20.11.07

Magagne



Il mio amico Piotr, che potete vedere (sfocato) nella foto allegata, mi ha mandato un lunghissimo intervento zeppo di critiche perfide & avvelenate sull'organizzazione, la conduzione, la gestione e i temi della presentazione a «In controtempo».
Siccome sono un tipo democratico ho accettato di pubblicare il suo intervento, specificando, però, che - per espressa richiesta di Piotr - nulla di quanto dice deve essere preso sul serio.
Anzi, che proprio l'intero intervento - nonostante dica in modo spiritoso cose intelligenti - non dovrà essere preso sul serio.
Strano tipo, Piotr.
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C’era qualcosa di sbagliato, e qualcuno dovrà pur dirlo, no?
O magari vi aspettate che solo perché quasi tutto era carino, bello e giusto, si possa tacere delle magagne? Ah, già… troppo facile, così. Troppo semplice, allora.
Le magagne, bisogna che qualcuno le tiri fuori.

Ad esempio, la libreria. Certo, è bella e la conosco; e di notte, poi, ha un fascino speciale, con le vetrine accese. Respira insieme a Torino, a quel pezzo di Torino: forse, per sentirlo davvero, bisogna conoscere un po’ quella zona (ma senza conoscerla del tutto, però). C’è Fisica, a giusto un isolato di distanza. E anche Chimica, certo, è la zona delle facoltà scientifiche; almeno finche non le sposteranno tutte, fuori città, in un avanzato tecnologico asettico comprensorio deprimente. E c’è il Galileo Ferraris, tic-tac ufficiale d’Italia, davvero poco distante; e il Valentino, giusto là dietro. Ci sono anche prostitute che impressionano il figlio quattordicenne, ma sono prostitute in fondo rassicuranti, quasi consolatorie. Provo a spiegare a Paolo che, per quanto possa sembrare impossibile, sono quasi certo che quella più piccola, con stivali lucidi e rossi, probabilmente era già qua quando ho varcato per la prima volta la soglia del sacro edificio della Facoltà di Fisica. Cioè trenta anni giusti fa. Il figlio sembra non credermi, e forse fa bene.

Torino scura e calda, nonostante la temperatura siberiana e novembrina. Vetrina di libreria accesa, come faro regolamentatore della notte, e vedi che funziona tutto? Vedi che i due pellegrini trovano riparo, proprio come Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk, all’inizio del Nome della Rosa? Vedi che non c’è nulla ce non vada?
Balle, c’è sempre qualcosa che non va. Le magagne ci sono, esistono. Infatti, la porta è chiusa.

Chiusa! Per un misero quarto d’ora di ritardo! E noi qui fuori, dispersi nella tormenta metropolitana, facili prede di peripatetiche e di pericolosissimi studenti? Tra foglie secche e carte sporche che volano, dopo un’ora intera di macchina, cinquanta chilometri, dalle rive della Baltea fin qui sul Po, e la porta è chiusa? Ah, disperazione, abominio e devastazione! Vedi, vedi, vedi le magagne?
- Bussiamo, papà? –
Il figlio mi stupisce, mostra un’incredibile spirito d’iniziativa, decisamente poco genetico, e in effetti l’opzione m’era sfuggita. Prima che io possa assentire o vietare, già bussa, lui, quattordicenne spudorato e senza ritegno. Ma cavolo, magari rompiamo le scatole! Ma cavolo, avranno già iniziato! A ben vedere, io non m’ero manco peritato d’annunciare la mia presenza (figuriamoci quella del figlio), perché un conto è passare con nonchalance davanti ad una libreria che uno si aspetta popolata dietro la vetrina, un altro conto è bussare e chiedere asilo. M’ero ripetuto più volte l’approccio, nella mia mente startegica: noi si passa davanti, dentro si vede un mucchio di gente, Massimo o Silvia mi riconoscono, indi aprono-sorridono-invitano ad entrare. Io mi schermisco-sorrido-nego intenzione (“Passavamo di qui per caso, facevamo quattro passi, proprio qui, guarda te la combinazione…”). Sì, a cinquanta chilometri da casa. Sì, a meno cinque celsius, con tosse e otite reiterata. Vabbè, tanto avrebbero comunque fatto finta di crederci, e noi avremmo fatto finta di accettare (“Ma solo un attimino, neh?”). Che detto da uno con accento centroitalico, è pura devastazione vandalica dell’etica vernacolare.

Ma niente di tutto quest’immaginario prende corpo, cazzarola; perché la porta è chiusa, perché il figlio bussa, sfacciato. Ah! Come farò, adesso? Adesso che – eccolo - Marco risale le scale, e sorride, perfino. Adesso che – ehi, c’è anche lei - Morgana appare e sorride anche lei, e ci fanno posto, scendiamo le scale, ci portano giù, giù. Giù, nel profondo ventre della libreria. Nelle viscere della carta stampata, nell’intestino della conoscenza.
Che trabocca, infatti. Tracima, ribolle, riversa: insomma è strapiena, e mica solo di libri. Di umanità, soprattutto. Stretti, puntuali e ordinati, su piccole sedie e sguardi attenti, mentre i miei novanta chili ottundono la scala a chiocciola. Cavolo, vedi? C’è sempre una magagna, in agguato. Avevano iniziato, ma fingono di no. Trovano sedie, chissà come fanno, ci sono più sedie che spazio per sedie, e questa è cosa curiosa, che avrebbe incuriosito più d’un filosofo naturale del Seicento. Vedo Massimo e vedo Silvia, e sento un sacco d’occhi addosso, e sono quasi certo di conoscere i nomi, anche, oltre agli occhi che solo ora si rivelano, ma prova ad accoppiare nomi e occhi, adesso, se ci riesci. Magagne, magagne, è tutta una magagna. Perché non hanno tutti un bel cartellino col nome, come nei congressi seri? Perfino le società segrete, ce li hanno. Scommetto che perfino la Giovine Italia di Mazzini doveva averli, i bigliettini coi nomi. Guarda Provenzano, ad esempio, lui ce li aveva eccome, i pizzini. Qui, invece, come faccio, io? Sicuro come l’arcobaleno, qui dentro ci sarà il Davide Mana. Certo come l’effetto Doppler, qui dentro ci sarà perfino il Soumarè, vuoi che non ci sia? Magagne, magagne, e magagnette.

Atterro sulla sedia, colpevole. Gente ordinata e puntuale, dietro di me, si vede la visuale oscurata da un corpulento cinquantenne in giaccone chiaro. Giaccone che tolgo a fatica solo a presentazione iniziata; fossi in loro, sarei incavolato di brutto, a vedere il ritardatario occupare il posto migliore. Vabbè, che volete farci, anche a voi toccano un po’ di magagne, o volete che me le becchi tutte io? Ad esempio, perdincibacco, dove è finita Francesca? Me la narrano attrice e fine dicitrice, e qui invece la vedo trasparente e muta, insomma assente. Non è trucco, truffa, magagna, questa? Il libercolo ce l’ha in mano Silvia, vuoi vedere che hanno magagnato anche lei, e che toccherà a lei fare le veci? Povera Silvia, l’hanno fregata di brutto. Si vede, non ha mica l’aria contenta. Però.
Però.
– Però Silvia è proprio brava a leggere, vero papà?
Saranno le prime parole di mio figlio, quando saremo usciti. E cavolo sì, che è brava. Quindi, forse, non è stata magagnata, lei. Forse era tutto un complotto preordinato, visto che ha letto così, limpida e sicura, quasi avesse studiato recitazione col metodo Stanislawski, cercando di immedesimarsi con una fonte d’acqua sorgiva. Ma io intanto sto ancora qui, prima che la presentazione inizi, cerco di farmi piccolo ma non ci riesco, mi chino sull’incolpevole figlio che sopporta, e per fortuna che nel frattempo capisco chi sia Cettina, visto che si parla d’una fotografa. Giusto qua, ad una sedia da me, e sorride bene, la signora Calabrò. E fa anche ridere, quando dice; “Insomma, smettetela di chiedere, diamine. Io faccio la fotografa per non dover parlare”. Rido, mi rilasso perfino un po’. Forse, quelli seduti dietro sono dispiaciuti della cosa, perché quando io mi rilasso divento più voluminoso. Massimo è già seduto, Silvia è già pronta, manca solo il Defililippi. Dove sta, il prefatore? Ah, eccolo! Diamine, seduto ordinato tra il pubblico anche lui, s’alza e si erge. Uffa, si vede proprio che è uno scrittore lui. Ha le physique du role, pure la faccia du role, perfino i capelli e gli occhiali du role. E’ simpatico, si vede subito. Tutti lo conosco e lo applaudono, è verosimile che sia simpatico a tutti, tranne agli invidiosi. Io, per esempio, non lo sopporto.
La sedia alla mia sinistra è ancora vuota: Morgana si muove a compassione e la occupa. E così, con alla destra il mio figlio unigenito e alla sinistra una fanciulla che prende il nome da una fata e che lo ha trasmesso ad undici antologie, sono pronto alla battaglia. Perché battaglia certo ci sarà, si capisce benissimo. E’ una sera piena di magagne.

Il Defilippi comincia a presentare così come ha prefazionato. Gioca sul sicuro, il fellone.
– E’ un libro che mi sarebbe piaciuto scrivere…
Dice, tra l’altro. E qui si palesa la fellonìa. Qui si fa sentire tutto il peso e la forza del potente. O del prepotente. Ah! Facile, eh? Semplice, nevvero? Se lui dice quella frase, un novello autore va in brodo di giuggiole. Se io dicessi la stessa frase, l’autore mi guarderebbe come si guarda un ramarro con in bocca una farfalla. Facile, eh? Ah! Anche a me sarebbe piaciuto scrivere quel libro! Solo che se lo dico io non gliene frega niente a nessuno. Invece, se lo dice Alessandro Defilippi…
Ah, è chiaro. Sarà una lunga e difficile serata. Scorrerà del sangue, e ci saranno magagne a non finire.
Poi parte in quarta, parla di letture e riletture, e l’importanza delle riletture. Vabbè. Articola, conciona sulla natura del fantastico. Vabbè. Ne dice di cose, e tutto sommato, non dice solo robaccia. Ad esempio, quella storia del crinale, di qua il fantastico, di là il reale, come Massimo che fa una fatica boia nei racconti a restare sulla sommità, a camminare sullo spartiacque, uh, che fatica deve essere. E il Defilippi se ne è accorto. Vabbè. E poi fa parlare Massimo, che sorride e tentenna. Incredibile, saremo in tutto venti o trenta persone, gli vogliamo tutti bene, eppure si vede che si emoziona. Che roba, come farà uno a sopravvivere alla ambasce e alle cattiverie del XXI secolo, se si emoziona per queste cose?
Per fortuna sorride, più con gli occhi che con le labbra, e a me fa impressione seguire la strana iperbole disegnata dalla sua barba, dal suo sorriso, dal suo occhio destro e dall’Alonso-Finn, sacro testo di Fisica, giusto dietro di lui. Non so che significato abbia questa presenza (quella dell’Alonso-Finn, intendo), ma di sicuro ne ha uno. Eppure perfino Massimo riesce a tirar fuori una magagna, ci credereste?
Si sente in imbarazzo, dice; anche se di presentazioni ne ha fatte tante. Perché, dice, ha visto spesso tavoli con libri da presentare, con prefatori e presentatori come il Defilippi, e con autori che concionano. Ma è che di solito, di fianco agli autori, ci sono i librai.
… e io sono un libraio…
Dice imbarazzato e divertito. E diverte, infatti. Chi manca, in quel tavolo? Il libraio, o l’autore? Sommerso da un conflitto (irrisolto ma irrisorio) d’interessi, rinuncia, e poi risponde alle incalzanti domande del Defilippi.
Ma la magagna c’è ed è grossa come una casa. Libraio, Massimo? Solo libraio? Ah! Facile per te, scegliere il tuo ruolo, e deciderlo, facile! Ma io, da questa parte del tavolo, vedo parlare l’autore d’un libro, il libraio che l’ha venduto, e l’editore. Che è l’editore del suo libro, ma – perdincibacco baccone – anche del mio! E figurati, allora, scrittore-libraio-editore, con che reverenza ti si guarda dall’alto della mia sedia piccola. Che poi, fosse finita lì! Perché poi recensisci, o recensore, e talvolta lo faccio pur’io, e quindi sei co-recensore, per non parlare del fatto che pubblichi la rivista di recensioni, co-edito-recensore. Libraio, dice lui. Libraio e basta… tzè. Ma io ho Morgana vicino, e me lo ricordo, che fai anche i concorsi, caro il mio concorsitore. E li giudici, mio caro giudicatore. Poi li stampi, nevvero, stampatore?
E allora, ecco che finiscono i sostantivi, e mi servirebbe il Devoto-Oli per continuare. E per fortuna che qua sotto, magari il Devoto-Oli c’è davvero. Non necessariamente vicino all’Alonso Finn., però.
Ma si entra nel vivo. Perché il ventennio, chiede perfido il Defilippi. Per le narrazioni delle mie vecchie donne, risponde Massimo, e Alex sorride come vipera in agguato. E un fotografo dall’aria saggia ricorda quali siano i percorsi leciti del narrare, che non sempre sono tutti aperti e tutti disponibili. E lo scrittore psicoanalista annuisce e psicanalizza. Tende trappole, lancia sguardi seduttori alle signore, aspetta altri commenti.
Mi alzo, finalmente devastato e irritato, lo sovrasto e lo distruggo:
- Perché il ventennio è marchiato, e marchia ancora. Perché, con somma vergogna dell’italica gente, è l’unico fottuto periodo originale italiano del ventesimo secolo. Marchio d’infamia, certo, ma inevitabile. Un narratore può far balenare un microdettaglio, e il lettore sa, capisce, vede. Solo la nappa nera d’un fez, e il lettore capisce. Un rombo accennato di folla a piazza Venezia, e immediatamente la trama è collocata. Potesse fotografarlo il dettaglio minimo possibile, a Cettina basterebbe un ottavo di negativo, un angolo distratto, meglio se in bianco e nero, per portarci subito dove la storia deve portarci. In tutto il resto del secolo, dannazione, abbiamo altre passioni, altre storie, altre vite. Tutte più giuste e belle, o quasi, ma inevitabilmente di seconda mano. Per questo il ventennio, per questo, purtroppo: altro che stronzate come l’apologia di fascismo. I tempi interessanti, come dicono i cinesi, sono quelli più antipatici da vivere. Per questo le narrazioni che le donne facevano a Massimo sono tutte lì. Inchiodate in quei tempi fottutamente interessanti.

Questo gli urlo, forte e cattivo, in faccia.
Anzi no, col cavolo che lo faccio. Ho una fifa blu anche solo a respirare, figuriamoci se intervengo per dire una roba del genere. E poi, perché dovrei prendermela col Defilippi, che è simpatico a tutti? A me no, perché sono invidioso, ma qui non lo sa nessuno, lui meno degli altri. Non posso mica fare subito uno scrittoricidio. Ci sono troppi testimoni.
Ma poi Silvia torna a leggere leggera, e altre domande ritornano. Ancora il crinale, e le similitudini con Poe, con James, e perfino sulla giusta lunghezza, l’ideale, per le storie del fantastico. Il romanzo breve, dice il Defilippi. Ha maledettamente ragione, che noia, ce l’ha spesso, come faccio a litigarci, se dice un sacco di cose che vorrei aver detto io? Ma poi i tempi, ecco, forse qui è solo troppo poco, troppo tirato via. Anche se parliamo di “In Controtempo”, non è solo il tempo, ad essere protagonista. Massimo è d’accordo, ma lui è solo l’autore, che volete che ne sappia, l’autore? Parla di tempo percepito e di tempo reale, e della difficoltà di narrazione, e della voluta dilatazione dei tempi. Tutto vero, sacrosanto, evidente. Ma non è tutto qui.
Mio figlio, che temevo si sarebbe addormentato, è attentissimo.
Alessandro gioisce quando arriva la lettura del brano preso da “Linea di Confine”, che è il suo preferito. E’ qui che non capisco, è qui che devo metterlo alle corde.
Perché lui per primo ha parlato di stile, e Massimo sembrava contento, perfino. Non si accorgeva che gli stava scippando qualcosa. Lo stile è difficile da definire, ma è una proprietà intessuta nelle dita dell’autore. Paradossalmente, anche l’assenza di stile è uno stile, e quindi la parola non basta. E proprio quando si parla di crinale, di stile e di tempo che vorrei urlare a tutti che è Vetro di Seta che rende perfettamente l’equilibrio impossibile, mentre invece Alex devia sempre l’attenzione su Linea di Confine. E no, non è così, che si deve fare!
Perché Linea di Confine è racconto puramente attanagliante. Come una tagliola crudele, ti cattura e non molla. Peggio, è una tagliola lenta: la vedi scattare lentamente, vedi il piede nella traiettoria delle ganasce, e non hai la possibilità di sfuggire. Quindi, un capolavoro, certo, chi lo nega. E’ un bolero ineluttabilmente in crescendo, parte con una casa vuota, come è vuota la musica che inizia col solo tamburo nel didascalico pezzo di Ravel, ma che si sente crescere e che si capisce subito che finirà con tutta l’orchestra urlante in crescendo. Come la casa, che si riempie dei noi-fantasmi della televisione sempre accesa, e che si svuota dalla vita reale. La tagliola; la vedi chiudersi, ma non riesci a ritirare la gamba.
E va bene. C’è qualcosa di male, a preferire Linea di Confine? Certo che no! E’ un capolavoro, un esercizio di stile, anche. Perché il “crescendo” è, tutto sommato, un meccanismo stilistico classico, e proprio per questo è difficile da interpretare. Non a caso il Citi – che in questo caso si merita l’articolo, come i grandi – saggiamente evita di esasperare troppo il finale, di non dettagliare i denti della tagliola che finalmente mordono la carne, lacerandola. Si sa. Si sente.

Ma il crinale, qui, è definito! E’ stupendamente definito, tra fuori e dentro la casa. Anzi, tra “dentro la casa con la TV accesa” e il resto del mondo. E il ritmo è un crescendo. E il tempo è un tempo condiviso, tra il fuori e il dentro. Quindi, non è Linea di Confine il racconto più rappresentativo, proprio secondo il paradigma critico del Defilippi!

Il perfetto rappresentante del respiro onnipresente in tutta l’antologia è Vetro di Seta. Perché non è solo questione di stile, ma anche, forse soprattutto – di tecnica. Uno scrittore vero e affermato (come il Defilippi), forse non se ne accorge più. Uno scrittore malriuscito, uno che fa sempre fatica ad alternare dialoghi e segni d’interpunzione, descrizioni e congiuntivi, personaggi e consecutio temporum (come il sottoscritto), sa invece sempre benissimo quanto sia difficile permeare le pagine con le atmosfere. E Vetro di Seta è un capolavoro di tecnica, in questo. Perché le atmosfere sono sempre sospese, sia da un parte che dall’altra del crinale citico, o defilippico, se si preferisce rendere eponimo il critico invece dell’autore. La storia rimane perfettamente in equilibrio, perché non v’è mai decisione verso uno o l’altro versante: non si deve precipitare con crescendo verso il fantastico o il reale. Tutto sta nel titolo, e nell’oggetto del titolo: il vetro di seta, il pezzo di vetro lavorato dal mare, opaco se asciutto e trasparente fino all’invisibilità se bagnato. Consapevole o meno che fosse, Massimo per tutta la durata del racconto mette l’obiettivo della trama su un pezzo di vetro di seta, e lo avvicina all’acqua. La sua storia, nella parte del “reale”, è quando il vetro è asciutto, opaco, tangibile. E così c’è la caccia ai suoni, la tecnica, la villa, i nostri giorni. Quando il vetro si bagna diventa trasparente, e vediamo cosa c’è sotto l’acqua: tre quarti di secolo prima, paesaggi, persone, climi diversi e diverse passioni.
Facile da rendere? No, difficilissimo. Quasi impossibile. Ma il vetro di seta non resta fermo, continua ad oscillare dentro e fuori dell’acqua per tutto il racconto, negando la separazione netta, cosa che invece, almeno in termini spaziali, Linea di Confine fa. Il lettore non sa mai bene quando il pezzo di vetro levigato si immergerà un po’, nella storia, diventando trasparente e facendo balenare il passato. Accade, e poi cessa di accadere. La narrazione si muove sul crinale con la perfezione di un esploratore dei ghiacciai, al punto che il colpo di scena finale è un colpo di scena mai nascosto, ma sempre presente. Il passato era già nel nastro, ma non era riconoscibile, identico al presente. Il vetro di seta aveva divorato persino l’ultima tensione superficiale del liquido, e restava asciutto e bagnato al tempo stesso.
E glielo ho detto, al Defilippi. Ho atteso la fine dell’incontro, l’ho fatto alzare, ho scelto il momento in cui, non più protetto dal tavolo (cattedratico tavolo) era tornato ad essere solo un uomo, e non uno scrittore affermato e bravo. E gliel’ho detto in faccia, con tutta la forza retorica e dialettica che mi era andata salendo in corpo.
Il che significa che gli ho mormorato: “A me piace di più Vetro di Seta”.
Al che lui ha controbattuto: “Non sono d’accordo”.
Ma io dico! Si può rispondere così, a cotanta verve dialettica?
Ho allora preso cappotto e figlio, e sono scappato verso il canavese. Ma mi ripromettevo, andando a lunghe falcate verso la macchina, di leggere bene e meglio ogni singolo parola stampata dal perfido Defilippi. Conosci il nemico, se vuoi batterlo. E lui me l’avrebbe pagata cara.

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