1.11.12

L'orologio della torre fa tic-tac

Altro «racconto perduto», scritto una prima volta nel 1990 e poi dimenticato. Poi rivisto e riscritto nel 1998 per essere pubblicato - sotto pseudonimo - in Fata Morgana 2 / Bugie
Come molti debbo ammettere che i manichini mi creano una curiosa sensazione di disagio, nata da quando, poco più che seienne, accompagnavo mia madre nelle sue semieterne spedizioni in un «Grande Magazzino», con il nome doverosamente semifascista utilizzato come un neologismo invecchiato. 
Non a caso il «Centro commerciale» di questo racconto ha un nome come «GM», facilmente decodificabile.
Di racconti con i manichini in qualità di deuterogonista o di antagonisti ne ho letti più d'uno e ricordo persino, un po' vagamente, una puntata della serie TV de «Ai confini della realtà». 
I «miei» hanno la sola caratteristica distintiva di non apprezzare particolarmente il silenzio e il buio di un sotterraneo.  
E di non amare il management postmoderno.
 

Non ho mai capito perché in una ditta grande come la mia ci si debba preoccupare di tenere tutto, ma proprio tutto, ingombrando quasi tutto il secondo piano sotterraneo in questo modo.
Mi stringo nelle spalle e faccio tintinnare le chiavi aprendo la porta di metallo verniciata di grigio. Accendo le luci al neon. I tubi lampeggiano a lungo ticchettando e forse per la centesima volta sento lo strano brivido che quel posto ha il dono di darmi.
Sono lì, qualcuno in piedi, con lo stupido sorriso impresso sulla faccia una volta per sempre, ma per la maggior parte sdraiati per terra e accatastati gli uni sugli altri, nudi, calvi, in un intrico di braccia, gambe, crani lucidi, torsi senza capezzoli né ombelico, ventri lisci, simili a quelli delle bambole. E sugli scaffali più alti toraci senza braccia e senza gambe, teste, arti assortiti, frammenti dei vecchi manichini che è impossibile utilizzare ancora per le vetrine o i banchi.
I due magazzinieri che sono con me si guardano intorno con curiosità e fanno commenti a bassa voce.
- ...Un'orgia sintetica...
Il più anziano, Carrù, sorride controvoglia per la battuta del collega e mi guarda. Mi sembra un po' imbarazzato, come se non trovasse giusto stare qui, noi vivi, a spiare questi simulacri senza dignità, senza abiti o parrucche, ridotti a semplici oggetti, come bambole gettate via.
Da piccola non ho mai amato troppo le bambole, non mi piaceva immaginare
che potessero parlare, né ho mai giocato con loro a prendere il tè in salotto o a fare la spesa. Ogni tanto le guardavo, le spogliavo e le rivestivo, provavo a cambiare loro la pettinatura, con gli esiti che si possono immaginare, o scambiavo gli abiti per vedere che effetto facevano.
Qualcuno potrà pensare che fare la capodivisione abbigliamento alla GM era già una specie di vocazione, per me, ma allora non lo facevo per un motivo preciso, ero incuriosita e un po' spaventata per la durezza dei loro visi e dei loro corpi, per le loro piccole natiche non completamente divise, per i piedini rigidi, che non riuscivano a mantenerle in piedi, per quei sorrisi immobili, inscritti tra le fossette di plastica.
- Allora, signorina Gobetti, quali prendiamo? - La voce del più giovane, Longo, mi scuote e ricordo che sono qui per un lavoro.
- Ne servono una trentina, di quelli in condizioni migliori. Dovete portarli su: c'è una zona chiusa al pubblico, dove c'era abbigliamento ragazzi: metteteli lì.
 - Va bene. Cominciamo subito? -
Annuisco. Mentre cominciano a schierarli nell'ascensore montacarichi decido di dare un'altra occhiata, nella speranza di trovare una buona idea. E' il trentesimo anniversario dei magazzini GM e da Milano è arrivato un fascio di fax che, più o meno dicono la stessa cosa:
«Bisogna dare al pubblico la sensazione dei grandi cambiamenti avvenuti nella GM, movimentare il più possibile la nostra immagine, facendo ricorso anche ad allestimenti stupefacenti o non comuni, particolarmente in vetrina o comunque, in rapporto alla posizione ed alla situazione di ciascun magazzino, valendosi anche dello spazio antistante ad esso.»
Il mio direttore ha avuto l'idea di schierare una trentina di manichini, opportunamente abbigliati, davanti alle vetrine, a fingersi passanti, idea che naturalmente tutti i suoi tirapiedi hanno trovato eccellente.
Io non la trovo eccellente. Non so di preciso cos'abbia che non mi piace, la trovo puerile, un omaggio smaccato allo stupido esibizionismo televisivo di cui il nostro supremo padrone è stato l'inventore.
Ho provato a dire che a mettere i manichini davanti alle vetrine si sarebbe impedito alla gente di guardare l'esposizione, ma mi hanno guardata come un'idiota e non ho insistito.
In fondo al magazzino ci sono i manichini più vecchi. La loro plastica si è screpolata e sono opachi, ruvidi al tatto, ma grazie al cielo non sorridono. I loro occhi sono semplicemente disegnati e sono più rigidi, con articolazioni simili a quelle delle bambole della mia infanzia.
Avrei voluto usare loro per le vetrine, ma non ho avuto nemmeno il coraggio di proporlo. La politica aziendale non contempla il ricordo, la tenerezza che può fare rivedere quei vecchi manichini abbigliati con abiti d'epoca, vuole solo stupire, impressionare.
- Poveretti, per voi niente festa.- Lo dico a bassa voce, perché i magazzinieri non mi sentano.
Mi volto per andarmene, ma mi immobilizzo a metà del gesto, trattenendo il fiato. Con la coda dell'occhio ho avuto la sensazione di cogliere un movimento quasi impercettibile alle mie spalle, qualcosa come un lento dondolio di una mano subito interrotto.
Mi faccio forza, resisto alla tentazione di andarmene di corsa e mi giro completamente, squadrandoli come un gruppo di reclute.
Naturalmente nulla che si muova, né alcunché di strano. Rido, poi non so perché mi viene in mente da dirlo: - Beh, ragazzi, posso provarci, ma non vi prometto nulla. - Li squadro con attenzione ma ovviamente non succede niente. Mi dò silenziosamente dell'idiota e raggiungo i due magazzinieri.
- Ma ci ha almeno pensato su un momento, tanto per darti soddisfazione? - Elena è un'ingenua in alcune cose, le voglio più bene che a una sorella, ma alle volte il suo implacabile candore ha il dono di farmi perdere il lume degli occhi.
- Ma pensa! Ha scrollato la testa come un professore di quelli di una volta. «Signorina Gobetti, gli amarcord non vendono più, se lo ricordi bene.» Poi ha preso il telefono e non mi ha nemmeno salutato.
- Bello stronzo. Però l'idea dei manichini fuori dalle vetrine non è poi tanto brutta.
Alle volte non capisco se lo fa apposta per il gusto di discutere o è semplicemente il suo pessimo gusto a farla parlare, quello che la induce a mettere senza batter ciglio gonne viola con camicette cremisi.
- Hai ragione, non è brutta, fa vomitare.
Ride - È l'incazzatura a farti parlare, Anna. Cerca di essere equanime.
- D'accordo sarò equa. La gente passerà, riderà, qualcuno scuoterà la testa, i bambini verranno a guardare i manichini più da vicino, magari ne butteranno giù qualcuno. Commento generale: «Che cazzata!» e via, tutti a fare la spesa alle Delta dove sono di Stato e grazie al cielo hanno molta meno fantasia.
- Cazzi del tuo direttore, a te cosa importa?
Ci penso su un momento. Effettivamente a me cosa importa? Poi mi vengono in mente gli «Amarcord» come li ha chiamati il mio capo, da soli, al buio. Le mie reclute.
Devo essere stanca, magari un po' esaurita. Elena mi porge un bicchiere con ghiaccio ed un liquore ambrato.
- Dai, bevi. Serve per il raffreddore, per tagliare gli alberi nella foresta canadese e per tirarsi su il morale.
- Vorrei esserci, nella foresta canadese e non dover più tornare. Non dico mica di essere un genio, appena normale, ma ne ho le scatole strapiene di cacasotto, leccapiedi, pettegoli, paraculi, cascamorti e piccoli coccodrilli. - Guardo il bicchiere che Elena continua a offrirmi. Lo bevo d'un fiato e parlo con voce da uomo. - Colore chiaro, gusto pulito. Dev'essere il tuo solito whisky da cinquemila.
- Brava, Michele. - Mi applaude. - Cos'hai vinto?
- Sette ore o anche un po' meno di sonno. Dormo male, ultimamente. E domani pronta sull'attenti un'ora prima dell'apertura per l'ennesima pagliacciata. Tardi, tardissimo. Grazie per la cena squisita. - Rido. - Bella frase, eh? Proprio come un uomo.
Ho la sensazione poco piacevole di essere su un palco a recitare, e non so a cosa attribuirla. Non è certo per Elena, che conosco da quasi dieci anni; no è una sensazione che mi ha accompagnato tutto il giorno, da quando... Sì è stato da quando ho parlato con quei vecchi manichini.


Il mio bilocale con vista su balconi e tetto di garage mi sembra più deprimente del solito. L'adolescente che ha la sua cameretta proprio di fianco alla mia sta ascoltando troppo forte qualcosa che non mi piace. Busso alla parete per ricordargli che esisto anch'io. Mi spoglio, infilo il pigiama, mi lavo i denti e varie altre parti di me. Ci metto troppo tempo, ma non ho voglia di dormire. O meglio, non ho voglia di dormire da sola. Mi dispiace quasi che il giovanotto abbia ubbidito e si sia infilato le cuffie. Siedo sul bordo del letto con la luce accesa. Potrei accendere la TV o leggere un libro ma sono troppo su di giri per riuscirci. Ritorno in bagno a guardare nel cassetto dei medicinali: c'è giusto della valeriana, probabilmente scaduta. Bevo un bicchiere di latte e mi chiedo se non sarebbe una buona idea un bel bagno caldo. Esito a lungo con la mano sulla maniglia della porta del bagno. No, mi sento già fin troppo pulita, mi dà fastidio l'idea di lavarmi ancora.
Torno in camera e senza spegnere la luce mi sdraio sul letto, sopra le coperte. Fisso il soffitto cercando di non chiudere mai gli occhi. Lo so che è impossibile, ma provo ugualmente perché sono certa che in quel momento di oscurità qualcosa intorno a me si muoverà percettibilmente: scivolerà, fremerà, respirerà, si curverà. Da piccola, prima di dormire, sobbalzavo udendo lo scricchiolio dei mobili di legno che crepitavano nel fresco notturno. Nascondevo la testa sotto il cuscino e tenevo gli occhi ben chiusi per non vedere il loro balletto, il grande armadio scuro allargare con lentezza le ante come nere ali, per mostrare corridoi oscuri dove fatalmente sarei entrata per scomparire per sempre.
Sepolta sotto le coperte, attendendo che lo scricchiolio si ripetesse, immaginavo i miei genitori che la mattina dopo avrebbero trovato il letto vuoto e l'armadio ben chiuso, immaginavo il loro stupore e l'ansia, mentre il colpevole li osservava immobile, pensando i suoi irraggiungibili e maligni pensieri da innocuo oggetto quotidiano.
Decido di fare come allora, per quanto ridicola mi senta. Spengo la luce e mi infilo completamente sotto le coperte. Ecco, adesso sono al sicuro, sotto le coperte non mi potranno raggiungere, sono diventata invisibile. 

La mattina, di pessimo umore, organizzo l'esibizione. Li schieriamo davanti alle vetrine, famigliole, giovani con berretto, anziani col panciotto, donne con il carrettino della spesa.
Hanno addosso vestiti da pochi soldi, avanzi di liquidazioni e infatti, per i miei occhi esercitati, hanno l'apparenza di un'armata Brancaleone di sfigati, con le magliette che andavano di moda tre anni fa, le camicie scozzesi da taglialegna, le gonne sotto le ginocchia, le scarpe con i mezzi tacchi.
- Fanno pena, non trova, signorina?
Longo, autore di quell'osservazione, mi guarda strizzando l'occhio.
- Può dirlo. - Ribatto. - Cerchiamo di metterli meglio possibile, anche se penso che verrà comunque una bella schifezza.
Finiamo pochi minuti prima dell'apertura. I clienti più mattinieri ci guardano con blanda attenzione scambiandosi qualche osservazione a bassa voce. Non vedo entusiasti da nessuna parte.
Rientriamo ed apriamo il magazzino.
Dopo un po' arriva il direttore a rimirare la realizzazione della sua splendida idea seguito dalla segretaria, un paio di vice ed un fotografo che ha convocato apposta. Fa scattare qualche foto, sorride con un aria da politicante, mi ringrazia per «l'Allestimento» nemmeno fossi Ronconi e riparte per il suo ufficio, un cubo di cemento al termine di un lungo corridoio, soprannominato il Bunker.
Per un po' mentre lavoro tengo d'occhio le vetrine poi scendo nei magazzini a controllare gli ultimi invii.
- Piace di sopra? - Mi chiede la Petricioli, l'addetta ai controlli spedizioni.
Mi stringo nelle spalle. - Non so, di gente ce n'è come il solito, mi pare. - Sto attenta a come parlo: la Petricioli ha la fama di essere una pettegola micidiale e non vorrei che qualche mio commento arrivasse alle orecchie del direttore, magari condito con parole non mie. Tutto sommato sto bene lì e non ho nessun desiderio di finire in un GM della periferia, a litigare con la gente sul prezzo delle canottiere.
Finisco con i miei nuovi arrivi senza più dire una parola, nonostante i tentativi della Petricioli di farmi parlare e me ne vado. Esco dalla porta posteriore per raggiungere l'ascensore - montacarichi e attraverso il corridoio C, una specie di lungo budello dove le lampadine, chissà perché, non durano mai più di una settimana.
Allo sbocco, davanti alle porte chiuse dell'ascensore c'è della gente. Non distinguo bene di chi si tratta: c'è poca luce nei sotterranei, ma automaticamente chino la testa e comincio a canticchiare a bassa voce, tanto per non passare per una che origlia.
Dopo pochi passi capisco chi sono e mi immobilizzo, fulminata.
Sono loro: vestiti con abiti degli anni cinquanta, congelati a metà di movimenti disinvolti, fluidi, come comparse di un vecchio poliziesco.
Trattengo il fiato guardandoli, adesso non si muovono, ma mentre mi avvicinavo ho avuto la netta sensazione di un gruppo di persone vive: gesti minimi, cenni del capo, mezzi sorrisi. Stringo i pugni cercando di ragionare. Ho pensato che fossero un gruppo di persone, quindi ho attribuito loro quei movimenti, non viceversa. Mi costringo a fissarli per un po' per tranquillizzarmi. Sono perfetti. Esattamente come li avevo immaginati.
- Beh, ragazzi, siete belli ma non c'è stato niente da fare. - Dico loro. - Il capo non ne vuole sentir parlare. - Parlo lentamente, cercando di restare calma.
Una parte del mio cervello si è messa in moto e si sta chiedendo chi diavolo li ha vestiti e messi lì. L'unica persona che può averlo fatto sono io, solo che non me lo ricordo più. Ripenso a quello che ho fatto ieri, improvvisamente incerta, ma naturalmente non ricordo nulla del genere. Questo, è ovvio, mi spaventa quasi di più della loro presenza in quel luogo.
L'ascensore si apre di scatto lasciando uscire Carrù, il magazziniere più anziano. Si guarda intorno e mi vede.
- Salve, signorina Gobetti. Carini, proprio carini. - Commenta. - Devo portarli fuori?
Lo guardo in un modo che deve sembrargli strano. - Carrù, è stato lei a vestirli ed a metterli qui?
Scuote la testa. - Non era un'idea sua? - Indica i manichini incerto. - Quella di vestirli così, dico. Mi ha detto Longo...
- Longo! - Devo avere quasi urlato e il mio interlocutore mi guarda preoccupato. Assomiglia a mio padre, me ne accorgo per la prima volta, quando ero ammalata e veniva a spiarmi, seduto in fondo al letto ed io facevo finta di dormire, felice che fosse lì. Ho voglia di abbracciarlo ma non lo faccio.
- Mi scusi, Carrù, non mi sento bene. Vado su, in contabilità. Mi mandi Longo, appena può.
- Sicuro. Cosa ne faccio?
Li guardo. - Li riporti in magazzino. - Esito per un attimo, imbarazzata. - Non li spogli, per favore. Magari li userò per la prossima vetrina.


Longo mi raggiunge dopo un quarto d'ora, ma naturalmente non sa nulla di tutta la storia. Lo guardo fredda. - Posso ammettere che è stato un bello scherzo, ma vediamo di non esagerare, eh?
- Glielo giuro, signorina Gobetti, non sono stato io a metterli lì. E poi, come potevo? Sono stato con lei quasi tutta la mattina.
Sto per rispondergli che poteva averlo fatto la notte scorsa, ma mi trattengo: non ci tengo a dare l'idea di essere andata completamente fuori di testa.
- Grazie. - Dico. - Abbia pazienza. Mi faccia solo il piacere di non parlare con nessuno di questa storia... Devo...
- Non si preoccupi. Probabilmente è stato il direttore. Dopo dirà che l'idea è stata sua.
Sorrido e mi aggrappo a quell'ipotesi così assurda, tanto per poter andare avanti a lavorare.
Alla chiusura faccio il solito giro delle casse dell'abbigliamento. Si è incassato meno del solito ma non faccio commenti né domande alle cassiere che non sono ancora andate via.
Mi cambio ed esco. Telefono a Elena chiedendole di venire a casa mia e occupo il tempo preparando una cena per due.
Arriva abbastanza in fretta. Nonostante si sia fatta le trecce e assomigli troppo a Pippi Calzelunghe, quando entra l'abbraccio e lei mi guarda interdetta. Non sono un tipo espansivo e quel comportamento deve sembrarle strano.
- Sei pallida, Anna. Cos'hai?
Qualche problema sul lavoro. - Minimizzo. - Vieni, è pronto da mangiare.
Sorride. - Non sei più tu. Hai addirittura cucinato, peggio di così non puoi stare.
Mentre mangiamo le racconto la mia storia. E' evidente che non mi considera improvvisamente impazzita, rimane seria per tutto il tempo, facendomi solo qualche domanda, per lo più cose alle quali ho già pensato.
- Ma, forse non ha torto quel magazziniere, quel Longo. - Conclude. - Il tuo direttore mi sembra proprio il tipo da sfruttare le idee altrui per prendersene il merito, o sbaglio?
Annuisco. - Il fatto è che non capisco quando può averlo fatto... E poi gli abiti... Vedi Elena, ormai me ne intendo abbastanza di abbigliamento e credo di sapere tutto quello che c'è nei magazzini. Erano abiti nuovi, di un tipo che non si produce più da anni e che non potevano essere in magazzino.
Ride. - I sotterranei della GM sono peggio dei sotterranei dell'Opera di Parigi, lo sai meglio di me. Puoi proprio essere sicura che non ci fosse più quel tipo di abiti, abiti di trent'anni fa? Magari in qualche angolino, magari nel castello del fantasma dell'Opera, l'Eric della GM?
Sono costretta a ridere anche se non ne ho voglia. Preferisco pensare ad un eremita seppellito nei corridoi senza lampadine dei due piani interrati. E non ho voglia di restare sola a casa.
- Ho intenzione di ubriacarmi, stasera, se vuoi farmi compagnia io posso dormire sul divano.
Fa un gesto vago con la mano - Posso dormirci io, ne parleremo dopo. Comunque ti faccio compagnia. Beviamo. Ai tuoi amati manichini. 



Arrivando posso apprezzare la messa in scena del direttore molto meglio. È un insieme deprimente, non c'è nulla da fare, una rappresentazione sinistra che ha il sicuro effetto di far scappare la gente.
Entro scuotendo la testa e mi trovo di fronte a Pozzoli, un vice del capo.
- Signorina Gobetti è attesa in direzione. - Mi comunica, rigido come uno stoccafisso. Ha fatto il militare di carriera per dieci anni e niente riesce a togliergli quello stile da caricatura di uno Junker.
- Le starebbe bene un monocolo. - Dico ad alta voce, senza riflettere.
- Come? - Capisce a fatica dov'è la sua scrivania, il povero Pozzoli, e non è nemmeno abbastanza intelligente da essere un bastardo: non posso pretendere che capisca il mio humour un po' amletico.
Sorrido. - Le starebbe bene, un monocolo, dico. Come un gentiluomo di una volta. Le darebbe distinzione.
Lo pianto in asso, fatalmente confuso e salgo al terzo piano. Ad aspettarmi il lunghissimo corridoio, fatto apposta per disincentivare i timidi e gli incerti.
- Signorina Gobetti, è evidente che lei si ritiene una persona geniale e spiritosa. - Esordisce il direttore. I pochi capelli in cima al cranio sono scomposti, sicuro segno di tempesta.
- A cosa allude? - Chiedo.
Mi fissa. Ha uno sguardo acquoso, poco espressivo, uno sguardo che mi ha sempre ricordato quei pesci rossi che si vincono al luna park.
- Vuole darmi un'altra prova del suo umorismo? Non le avevo detto che la sua idea dei manichini anni '50 non mi piaceva?
Chino leggermente il capo. - Certo.
- Bene, allora per quale motivo ha voluto procedere ugualmente?
- Se si riferisce... - Comincio. Il GM è una fabbrica di chiacchiere, avrei dovuto ricordarlo.
- Sì mi riferisco proprio alle due vetrine centrali. Chi l'ha autorizzata a metterci quei vecchi manichini, quei cimeli con quegli abiti fuori commercio? La sua condotta...
- Quali manichini? Ma di cosa parla? - L'ho interrotto mentre parla, una cosa che non si era mai vista al GM, ma improvvisamente ho paura, come se fossi finita in un incubo senza più risvegli.
- DI COSA PARLA? - Urlo.
Mi guarda spaventato. - Signorina Gobetti, si controlli, la prego. Non...
- Non so nulla di quei manichini, lo giuro, non sono stata io. - L'ho interrotto un'altra volta, praticamente imperdonabile.
- Le credo. - Mi dice con cautela. - Comunque ho dato ordine di portarli via. Domani verranno a prenderli e li porteranno all'inceneritore, così eviteremo altre... scene di questo genere. - Si siede. - Credo che l'attività in questo GM, così centrale sia troppo stressante per lei, non è d'accordo?
Annuisco un po' inebetita. Ho già capito a dove porta tutto quel bel discorso e non posso farci nulla. Lo ascolto come un condannato ascolta il giudice.
- Sapevo che avremmo trovato un'intesa. - Mi guarda compiaciuto. Sicuramente pensa di avere risolto efficacemente una situazione difficile e altrettanto sicuramente si sente sprecato lì, uno come lui a risolvere piccoli problemi, mentre dovrebbe essere a Milano a fare il braccio destro del capo. Lo odio, me ne accorgo guardando le sue dita corte che giocano con un dado di legno fermacarte, le unghie ben curate, il segno più chiaro della fede che toglie per poter fare il cretino con le impiegate.
- Entro domani posso mandare via la sua richiesta di trasferimento, signorina Gobetti. Passi nel mio ufficio verso le dieci, discuteremo della sua destinazione. D'altro canto debbo ammettere che forse non la conosco a dovere, intimamente, per così dire. Non crede che dovremmo migliorare i nostri rapporti? In fondo è parte del mio lavoro... - Sorride. - Ma non precipitiamo gli eventi. Per oggi può andare, si consideri in permesso pagato.
Lo ringrazio meccanicamente. Mi accompagna alla porta tenendomi una mano sulla schiena, all'altezza del reggiseno, tanto per capire se lo porto o no e farci su i suoi pensieri. Rido con uno scatto nervoso. Mi guarda allarmato e toglie la mano. - A domani, signorina.
- A domani.
Passo il resto della giornata a girare per la città come un barbone. Mangio in una pizzeria, vado al cinema, non ricordo nemmeno a vedere cosa e sul tardi vado in discoteca. Rimorchio un giovanotto, un tipo gentile ma troppo chiacchierone. Lo invito a casa mia. Facciamo un po' di sesso sul divano e gli chiedo di fermarsi. Ha un'aria molto compresa, da scolaretto. Gli uomini sono sempre così seri, così fissati su se stessi. Lo guardo e rido. Inarca le sopracciglia e fa il sollecito. - Stai bene?
- Come no. - Dovrei averlo imparato, ormai. Ridere nel sacro recinto del sesso li inibisce. Esibisco l'espressione più lasciva che mi riesce e gli dico alcune parole, di quelle a effetto sicuro.
Si dà da fare per l'ora seguente e quando se ne va mi lascia un biglietto con nome, cognome indirizzo e numero di telefono. Lo butto nel bidone e mi addormento per la stanchezza, senza più pensare a nulla.


Quando arrivo alla GM i manichini fuori sono stati tolti. Mi avvicino perplessa. Nelle vicinanze conto quattro auto di polizia e carabinieri, più alcune altre macchine con quelle antenne lunghissime che puzzano di pula lontano un miglio.
Il magazzino è chiuso, alla porta c'è un cordone di agenti che controlla i documenti. Mi lasciano passare. Probabilmente una rapina, decido, e tiro dritto per la mia destinazione.
Ho visto raramente il GM chiuso di giorno. Percorro le corsie lentamente, ricordando che probabilmente è l'ultima volta che lavoro lì. Decido di passare dalle scale esterne per arrivare al terzo piano, per non dover salutare nessuno.
Quando arrivo al terzo piano mi fermo interdetta. Se ci sono problemi è ben difficile che il direttore sia nel suo ufficio. Mi siedo in cima alla scala, chiedendomi se è il caso di aspettarlo davanti alla porta o se andare a lavorare come tutti i giorni.
Sono ancora lì a riflettere quando sento qualcuno salire.
A venirmi incontro è il fatale Pozzoli, questa volta anche più serio e rigido del solito.
- Buongiorno. Cosa succede?
Sobbalza e si immobilizza a metà tra due gradini. - Buongiorno, signorina Gobetti. - Termina il passo per inerzia e mi guarda aggrottando le sopracciglia, perplesso più che indignato.
Visto che non sembra ricordare la domanda la ripeto. - Cos'è capitato? C'è la polizia fuori e i magazzini sono chiusi.
- Sono chiusi? E chi l'ha deciso? Appena manca il capo subito c'è qualcuno che... - Si fruga in tasca e ne estrae il cellulare. - Adesso chiamo Lupetti e...
- Forse è stata la polizia, a deciderlo. Ma cosa c'è stata, una rapina?
- In un certo senso. Il direttore è scomparso.
Indico l'orologio. - Dev'essere arrivato molto presto.
- Ovvio, come me del resto. Il grado significa innanzitutto responsabilità. Ecco ciò che in troppi dimenticano. - Ha ancora l'inutile telefonino in mano. Lo chiude con uno scatto secco e lo nasconde in tasca. - Ma pare che il capo stanotte si sia addirittura fermato qui. Non è rientrato a casa, iersera. Ha telefonato alla moglie per dirle che avrebbe fatto tardi. La guardia notturna ha visto la luce del suo ufficio accesa ma non lo ha disturbato. Dice che il direttore si fermava spesso fino a tardi. (... ma non da solo e non a lavorare, giurerei) Stamattina, al mio arrivo, la signora aveva già chiamato diverse volte, allarmata. La macchina era nel parcheggio, con il biglietto di autorizzazione con la data di ieri ancora infilato nel tergicristallo.
- Ha dormito qui?
- Se poi ha dormito.
Incongruamente mi viene in mente una vignetta apparsa su un giornale del tempo di guerra, con la finestra di Palazzo Venezia accesa a tarda notte. Non riesco a ricordare la battuta, però.
- Stamattina comunque il suo ufficio era... deserto.
Percepisco l'esitazione. - C'era qualcosa di strano?
- No, no, Nulla di allarmante. C'erano due vecchi manichini maschili in un angolo della stanza e quando l'ho salutato, iersera, giurerei che non c'erano. E non riesco a capire...
- ... Come mai se li fosse portati su dai sotterranei.
- Proprio così. Sono anche piuttosto pesanti. Probabilmente voleva studiare qualche nuovo allestimento.
Non ci crede come non ci credo io. Oltretutto manichini maschili, povero direttore. Sento l'impulso di ridere, ma sono certa che ciò che produrrei non sarebbe una risata.
- E' probabile, posso andare a vedere l'ufficio?
- Ma, è opportuno? Non so.
- L'ho visto anch'io, ieri e potrei ricordare qualche particolare.
- Ha ragione, venga, la precedo.
Riesco solo a dare un'occhiata dal corridoio. La polizia ha tirato una fettuccia rossa e bianca tra i battenti della porta. La sedia dietro la scrivania è rovesciata e buona parte delle suppellettili e dei documenti della scrivania sono scivolati a terra.
- Vede, ha tutta l'aria di un'aggressione. - Si sente in dovere di spiegarmi Pozzoli. - Probabilmente ci dobbiamo attendere una richiesta di riscatto.
Non mi prendo la briga di rispondergli. I due manichini se ne stanno nell'angolo accanto alla finestra. Uno dei due ha il viso parzialmente girato mentre l'altro guarda nella nostra direzione, la mano aperta distesa parallelamente al viso. Sorridono a labbra strette, gli occhi persi all'infinito. Indossano un completo blu stile Perry Mason e hanno il fazzoletto, bianco, ripiegato a V rovesciata nel taschino. Come due agenti federali o due angeli travestiti.
Di fronte alla scrivania il vecchio armadio del direttore, fatto portare dalla casa di campagna. Scuro e panciuto, le porte ben chiuse.


4 commenti:

Nick Parisi. ha detto...

Effettivamente ricorda molto un episodio di Twilight Zone. Il tuo racconto mi piace molto per la sua aria di quotidianità.
Ultima nota: il personaggio del direttore è veramente molto credibile.

Massimo Citi ha detto...

@Nick: mi fa davvero piacere il tuo parere, da esperto e da conoscitore della letteratura del soprannaturale. Detto per inciso, questo è stato il mio primo racconto scritto con un punto di vista «femminile». Mi ricordo che lo diedi da leggere a mia moglie e ad altre due donne, rimanendo in attesa di contumelie e maledizioni. Incredibilmente la passai liscia, ma tuttora non posso che interrogarmi se poi la mia signorina Gobetti può davvero essere verosimile... Per quanto riguarda, infine, Twilight Zone, ammetto che qualcosa nel racconto originale dev'essermi rimasto in testa, abbastanza da ricomparire qui.

S_3ves ha detto...

Ho adorato questo racconto da subito, perché intreccia due suggestioni della mia infanzia: percorrere di notte un grande magazzino come la Standa o la UPIM illuminato dalle luci fioche provenienti dalla strada, e spiare la vita segreta delle bambole. Pensieri coltivati da un sacco di gente, immagino, che per me si sono coagulati in una passione smodata per gli spazi ampi e in qualche modo pubblici (chiese, chiostri, biblioteche) in cui è d'obbligo muoversi in punta di piedi, ognuno solo in mezzo a tanta gente, e l'incapacità di possedere un simulacro (animali di pezza, bamboline, portachiavi di peluche), senza fornirgli un'identità, una storia, senza immaginarli come compagni e muti testimoni delle nostre vite. Loro “sanno” e vanno rispettati.
Altrimenti si vendicheranno, proprio come i tuoi vecchi, dimenticati manichini.

Massimo Citi ha detto...

@S_3ves: il bello di tutto ciò è che non sapevo nemmeno che questo racconto ti piacesse particolarmente... Vivere insieme, evidentemente, non rende sempre più vicini.
Hai ragione, la passione/timore per i simulacri del corpo umano è uno dei caposaldi del fantastico, dai replicanti di P.K.Dick alle marionette di E.T.A. Hoffman e si potrebbero fare centinaia di altri esempi. I miei manichini sono un po' meno socievoli, da un certo punto di vista. E comunque, come sai molto bene, è il lettore a decidere che cosa è davvero accaduto al direttore.