
L'innocenza per Chesterton, geniale scrittore cattolico, è una dote essenziale. Permette lo stupore, ovvero la possibilità di vedere il mondo consueto con altri occhi e scoprirlo differente e inaspettato. Migliore o peggiore, certo, ma soprattutto inatteso. Senza l'innocenza - che non è il contrario dell'intelligenza ma della meschina astuzia così comune in questa mediocrissima Italia - non esiste la speranza o la possibilità di comprendere davvero il mondo nel quale si vive. Al massimo di balbettare cose già dette e ridette, ovvietà, panzane e castronerie, da recitare però con la giusta enfasi. E non faccio nomi, almeno adesso.
Vittorio, dicevamo.
Sono stato uno dei pochi a poter leggere il suo nuovo romanzo inedito. Il Quinto Principio. Un libro generoso, ricco, felicemente eccessivo e nato da un'ispirazione troppo ampia ed estesa per la rachitica editoria fantastica italiana. Un romanzo «difettoso» ma per eccesso, giusto perché padroneggiare idee e visioni è sì un lavoro da scrittore di SF ma richiede tempo, pazienza certosina, una sconfinata documentazione e soprattutto quella sorta di sorniona attenzione vigile - o, se si preferisce quel divino strabismo - che permette a chi scrive di tenere d'occhio insieme il quadro generale della vicenda, lo sfondo, gli infidi elementi del discorso, la punteggiatura, il respiro e la musicalità delle frasi, la giustezza del lessico e solo Dio sa cos'altro. Per compiere questo piccolo miracolo abituale è necessaria innanzitutto la quiete, la solitudine e la possibilità di isolare la mente da piccoli e grandi problemi della vita quotidiana. Il miglior isolante a questo scopo è il denaro. Molto denaro.
Ma scrivere fantascienza in Italia è tutto fuorché un'attività redditizia. E più un testo è ambizioso più è fondamentale avere la giusta dose di quiete.
Se siete svegli avete già capito dove sto andando a parare.
Vittorio, come molti altri autori di fantascienza e fantastico, ha dovuto fare ( e deve fare) della scrittura una seconda attività, una passione da confinare nei pochi momenti di quiete che la vita offre. Difficile riuscire a essere compiutamente «professionali», con queste premesse. Ma Vittorio e pochi altri ci sono riusciti. Letteralmente volando su un biplano di legno e stoffa sono riusciti a percorrere ampi tratti fianco a fianco ai grandi professionisti della scrittura in lingua inglese. Un risultato - viste le premesse - eroico.
Provate a procurarvi e a leggere, per essere meno vaghi, «L'essenza del futuro» , Perseo Libri. È una raccolta della narrativa breve di Vittorio e ne presenta egregiamente temi, visioni, idee e fissazioni. Già, perché uno scrittore senza fissazioni non è uno scrittore.
Stamattina Vittorio mi ha segnalato una sua recensione al mio «In controtempo» pubblicata sul sito www.fantascienza.com. La segnalo perché per me è importante. Conosco la sua onestà intellettuale e so benissimo quanto vale una sua recensione positiva.
Qualche tempo fa Davide Mana si chiedeva pubblicamente perché gli autori italiani collaborino relativamente poco rispetto ai loro colleghi stranieri. Probabilmente questo è uno dei modi di collaborare. Utilizzare i mezzi che si posseggono per presentare il lavoro di un altro. Per commentarlo, apprezzarlo pubblicamente. Non il «do ut des» tipico della grande editoria dei periodici ma un lavoro di segnalazione e comunicazione lento ma non ingrato.
E, in fondo, a decidere sono soltanto i lettori.
Fortunatamente.

12.10.07

Uno sguardo unico

Questa è una fotografia scattata ai «Portici del libro». Il cugino It che appare dietro il bancone dei libri è mia moglie, Silvia. La mia complice nel mettere al mondo la creatura pestifera che appare alla fine di qst post. Fine della parentesi familiare.
Quando qualcuno tira fuori le foto della famiglia è possibile abbia cattive intenzioni. È vero, in un certo senso.
Riferisco qui di un paio di cose che mi sono capitate, rimarchevoli, almeno per me.
La prima: ho portato a termine la presentazione della quale ho sproloquiato nel post precedente.
È andata bene, anche se le copie vendute sono state in tutto due (2). I presenti, un manipolo di eroi dei quali ben cinque o sei non li conoscevo personalmente.
Mi hanno fatto notare che l'orario della mia presentazione era il più vigliacco possibile, ma non importa. In fondo sono uno scrittore periferico e sconosciuto, quindi è normale che mi abbiano cacciato in fondo alla lista.
Eugenio Pintore è stato un presentatore magico. Mi ha fatto chiacchierare ma senza eccessivi sbrodolamenti e mi ha fatto anche un paio di domande sulle quali temo di essere andato a farfalle. «Il tema del tempo nei tuoi racconti…»
Gesù, non ci avevo mai pensato. Mi venivano così.
Prova un po' a spiegare i movimenti che fai per andare in bicicletta o suonare uno strumento musicale. Prova un po'. Ricostruiscili mentalmente. Descrivili.
Ho remato parecchio ma qualcuno ha poi commentato che ho detto cose molto intelligenti. Qualcun altro che non era poi così chiaro ciò che volevo dire.
È possibile siano vere entrambe le cose.
Comunque provare a spiegare perché fai così, scrivi così e che cosa volevi dire è praticamente impossibile. Sei costretto a ravanare parole sempre con la sensazione che scrivere non ammette chiacchiere né spiegazioni. E questo lo sapevo già da me.
Ringrazio comunque di cuore il buon Eugenio che mi auguro di avere ancora come interlocutore. Io mi sono divertito, spero che anche per lui sia stata almeno un'esperienza decente...
La seconda cosa rimarchevole riguarda un amico, compagno di avventure letterarie, stimato traduttore, abile divulgatore scientifico e scrittore di talento.
Parlo di Davide Mana, membro di spicco della magica equipe di ALIA.
Sul suo blog (senza nemmeno avvisarmi) ha scritto:
******
Ora, com’è il libro di Citi?
Beh, ragazzi, scucite i quattordici euro e leggetevelo.
E’ molto tascabile, piacevole al tatto, facilmente ottenibile on-line.
E’ meglio di un Urania, e non rischia di sfaldarsi per l’umidità.E’ meglio dei due terzi della narrativa che si pubblica nel nostro paese - ad esser conservativi nella stima.
E cosa sono, ormai, quattordici euro?
Se però volete sapere com’è leggere il libro di Citi…. ah, allora il discorso è diverso.
Cercate di ricordare, se ci riuscite, la prima volta che avete letto Ballard.O Jack Vance.O H.P. Lovecraft.O Haruki Murakami.
Badate bene, con questo non voglio dire che la scrittura di Citi assomigli in alcun modo - per forma o temi - a quella di Ballard, Vance o Lovecraft, o Murakami.
Massimo Citi è un autore maturo, con unproprio stile.
Come la Coca Cola è The Real Thing.
Ma la sensazione che si prova nel leggere queste storie è la stessa che si prova nel leggere l’opera di uno di quei colossi.L’impressione, fortissima, di trovarsi davanti a qualcosa di radicalmente nuovo e diverso da ciò che si è letto finora.
Qualcosa che diverrà un termine di paragone, un punto di riferimento.
E cosa si può desiderare di più dalla lettura, se non incontrare una prospettiva diversa.
******
Bene. Davide ha fatto un centro pieno.
La cosa alla quale tengo di più è provare a fare qualcosa di originale. A essere, in un certo modo, unico. Ma non unico in senso stirneriano o per l'illusione di sentirmi un genio. Semplicemente perché unico è il mio sguardo (come quello di tutti) e unico è il mio modo di elaborare le esperienze. Nulla di più di questo, nulla di più di un tranquillo navigare nella vita di ogni giorno elaborandomi le mie personali cavolate e provando, in separata sede, a farne una storia, un luogo dove non sono mai stato, un'emozione che non ho provato così in quel momento.
Chi scrive ha l'obbligo morale di essere originale. Per fedeltà a se stesso. Tradire se stessi è il vero tradimento.

22.9.07

Immancabile...


... Continuo a fare cose ovvie, viste le circostanze.
Cose tipo fare una presentazione pubblica dell'antologia.
Con un gentile lettore, Eugenio Pintore, presidente del comitato esecutivo regionale dell'AIB (Associazione Italiana Biblioteche) che parlerà di «In controtempo» e mi farà qualche domanda.
Mi è capitato spesso - visto il mio lavoro - di fare domande agli autori e ancora più spesso di ascoltare altri farne. Qualche volta mi è capitato di pensare: «vabbé, ma non sei mica Dante Alighieri o Luigi Pirandello». Altre volte, più o meno lo stesso numero, di pensare: «Cavolo... è preparato, brillante, spiritoso e non dice nemmeno delle cose così ovvie».
Il mio terrore non è tanto di non farcela a essere rubricato nella seconda delle due categorie quanto di essere infilato da chi ascolta nella prima.
Ma, d'altro canto, anch'io ho qualche idea sul perché e il percome dello scrivere. E sono legalmente responsabile di ciò che ho scritto.
Quindi… vado. È la prima volta che mi siedo dall'altra parte, ovvero che non inizio io con un bel discorsetto sul motivo per il quale presento questo libro.
Devo ricordarmelo, anche per evitare di parlare per primo.
Calmo.
Sereno.
Con pipa, magari.
Anche se non ho mai fumato la pipa.
Barba.
Beh, quella ce l'ho. Alla Coelho, oltretutto.
Il calzino lungo in bella evidenza.
Lo sguardo pensoso ma rilassato, l'occhio acuto, l'espressione vigile ma bonaria...
Bonaria, non bovina.

Sarei ben contento di stipendiare qualcuno perché andasse ad esibirsi al posto mio, ma non posso.
Comunque sia, chi volesse sapere come, alla fine, me la sono cavata può materializzarsi sabato 29 settembre, ore 21.00 in Galleria San Federico, Torino.
La presentazione si terrà in occasione dei Portici di Carta. Una buona occasione - per chi sta a Torino e dintorni - per vedere anche i libri che i librai tengono nascosti dietro i sagomoni e le pile di best-seller.