16.11.12

M.A.d.u.L.p. 4. Il vile denaro


Quarta parte delle mie false memorie. Spero che siano gradite come le precedenti. Per qualcuno gli spunti presentati risulteranno interessanti, per altri probabilmente un po' irritanti («cheppalle 'sta difesa delle piccole pidocchiose librerie») ma rappresentano tuttora il mio punto di vista, reso anche più tetragono dalla mia attuale esperienza di lettore, facile all'irritazione e all'insoddisfazione.  Basti dire che sono una quindicina di giorni che cerco inutilmente un libro recente di autore nigeriano - edito da un editore distribuito da Messaggerie Libri - senza riuscire a trovarlo da nessuna parte, né nelle librerie di catena né nelle poche librerie indipendenti superstiti qui a Torino. Tristemente mi trovo ad avere e ad avere avuto maledettamente ragione.


Finalmente.
Dopo averlo lungamente promesso eccomi a spiegare il soldo. Quanto si fanno le librerie, quanto gli editori, quanto gli autori ecc.
E quanto si può lasciare al lettore senza portare i libri contabili in tribunale.
Paradigma, che non risulterà nuovo per nessuno: più si è grossi migliori condizioni si hanno. Più si vende e più si guadagna. Non soltanto nel senso che si fanno più soldi alla cassa ma proprio nel senso che si hanno migliori condizioni di sconto, pagamenti più lunghi, piccoli presenti, regalini, attestazioni di stima (piuttosto pelose, ma per convenzione la stima è genuina), telefonate amichevoli, inviti a cena.
Ne deriva che più si è grossi più è facile diventare ancora più grossi. E poi ancora più grossi. E poi ancora…
Non storcete in naso. Ci può essere merito nell’essere grossi.
Si può aver puntato sul commercio librario quando chi voleva farsi i soldi puntava sulle obbligazioni della Banca di Roma o sul commercio di proiettili o di camicie nere. Oppure perché si è inventato un tipo di libreria o di editoria che prima semplicemente non esistevano (pensate a Ulrico Hoepli). Oppure ancora perché si è nati già grossi ma si è stati capaci di mantenere e migliorare l’impresa.
E non è detto che l’essere piccoli sia per forza un segno di particolare e raffinato buon gusto o di superiore sensibilità. Semplicemente può voler dire che si è avviata l’attività nel posto sbagliato e si prosegue per pura e semplice cocciutaggine (non facciamo esempi, per carità).
I grossi possono fare più sconto al pubblico, però. E quindi possono buttare fuori dal mercato i piccoli e anche i meno grossi. Teoricamente possono fare più sconto perché pagano di meno lo stesso libro e lo pagano più tardi. Basta non esagerare. Essendo grossi, infatti, stabilire il momento nel quale si comincia a perdere è meno facile.
Grossi in questo senso possono essere i supermercati, le catene librarie, le librerie on line. La legge sull’editoria introducendo un limite (troppo alto) allo sconto che si può praticare ha se non altro evitato un massacro di piccoli punti vendita, ma la possibilità resta.
Servono a qualcosa i piccoli punti vendita o sono una semplice diseconomia?
Beh, proviamo a immaginare che i piccoli punti vendita scompaiano. Scompaiano le librerie indipendenti, «tristi» secondo Citati, lasciando i locali liberi per allegre attività immobiliari, gioconde ricevitorie, liete filiali bancarie, ilari agenzie per il lavoro interinale.
Rimangono soltanto grossi punti vendita. Librerie di catena identiche in ogni angolo d’Italia che puntano sulla stessa rosa standard di titoli (pile su pile dell’ultima invettiva criptonazista della Fallaci, piramidi dell’ultimo Bruno Vespa, obelischi dell’ultima Alberonata, monumenti al Baricco o all’Ammaniti del momento). E Grandi Sconti. Grande campagne (– 30% sul tascabile, – 25% sul meridiano). Come per i pelati o il tonno (questa settimana Tonno O’Mar a 1 euro!).
Qualcosa che non va?
Nulla, in apparenza.
Si legge e si risparmia. Slurp!
Solo che se siete piccoli editori, magari coraggiosi, magari innovativi dovete svenarvi per riuscire a entrare in quel genere di cattedrali. Per poi scomparire dietro una mastaba di Marilù Manzette che non chiedono scusa.
Non tutti i piccoli editori sono coraggiosi e innovativi e non tutti i grandi sono avidi e pavidi. Ci mancherebbe. Solo che è abbastanza probabile che sia un editore piccolo o medio a tentare nuove strade, nuovi autori, nuove formule. Se non altro perché non avrebbe mai i soldi per pagare i diritti di un autore che «tira» (non perché non gli piacerebbe, comunque).
Senza i piccoli punti vendita i piccoli e medi editori tendono a scomparire dietro i Cento colpi di spazzola o sotto le memorie del bodyguard di Lady Diana. E i loro libri con loro.
Pensate alla musica. Se tutti i giorni sentite Paolo Meneguzzi e Dj Francesco è probabile finirete per trovarli sopportabili. Vi abituerete a pensare che siete voi a non capire la musica attuale, che se tutti li ascoltano dev’esserci qualcosa di buono…
E lì che si comincia a essere fregati. Quando si rinuncia a cercare qualcosa di diverso, ad andare oltre le foreste di best-seller, limitandosi a scegliere ciò che dispiace meno di altro. 
 

E che cosa c’entra lo sconto?
Bene, c’entra, eccome.
Uno sconto ragionevole fa piacere a tutti. Ai lettori bulimici in particolare perché permette di comprare più pagine spendendo meno. Ma lo sconto non è un diritto – se non nelle imprese sociali verso i propri soci – e non può essere una politica commerciale abituale. Perché fa pensare a chi legge che il prezzo di copertina è una fregatura in partenza, un bidone che soltanto i gonzi sono disposti a prendersi.
Più o meno come i condoni sulle tasse: «Non le hai pagate e ti premio. E se le hai pagate le ripaghi per evitare che venga a farti le bucce».
La politica dello sconto può servire a «fidelizzare» il cliente, come si usa dire, (anche se la migliore fedeltà è quella che si conquista con l’assortimento) ma va attuata con attenzione e intelligenza, senza intenti aggressivi e senza farne un escamotage per nascondere i limiti del proprio stock o della propria proposta.
Ovviamente sto affermando un’eresia. I colleghi librai in sede ufficiale non ammettono mai di praticare sconti. Anatema!
Per pochi è vero. Per la maggior parte di loro è come la pubblica rispettabilità di quelli che vanno a cercare compagnia a pagamento sulla tangenziale.
Ma quanto sconto si può fare?
Beh, sul prezzo di copertina di un libro (non scolastico) la libreria ha diritto a una percentuale variabile tra il 30 e il 40% (in rapporto alle dimensioni della libreria e tenendo conto che una parte di questo sconto è «sporco», ovvero in copie omaggio, tradizionalmente 1 per ogni 12 acquistate). Il margine lordo dell’editore dipende dai costi della distribuzione, se propria o altrui. Per gli editori di medie dimensioni che fanno ricorso a società terze per la distribuzione può essere stimata tra il 40 e il 50%. La quota restante è per le società di distribuzione (15-20%) e di promozione (intorno al 5%). 

 
Pensavate di più? Di meno?
O magari non credevate che la distribuzione si pappasse una quota così alta?
«In fondo cosa fa la distribuzione?» direte.
Beh molto, anche se sul fatto che si «meriti» una percentuale tanto elevata i pareri sono molto vari (per usare un eufemismo).
La società di distribuzione non è quella che manda in giro i fattorini con i pacchi, innanzitutto. La sua funzione è quella di organizzare le spedizioni dei libri dai propri magazzini, emettere documenti di consegna, fatture, ricevute bancarie e solleciti di pagamento. Per l’editore la società di distribuzione serve a togliersi il problema della capillarità delle spedizioni, della fatturazione e del recupero crediti. Non poco. Soprattutto il terzo elemento – il recupero crediti – non è da sottovalutare. Oltre a questo il distributore funge da banca per l’editore, dando credito per i titoli in preparazione.
In quanto alla società di promozione, che si pappa una percentuale decisamente inferiore (e che talvolta coincide con la società di distribuzione), è quella che arruola i famosi agenti editoriali per battere le librerie e piazzare «il prodotto».
Tutto questo bel discorso, tuttavia, non vale – del tutto o in parte – per le librerie di catena e men che meno per i libri distribuiti nei supermercati.
Condizioni, percentuali eccetera cambiano in rapporto al fatto che le catene hanno un unico buyer (che in italiano farebbe «compratore», vocabolo troppo ruspante quando si parla di sell-out) e quindi non hanno bisogno del famoso viaggiatore di commercio, come non hanno bisogno di un sacco di altre cose che costano. Le catene librarie per antonomasia pagano i fornitori, vendono molto o moltissimo e hanno potere di ricatto nei confronti degli editori che non siano giganteschi. D’altro canto gli editori medi e medio-piccoli salivano come cani di Pavlov di fronte agli ordini delle catene librarie e per gli ordini di FNAC o di Feltrinelli sono disposti a camminare sulle mani cantando La cumparsita in urdu e al contrario. E come dare loro torto? Gli ordini di quei signori possono «salvare» una tiratura (almeno tendenzialmente). Nel mio piccolo farei altrettanto per un ordine di ALIA o di qualsiasi altra cosa stampata dalla CS Coop. Studi ecc. Pur sapendo che le possibilità di rese alte sono considerevoli e che acquisto non significa visibilità…
Peccato che, per il momento, il telefono non squilli e arrivino solo e-mail contenenti virus o sciocchezze.
Ma è bene saperlo: quando si parla di sconto in libreria il confronto tra libreria privata e catene librarie o supermercati è insostenibile. La libreria privata (magari anche piccola) che vi fa «solo» lo sconto del 10% rinuncia a una quota di margine proporzionalmente molto più alta. Che lo faccia per cinico calcolo, per innata bontà o soltanto per sopravvivere non è importante. Matematicamente (e spesso anche praticamente) rischia il suicidio.
E anche qui evitiamo di fare esempi, per carità.


«Beh, in fondo chissenefrega! Mica sono il buon samaritano»
Vero. Ed è pienamente legittimo pensarlo.
Se non fossi qui a rendere quadrati i cerchi probabilmente penserei così anch’io. Solo che, in assenza di librerie indipendenti, dovrei prepararmi a una vita al suono di Paolo Meneguzzi, Dj Bobo, Dj Francesco e altre simili Delikatessen sonore. Oppure a strapagare i libri che mi interessano davvero, come è stato per i libri delle University Press americane, costrette a «fare efficienza», come piace dire ai manager, e quindi a praticare prezzi semplicemente assurdi.
Ammesso, comunque, che venissi mai a sapere che sono usciti.
Economie di scala, risparmi di gestione e razionalizzazioni condotti oltre limiti civili portano necessariamente alla standardizzazione delle produzioni e alla marginalizzazione dei prodotti non standard.
Lo so, questo spazio non è dedicato ai problemi creati dalla globalizzazione, lo ammetto, ma è difficile vivere facendo finta di niente. Un po’ come la Gran Bretagna nella seconda metà del XIX secolo, la Germania nella prima metà del XX secolo o gli Stati Uniti all’inizio del XXI non puoi illuderti di startene tranquillo senza che vengano a rovinarti la vita.
Dopodiché esiste internet, certo. Ma se pure si può acquistare (o scaricare gratuitamente) da internet, andare a viverci non è ancora possibile.
E una cattedrale (un mall) per consumatori adrenalinici circondato da un titanico parcheggio a sua volta circondato dal deserto non è un posto decente dove vivere.
E non credo di essere il solo a pensarlo.

Fine, per questo numero.

Avevo promesso di parlare di editoria universitaria e non l’ho fatto.
Già, ho iniziato l’articolo ricordandomi che dovevo parlare di sconti e soltanto una volta finito l’articolo ho controllato le mie promesse della volta scorsa.
Ma tanto nessuno aveva creduto alle mie promesse.
Ecco, mi piacerebbe sapere perché alle mie no, mentre… Eh sì che racconto un sacco di balle anch’io…
Non importa. La prossima volta parleremo di editoria universitaria. Forse. Altrimenti del rapporto tra PC e la libreria. Ovvero del perché il sottoscorta sia diventato un incubo e sui molti motivi che dovrebbero spingere chi lavora in una libreria a usare il PC solo per navigare in internet alla ricerca di qualcosa di stimolante. 

 

6 commenti:

Nick Parisi. ha detto...

Io ho sempre immaginato che la distribuzione facesse il bello ed il cattivo tempo. Mi sa che non mi sono sbagliato piú di tanto.

Massimo Citi ha detto...

@Nick: per avere una controprova è sufficiente aprire un editore autodistribuito. Telefoni per «piazzare» il prodotto - in conto deposito, ovvero con autorizzazione a rendere automatica -, fai i pacchi, controlli che non vadano persi, telefoni per sapere se il prodotto interessa, devi parlare con il titolare che non c'è mai, riesci a farti dire da 4 a 6 mesi dopo che qualcosa si è venduto, mandi la fattura, chiedi di essere pagato (1), chiedi di essere pagato (2), chiedi di essere pagato (N), chiedi che ti inviino le rese 1,2,N volte...
La distribuzione costa dalla metà al 55% del prezzo di copertina (compresa la quota per le librerie) e obbliga l'editore ad aumentare il prezzo del libro per non andare sotto di brutto...
No, non avevi per niente torto.

Argonauta Xeno ha detto...

Tu scrivi: "fa pensare a chi legge che il prezzo di copertina è una fregatura in partenza, un bidone che soltanto i gonzi sono disposti a prendersi."

C'è una cosa su cui riflettevo da un po' di tempo a questa parte: perché i libri hanno un prezzo? È chiaro che ogni prodotto che viene messo in vendita ce l'abbia, ma non mi viene in mente nessun altro oggetto che abbia il prezzo scritto sulla copertina, o sulla confezione. CD musicali e DVD hanno il prezzo su un adesivo incollato sulla confezione, neppure sull'oggetto. Naturalmente anche in quei mercati ci sono editori, distributori e venditori, e non penso che le dinamiche siano molto diversi.
Quindi, perché i libri sono diversi? Per ragioni storiche? Per trasparenza - chi sa quanto è il prezzo suggerito dall'editore per un CD? Quanto influisce questo nella contrattazione?
Per fare un esempio pratico, quando mi decido ad acquistare un CD di musica metal, a Milano, non vado mai in Feltrinelli ma in un negozietto "storico" e specializzato nel genere, risparmiando almeno 2-3 euro. Sempre. E senza sconti (ma ce ne sono anche scontati), è il prezzo appiccicato sulla confezione.
Non so, più ci penso più mi pare strano, o quantomeno atipico, che ci sia un prezzo sulla copertina.

Massimo Citi ha detto...

@SX: gli unici prodotti che abbiano un prezzo prefissato all'origine sono i giornali, i libri e i farmaci. E il regime IVA dei libri - e dei giornali - è molto particolare, nel senso che non è la vendita al pubblico a determinare il passaggio di IVA ma la "creazione" del libro o del giornale. Infatti è l'editore a pagare l'IVA. Credo che la ragione del fenomeno sia essenzialmente storica e debba essere legata all'origine del libro. Il libro, stampato dai librai-editori del XVI e XVII secolo, era un manufatto che poteva essere imitato senza problemi con grave danno per gli autori e gli editori. Il prezzo prefissato era una sorta di «garanzia» che lo stato riconosceva come parte del diritto di proprietà di autore ed editore. Quanto al motivo per il quale il prezzo è rimasto - e il motivo per il quale è probabilmente bene che rimanga - credo che meriti un post.

Romina Tamerici ha detto...

Il triste fatto non è forse che la cultura è fondata oggi anche sull'economia (nel senso che deve occuparsi anche di utili, indagini di mercato...), ma che l'economia sta diventando il nostro modo culturale di pensare.

Resta poi il fatto che come acquirente vorrei degli sconti e come piccolo libraio non potrei concedere gli stessi di una grande libreria. E la legge della domanda e dell'offerta purtroppo parla da sola. Le grandi librerie però non potranno mai fornire quello che sanno offrire quelle piccole, secondo me.

Massimo Citi ha detto...

@Romina: verissimo, le piccole librerie potenzialmente possono fare qualcosa per preservare la bibliodiversità. Ma se i lettori, pressati dalla crisi economica e armati di nuovi strumenti di lettura finiscono per disertarle che cosa si può fare? È ciò che è accaduto a me e che penso accade quotidiamente ad altri piccoli librai. E che, come insegna l'esperienza americana, finirà per colpire anche le grandi librerie. Siano in mezzo a uno tsunami che non ho idea di come e quando finirà.