Visto il successo oceanico della precedente edizione - addirittura due persone due (non a me legate da rapporti di amicizia o di parentela) mi hanno ringraziato e fatto i loro complimenti - replico prima on line poi sulla rivista «on paper» LN-LibriNuovi il mio famoso «Tra il ricordo e l'illusione», ovvero letture fuori tempo massimo.
Premetto che questo numero rischierà di essere poco interessante - o più ineguale e un po' assurdo - per chiunque sia un lettore serio e benintenzionato che si preoccupi di separare con un minimo di criterio la saggistica dalla narrativa e nella narrativa quella di genere dalle narrazioni mainstream.
Io quel criterio l'ho perduto, ammesso di averlo mai posseduto. Salto senza molto criterio dalla plancia di un'astronave a un solido e cupo racconto di formazione a un variegato e curioso saggio sulla guerra medievale a una downtown zeppa di individui poco raccomandabili. Il criterio fondamentale è, mi dispiace ammetterlo, quello di divertirmi (rilassarmi, informarmi, svagarmi).
Inizio con tre Urania, ovvero tre romanzi di fantascienza. Due terrificanti e un così così.
I due «terrificanti» sono in realtà due parti di uno stesso romanzo pubblicati in due frammenti per esigenze di paginazione. Inciso: questa della paginazione è già una scemenza completa e assoluta, ammettiamolo. Si tratta di una scemenza figlia della scelta mondadoriana di non pubblicare sf in un formato da libreria, ovvero di recintare la fantascienza nel girone dei lettori sempliciotti e un po' baluba. Questo Rivelazione di Alastair Reynolds - diviso in Rivelazione /1 e Rivelazione / 2 - prometteva di essere, invece, un romanzo solido e potente, qualcosa in grado di dimostrare che i lettori di sf non sono S(empliciotti) & B(aluba).
Di Alastair Reynolds, detto per inciso, ricordavo un ottimo racconto apparso in una recente raccolta, quanto basta, insomma per richiamare l'attenzione e il desiderio di un lettore avido e curioso.
Bene.
Non sono riuscito a finire il romanzo.
Ero stanco di riprenderlo in mano, leggere «Sajaki si guardò intorno con sospetto» e chiedermi, ormai stancamente, «ecchiccazzo è questo?»
Quando ho attaccato il secondo erano passati più o meno tre mesi dalla fine del primo, questo è vero, ma il problema principale è che non sarei stato in grado di stendere un riassunto del primo volume. Agghiacciante. Personaggi (numerosissimi) sciaguramente incolori, luoghi anonimi e/o incomprensibili, stile anonimo e confuso, manovre e disegni oscuri ai personaggi quanto al lettore, gesti gratuiti o che tali appaiono, ideologie e convinzioni scarsamente intellegibili, agguati e vendette senza apparente motivo, odii secolari da prendere per buoni senza ulteriori spiegazioni. Via così per 300 e passa pagine del primo volume e per altrettante del secondo.
La traduzione?
No. Riccardo Valla è in genere un buon traduttore e, in ogni caso, non poteva aggiungere o togliere qualcosa per rendere il romanzo più leggibile.
Qualche taglio?
Possibile, non lo nego, ma difficile immaginare che cosa si sarebbe dovuto togliere per rendere così altamente illeggibile il libro.
Non rimane che il dubbio che si tratti di un romanzo vasto, corposo e mediocre. Qualcosa che in altri tempi si sarebbe definito «vanvogtiano» subito prima di farlo volare da una finestra.
La cosa curiosa e inspiegabile è che a qualcuno Van Vogt piaceva.
Mah...
Il terzo Urania è Cronomacchina accidentale di Joe Haldeman, autore (nel 1975) di Guerra Eterna. Nulla di trascendente, sia chiaro, ma almeno un libro piacevolmente movimentato, raccontato con un certo gusto umoristico e paradossale, ironico - non più di ironico, non siamo in presenza di Vonnegut - e talvolta comicamente assurdo nei confronti di alcune tendenze ultrareligiose della Stati Uniti attuali. Nulla di sorprendente o di inatteso, ma comunque piacevole a partire dall'invenzione ottimamente condotta di una macchina del tempo accidentale, capace di trasportare in avanti nel futuro secondo intervalli di tempo geometricamente crescenti. Una buon modo per trascorrere un paio d'ore.
Saltando completamente ad altro genere - dalla narrativa di genere alla saggistica storico-letteraria - arrivo a un titolo di Georges Minois, il libro maledetto, sottotitolo: la storia straordinaria del Trattato dei tre profeti impostori. Una brevissima premessa: Georges Minois è l'autore di una ricca e corposa Storia dell'ateismo, uscita in Italia da Editori Riuniti nel 2000 e, più di recente, di una Storia dell'avvenire per Dedalo editore.
Da questa breve presentazione si può intuire che il signor Minois non è esattamente un fervente cristiano e questo suo curioso e interessante libro ne è un'ottima prova. Si parte dalla storica accusa di Gregorio IX a Federico II - in piena guerra delle investiture - di essere l'imperatore tedesco «uno scorpione che sputa veleno dal pungiglione della sua coda». E continua affermando che: «Questo flagello di re ha affermato apertamente che il mondo intero è stato ingannato da tre impostori: Gesù Cristo, Mosè e Maometto».
Da questa pontificia affermazione, ovviamente respinta con sdegno dall'imperatore, al mito di un possibile «libro maledetto» il passo è breve e Minois dedica le trecento e passa pagine del libro a cercare prova della sua esistenza.
Ma non è tanto la presenza reale di tale libro - peraltro storicamente stampato nel 1719 in Olanda in lingua francese - a interessare Minois, ma la curiosa e a tratti feroce discussione tra dotti, filosofi e teologi con reciproche accuse e furiose smentite di essere possessori se non direttamente autori di un tale orrore, così evidentemente nemico delle tre grandi religioni monoteistiche. A essere via via accusati dal XIII al XIX secolo di essere gli autori del De tribus impostoribus furono - citando soltanto i maggiori - Pier delle Vigne, consigliere di Federico II, Niccolò Machiavelli, Giordano Bruno, Thomas Hobbes, Pietro Aretino e Baruch Spinoza. Una curiosa galleria di personaggi accomunati da un'evidente intolleranza verso l'ovvio e il banale. Il sospetto di Minois è che in realtà l'essere accusati di aver scritto il Trattato dei tre impostori fosse una sorta di patente di originalità e di anticonformismo in tempi dominati dal plumbeo grigiore ecclesiastico. Un libro istruttivo e sommessamente divertente, tanto più in un momento nel quale la Chiesa sembra ansiosa di rivestire i suoi panni storici di oppressione e intolleranza.
E possiamo rimanere ancora un po' nell'area storica e riflettere sull'ottimo volume di Paolo Grillo, Legnano 1176, una battaglia per la libertà, edito da Laterza.
La battaglia di Legnano, Alberto da Giussano, il lombardo in armi - come il loro storico avversario, Federico Barbarossa - sono ormai parte della retorica un po' bolsa dei leghisti, tanto che il lettore medio tende a rifiutare radicalmente tutto ciò che ha a che fare con la Lega Lombarda e l'Impero tedesco. Ma una lettura spassionata, intelligente ben documentata come quella di Grillo può aiutare a spazzare via un bel po' di miti e scemenze assortite sul tema.
Come il fatto che Alberto da Giussano, come a suo tempo affermò anche Franco Cardini, sia stato un personaggio inesistente. O che i comuni italiani furono tutti uniti contro «lo straniero» (Como, Pavia, Asti, Alba, Torino, Ivrea e un'altra dozzina di città erano in Germania?). O che i tedeschi erano superiori in numero ai lùmbard. O che nel Norditalia dell'epoca si considerasse Federico Barbarossa uno straniero... e così via. La battaglia di Legnano non fu uno scontro minore, su questo Grillo è decisamente netto, ma uno scontro notevole nel XII secolo per il numero di combattenti coinvolti. I tedeschi (sostenuti dai cavalieri comaschi) furono 3-4.000, tutti cavalieri pesantamente corazzati per una scelta di blitzkrieg in netto anticipo sui tempi, mentre i lombardi schierarono 10-12.000 uomini, in gran parte fanti organizzati per quartiere. La cavalleria tedesca non riuscì a sfondare i ranghi dei lombardi, i cavalli, infatti - più saggi degli uomini - si fermavano e scartavano per non andare a infilarsi dentro una parete di lance. Il merito della vittoria fu un gran parte dovuto proprio all'organizzazione dei lombardi. Ultimo aspetto curioso e salace del libro di Grillo è la scelta di ricostruire la vicenda di Guido da Biandrate, console e rettore della Lega Lombarda durante la guerra con il Barbarossa, un tranquillo civile che soltanto per un periodo limitato ricoprì una carica militare - guidando la Lega alla vittoria - e ritornando alla fine del servizio un normale funzionario urbano, tanto che il suo nome, diversamente da quello dell'immaginario - risorgimentale & legaiolo - Alberto da Giussano, non venne ricordato.
Un buon esempio di divulgazione storica che merita tutti i 18 euro del prezzo di listino.
Narrativa mainstream, ora, con un eccellente romanzo di Edgar Hilsenrath, Il nazista & il barbiere edito da Marcos y Marcos. Vicenda che si racconta con poche parole: Max Schultz figlio di Minna Schultz, cameriera di costumi un po' allegri e di padre ignoto («Chi fosse mio padre non saprei dirlo con esattezza, ma dev'essere sicuramente uno di questi cinque…») durante la giovinezza diventa ragazzo di bottega del barbiere di Itzing Finkelstein, barbiere ebreo. Con l'avvento del nazismo il giovane Max, pur essendo assai poco avvenente, diventa SS e durante la seconda guerra mondiale viene aggregato al personale di un campo di sterminio. Qui uccide qualche migliaio di ebrei tra i quali Itzig e tutta la sua famiglia.
Finita la guerra il giovane Max ha il grosso problema di evitare di essere acchiappato e processato come criminale e decide così di assumere la personalità dell'ebreo a suo tempo ucciso: Itzig Finkelstein. Tutto bene se non fosse che, gradualmente, Max assume tanto bene la sua falsa personalità giudea da giungere a partecipare all'esodo in Israele e qui diventare un eroe militare israeliano. In tarda età, ormai divenuto un esempio per tutti, confesserà la sua identità a un ex-giudice, esule tedesco. Inutilmente, nessuno vuole più saperne nulla di quella vecchia storia.
Rabbiosamente divertente, un libro «senza morale» che ci obbliga a simpatizzare per una simpatica e autoironica carogna, nazista per convenienza ma ebreo per convinzione, assassino per necessità ed eroe per caso. Un uomo senza principi e senza convinzioni, preoccupato, in primo luogo, di salvare la pelle e farsi i soldi. Un banale Kagemusha che finisce col contribuire all'edificazione di Israele...
L'autore, Edgar Hilsenrath, è un ebreo di Lipsia sfuggito all'olocausto. Combattente in Israele l'ha poi abbandonata per raggiungere prima la Francia e in seguito gli USA dove ha vissuto per diversi anni e poi rientrare a Berlino dove tuttora vive. Il suo libro è stato pubblicato in Germania grazie all'impegno di Heinrich Böll. Ha pubblicato dieci romanzi ma qui in Italia sono rintracciabili - tutti due pubblicati da Marcos y Marcos - soltanto Il Nazista & il barbiere e La fiaba dell'ultimo pensiero, racconto della strage di milioni di armeni, che gli è valso il riconoscimento del presidente e del popolo armeno.
Inutile chiedermi, ovviamente, se vale la pena di leggerlo.
Piccolo particolare: il libro mi è stato inviato in omaggio dall'editore, che ringrazio.
Altri libri ricevuti in omaggio dei quali ringrazio e dei quali prima o poi parlerò (tipica frase che spaventa gli editori, soprattutto per quel «poi»): Peter James, Doppia identità, Kowalsy ed., poliziesco ambientato in GB; Sue Miller, Il tempo di Daisy, Tropea ed., storia familiare della quale ho letto 68 pagine su 282 - finora non male e Laurence Cossé, La libreria del buon romanzo, e/o edizioni, storia in apparenza un po' stucchevole di due librai (gran novità) amanti dei buoni libri (pensa te fosse stato il contrario) ma che leggerò comunque, se non altro per scoprire chi sono i cattivoni che vogliono spaventarli... Un dubbio sull'autore un po' furbetto a voi non viene? No, sei tu che sono perfido e malfidente...
Qui in Italia per raccontare una storia simile si sarebbe dovuto ricorrere a storie gore & splatter con i responsabili delle librerie di catena nei panni di mostri lovecraftiani, ma in Francia evidentemente no. Buon per loro.
Altro libro arrivato in omaggio...
No, un momento.
Probabilmente ci sono librai che ricevono centinaia di libri all'anno, in omaggio alla posizione e all'importanza della loro libreria.
Io ne ricevo forse una ventina, malcontati.
E sono tanto sfigato da dirlo a tutti?
Sì, sono tanto eccetera.
Mi ha insegnato mamma che si deve ringraziare.
Quindi.
Altro libro arrivato in omaggio, dicevo, è Tre secondi di Anders Roslund & Börge Hellström, Einaudi Stile Libero. Un buon thriller, cospicuo e imponente a partire dalle dimensioni: 652 pagine. Piccola nota a margine. Sto per parlare di un thriller, categoria narrativa che frequento pochissimo, con n di numero letture tendente a zero. Quindi non aspettatevi una critica o una recensione competenti (come se lo fossero le altre che scrivo...).
Un buon libro, dicevo, che ho cominciato a leggere per semplice curiosità - e per mancanza di altri libri sottomano - ma che un po' per volta ho finito. A condurre la vicenda un curioso soggetto, ex-tossico diventato un infiltrato della polizia nella mafia polacca. Pagato fuori busta, conosciuto soltanto da pochi graduati della polizia, con una scheda personale che può essere manipolata a piacere per renderlo più pericoloso di quanto non sia in realtà. Paula, il nome in codice di Piet Hoffmann, dovrà diventare capo degli spacciatori in un carcere svedese di massima sicurezza per conto della mafia polacca, ma la cosa non andrà come previsto. Abbandonato da coloro che finora l'hanno aiutato, tradito dai suoi capi a Paula non resterà altra strada che condurre fino in fondo la sua personale vendetta.
Condotto con mano sicura - sia pure con alcune lungaggini superflue - un discreto romanzo che indaga sul confine tra legalità e illegalità nello scontro tra lo stato e una criminalità impersonale, così simile per organizzazione e modus operandi a una holding internazionale. Vero protagonista il commissario Ewert Grens della polizia di Stoccolma, uomo ombroso, intollerante, molto poco accomodante con i colleghi ma abbastanza testardo da svelare il sommerso e l'indicibile della lotta al crimine. Resta ancora da dire che Tre secondi non è un noir, né un poliziesco tradizionale con il/i poliziotto/i che coraggiosamente indagano contro pericolosi criminali ma il racconto di una vicenda profondamente e dolorosamente contemporanea, soprattutto nell'evidenziare la solitudine e la disperazione di chi recalcitra e si oppone alla distruzione personale di uomini divenuti semplici nomi da spostare o eliminare. E anche qui è davvero difficile non pensare a certe organizzazioni economiche internazionali...
Un altro giallo, questo scritto negli anni '50, da uno dei maestri del poliziesco tradizionale. Parlo di Rex Stout e del suo intramontabile Nero Wolfe nel giallo I quattro cantoni, Mondadori Oscar. Non è una novità, lo so benissimo, ma ho una vergognosa e inconfessabile passione per lo scontroso, musone e obeso cervell0ne newyorkese di origine montenegrina - figlio illegittimo, si mormora, di Sherlock Holmes - e per il suo «galoppino» nativo dell'Ohio, Archie Goodwin. Non si tratta di uno dei gialli migliori, temo, dalla conclusione affrettata & affannata, ma comunque gradevole per un appassionato come il sottoscritto.
E ritorno allo spazio, ora, in compagnia di un grande autore. Parlo di Jack Vance, grandioso creatore di civiltà, usi, miti, linguaggi, di avventure perfide e sconvenienti, di mistery soprendenti e di mitologie assurdamente verosimili. Ci sono pochi autori altrettanto malevoli, graffianti, infidi, maligni e ambigui come Vance. Le sue avventure hanno non poco di Mark Twain ma soprattutto molto di Ambrose Bierce, autore altrettanto deliziosamente malevolo. Ma non si tratta di quella mediocre cattiveria nella quale l'autore chiama a complice il lettore ma di una perfidia grandiosa nella quale la vittima riesce a riemergere e a prevalere grazie a un uso più attento e paziente di una sottile e intelligente malignità. Un eccellente esempio delle grandi qualità di questo autore nell'antologia edita dalla ormai defunta Nord di Viviani «I mondi di Alastor», composto da Trullion, Alastor 2262; Marune, Alastor 933; Wyst, Alastor 1716.
Note per due libri che mi coccolo in attesa di trovare il tempo per leggerli davvero e non per rubare loro qualche parola passando: Europe Central di William T. Vollmann e Un mattino oltre il tempo di Yang Yi. Il primo è un volumone di 1070 pagine pubblicato negli Stati Uniti nel 2005, il «racconto di storie personali […] dove l'autore cambia continuamente voce, punto di vista, protagonista muovendosi sempre all'interno degli stessi ambienti: i gulag, la guerra civile spagnola, i processi farsa di Stalin, il bagno di sangue di Stalingrado, i campi di sterminio nazisti […] L'umanità di di ciascuno dei protagonisti è la celebrazione di un'epoca e di un mondo nel quale essere uomini e comportarsi umanamente rappresentavano la più eroica delle imprese». Conoscendo Vollmann e il suo talento assoluto, un gran libro.
Il secondo è stato scritto in lingua giapponese - il romanzo ha vinto il Premio Akutagawa 2008 - ma l'autrice è una cinese, stabilitasi in Giappone all'età di 23 anni. L'unica autrice non di madrelingua nipponica ad aver vinto il premio vinto a suo tempo da Oe Kenzaburo, Murakami Ryu, Abe Kobo e Nakagami Kenji. Il semplice racconto di due adolescenti che avevano creduto possibile una nuova Cina e che saranno testimoni del massacro di piazza Tien An Men.
Ultima nota per un libro che non recensirò per alcuni buoni motivi. L'autore è un mio amico personale, per cominciare. E lo sanno tutti o quasi, dal momento che ha scritto la prefazione alla mia antologia. Perché qualcun altro ha già dichiarato la sua intenzione di recensirlo. Perchè comunque la mia recensione non potrebbe essere sufficientemente fredda e distaccata.
Il libro è Manca sempre una piccola cosa, di Alessandro Defilippi. Ne ho letto 196 pagine su 254, quanto basta per trarne una sensazione, un sapore, un'idea.
Lento, sornione, dolcemente amichevole, malinconico, disperatamente umano.
Di più da me non caverete...
Premetto che questo numero rischierà di essere poco interessante - o più ineguale e un po' assurdo - per chiunque sia un lettore serio e benintenzionato che si preoccupi di separare con un minimo di criterio la saggistica dalla narrativa e nella narrativa quella di genere dalle narrazioni mainstream.
Io quel criterio l'ho perduto, ammesso di averlo mai posseduto. Salto senza molto criterio dalla plancia di un'astronave a un solido e cupo racconto di formazione a un variegato e curioso saggio sulla guerra medievale a una downtown zeppa di individui poco raccomandabili. Il criterio fondamentale è, mi dispiace ammetterlo, quello di divertirmi (rilassarmi, informarmi, svagarmi).
Inizio con tre Urania, ovvero tre romanzi di fantascienza. Due terrificanti e un così così.
I due «terrificanti» sono in realtà due parti di uno stesso romanzo pubblicati in due frammenti per esigenze di paginazione. Inciso: questa della paginazione è già una scemenza completa e assoluta, ammettiamolo. Si tratta di una scemenza figlia della scelta mondadoriana di non pubblicare sf in un formato da libreria, ovvero di recintare la fantascienza nel girone dei lettori sempliciotti e un po' baluba. Questo Rivelazione di Alastair Reynolds - diviso in Rivelazione /1 e Rivelazione / 2 - prometteva di essere, invece, un romanzo solido e potente, qualcosa in grado di dimostrare che i lettori di sf non sono S(empliciotti) & B(aluba).
Di Alastair Reynolds, detto per inciso, ricordavo un ottimo racconto apparso in una recente raccolta, quanto basta, insomma per richiamare l'attenzione e il desiderio di un lettore avido e curioso.
Bene.
Non sono riuscito a finire il romanzo.
Ero stanco di riprenderlo in mano, leggere «Sajaki si guardò intorno con sospetto» e chiedermi, ormai stancamente, «ecchiccazzo è questo?»
Quando ho attaccato il secondo erano passati più o meno tre mesi dalla fine del primo, questo è vero, ma il problema principale è che non sarei stato in grado di stendere un riassunto del primo volume. Agghiacciante. Personaggi (numerosissimi) sciaguramente incolori, luoghi anonimi e/o incomprensibili, stile anonimo e confuso, manovre e disegni oscuri ai personaggi quanto al lettore, gesti gratuiti o che tali appaiono, ideologie e convinzioni scarsamente intellegibili, agguati e vendette senza apparente motivo, odii secolari da prendere per buoni senza ulteriori spiegazioni. Via così per 300 e passa pagine del primo volume e per altrettante del secondo.
La traduzione?
No. Riccardo Valla è in genere un buon traduttore e, in ogni caso, non poteva aggiungere o togliere qualcosa per rendere il romanzo più leggibile.
Qualche taglio?
Possibile, non lo nego, ma difficile immaginare che cosa si sarebbe dovuto togliere per rendere così altamente illeggibile il libro.
Non rimane che il dubbio che si tratti di un romanzo vasto, corposo e mediocre. Qualcosa che in altri tempi si sarebbe definito «vanvogtiano» subito prima di farlo volare da una finestra.
La cosa curiosa e inspiegabile è che a qualcuno Van Vogt piaceva.
Mah...
Il terzo Urania è Cronomacchina accidentale di Joe Haldeman, autore (nel 1975) di Guerra Eterna. Nulla di trascendente, sia chiaro, ma almeno un libro piacevolmente movimentato, raccontato con un certo gusto umoristico e paradossale, ironico - non più di ironico, non siamo in presenza di Vonnegut - e talvolta comicamente assurdo nei confronti di alcune tendenze ultrareligiose della Stati Uniti attuali. Nulla di sorprendente o di inatteso, ma comunque piacevole a partire dall'invenzione ottimamente condotta di una macchina del tempo accidentale, capace di trasportare in avanti nel futuro secondo intervalli di tempo geometricamente crescenti. Una buon modo per trascorrere un paio d'ore.
Saltando completamente ad altro genere - dalla narrativa di genere alla saggistica storico-letteraria - arrivo a un titolo di Georges Minois, il libro maledetto, sottotitolo: la storia straordinaria del Trattato dei tre profeti impostori. Una brevissima premessa: Georges Minois è l'autore di una ricca e corposa Storia dell'ateismo, uscita in Italia da Editori Riuniti nel 2000 e, più di recente, di una Storia dell'avvenire per Dedalo editore.
Da questa breve presentazione si può intuire che il signor Minois non è esattamente un fervente cristiano e questo suo curioso e interessante libro ne è un'ottima prova. Si parte dalla storica accusa di Gregorio IX a Federico II - in piena guerra delle investiture - di essere l'imperatore tedesco «uno scorpione che sputa veleno dal pungiglione della sua coda». E continua affermando che: «Questo flagello di re ha affermato apertamente che il mondo intero è stato ingannato da tre impostori: Gesù Cristo, Mosè e Maometto».
Da questa pontificia affermazione, ovviamente respinta con sdegno dall'imperatore, al mito di un possibile «libro maledetto» il passo è breve e Minois dedica le trecento e passa pagine del libro a cercare prova della sua esistenza.
Ma non è tanto la presenza reale di tale libro - peraltro storicamente stampato nel 1719 in Olanda in lingua francese - a interessare Minois, ma la curiosa e a tratti feroce discussione tra dotti, filosofi e teologi con reciproche accuse e furiose smentite di essere possessori se non direttamente autori di un tale orrore, così evidentemente nemico delle tre grandi religioni monoteistiche. A essere via via accusati dal XIII al XIX secolo di essere gli autori del De tribus impostoribus furono - citando soltanto i maggiori - Pier delle Vigne, consigliere di Federico II, Niccolò Machiavelli, Giordano Bruno, Thomas Hobbes, Pietro Aretino e Baruch Spinoza. Una curiosa galleria di personaggi accomunati da un'evidente intolleranza verso l'ovvio e il banale. Il sospetto di Minois è che in realtà l'essere accusati di aver scritto il Trattato dei tre impostori fosse una sorta di patente di originalità e di anticonformismo in tempi dominati dal plumbeo grigiore ecclesiastico. Un libro istruttivo e sommessamente divertente, tanto più in un momento nel quale la Chiesa sembra ansiosa di rivestire i suoi panni storici di oppressione e intolleranza.
E possiamo rimanere ancora un po' nell'area storica e riflettere sull'ottimo volume di Paolo Grillo, Legnano 1176, una battaglia per la libertà, edito da Laterza.
La battaglia di Legnano, Alberto da Giussano, il lombardo in armi - come il loro storico avversario, Federico Barbarossa - sono ormai parte della retorica un po' bolsa dei leghisti, tanto che il lettore medio tende a rifiutare radicalmente tutto ciò che ha a che fare con la Lega Lombarda e l'Impero tedesco. Ma una lettura spassionata, intelligente ben documentata come quella di Grillo può aiutare a spazzare via un bel po' di miti e scemenze assortite sul tema.
Come il fatto che Alberto da Giussano, come a suo tempo affermò anche Franco Cardini, sia stato un personaggio inesistente. O che i comuni italiani furono tutti uniti contro «lo straniero» (Como, Pavia, Asti, Alba, Torino, Ivrea e un'altra dozzina di città erano in Germania?). O che i tedeschi erano superiori in numero ai lùmbard. O che nel Norditalia dell'epoca si considerasse Federico Barbarossa uno straniero... e così via. La battaglia di Legnano non fu uno scontro minore, su questo Grillo è decisamente netto, ma uno scontro notevole nel XII secolo per il numero di combattenti coinvolti. I tedeschi (sostenuti dai cavalieri comaschi) furono 3-4.000, tutti cavalieri pesantamente corazzati per una scelta di blitzkrieg in netto anticipo sui tempi, mentre i lombardi schierarono 10-12.000 uomini, in gran parte fanti organizzati per quartiere. La cavalleria tedesca non riuscì a sfondare i ranghi dei lombardi, i cavalli, infatti - più saggi degli uomini - si fermavano e scartavano per non andare a infilarsi dentro una parete di lance. Il merito della vittoria fu un gran parte dovuto proprio all'organizzazione dei lombardi. Ultimo aspetto curioso e salace del libro di Grillo è la scelta di ricostruire la vicenda di Guido da Biandrate, console e rettore della Lega Lombarda durante la guerra con il Barbarossa, un tranquillo civile che soltanto per un periodo limitato ricoprì una carica militare - guidando la Lega alla vittoria - e ritornando alla fine del servizio un normale funzionario urbano, tanto che il suo nome, diversamente da quello dell'immaginario - risorgimentale & legaiolo - Alberto da Giussano, non venne ricordato.
Un buon esempio di divulgazione storica che merita tutti i 18 euro del prezzo di listino.
Narrativa mainstream, ora, con un eccellente romanzo di Edgar Hilsenrath, Il nazista & il barbiere edito da Marcos y Marcos. Vicenda che si racconta con poche parole: Max Schultz figlio di Minna Schultz, cameriera di costumi un po' allegri e di padre ignoto («Chi fosse mio padre non saprei dirlo con esattezza, ma dev'essere sicuramente uno di questi cinque…») durante la giovinezza diventa ragazzo di bottega del barbiere di Itzing Finkelstein, barbiere ebreo. Con l'avvento del nazismo il giovane Max, pur essendo assai poco avvenente, diventa SS e durante la seconda guerra mondiale viene aggregato al personale di un campo di sterminio. Qui uccide qualche migliaio di ebrei tra i quali Itzig e tutta la sua famiglia.
Finita la guerra il giovane Max ha il grosso problema di evitare di essere acchiappato e processato come criminale e decide così di assumere la personalità dell'ebreo a suo tempo ucciso: Itzig Finkelstein. Tutto bene se non fosse che, gradualmente, Max assume tanto bene la sua falsa personalità giudea da giungere a partecipare all'esodo in Israele e qui diventare un eroe militare israeliano. In tarda età, ormai divenuto un esempio per tutti, confesserà la sua identità a un ex-giudice, esule tedesco. Inutilmente, nessuno vuole più saperne nulla di quella vecchia storia.
Rabbiosamente divertente, un libro «senza morale» che ci obbliga a simpatizzare per una simpatica e autoironica carogna, nazista per convenienza ma ebreo per convinzione, assassino per necessità ed eroe per caso. Un uomo senza principi e senza convinzioni, preoccupato, in primo luogo, di salvare la pelle e farsi i soldi. Un banale Kagemusha che finisce col contribuire all'edificazione di Israele...
L'autore, Edgar Hilsenrath, è un ebreo di Lipsia sfuggito all'olocausto. Combattente in Israele l'ha poi abbandonata per raggiungere prima la Francia e in seguito gli USA dove ha vissuto per diversi anni e poi rientrare a Berlino dove tuttora vive. Il suo libro è stato pubblicato in Germania grazie all'impegno di Heinrich Böll. Ha pubblicato dieci romanzi ma qui in Italia sono rintracciabili - tutti due pubblicati da Marcos y Marcos - soltanto Il Nazista & il barbiere e La fiaba dell'ultimo pensiero, racconto della strage di milioni di armeni, che gli è valso il riconoscimento del presidente e del popolo armeno.
Inutile chiedermi, ovviamente, se vale la pena di leggerlo.
Piccolo particolare: il libro mi è stato inviato in omaggio dall'editore, che ringrazio.
Altri libri ricevuti in omaggio dei quali ringrazio e dei quali prima o poi parlerò (tipica frase che spaventa gli editori, soprattutto per quel «poi»): Peter James, Doppia identità, Kowalsy ed., poliziesco ambientato in GB; Sue Miller, Il tempo di Daisy, Tropea ed., storia familiare della quale ho letto 68 pagine su 282 - finora non male e Laurence Cossé, La libreria del buon romanzo, e/o edizioni, storia in apparenza un po' stucchevole di due librai (gran novità) amanti dei buoni libri (pensa te fosse stato il contrario) ma che leggerò comunque, se non altro per scoprire chi sono i cattivoni che vogliono spaventarli... Un dubbio sull'autore un po' furbetto a voi non viene? No, sei tu che sono perfido e malfidente...
Qui in Italia per raccontare una storia simile si sarebbe dovuto ricorrere a storie gore & splatter con i responsabili delle librerie di catena nei panni di mostri lovecraftiani, ma in Francia evidentemente no. Buon per loro.
Altro libro arrivato in omaggio...
No, un momento.
Probabilmente ci sono librai che ricevono centinaia di libri all'anno, in omaggio alla posizione e all'importanza della loro libreria.
Io ne ricevo forse una ventina, malcontati.
E sono tanto sfigato da dirlo a tutti?
Sì, sono tanto eccetera.
Mi ha insegnato mamma che si deve ringraziare.
Quindi.
Altro libro arrivato in omaggio, dicevo, è Tre secondi di Anders Roslund & Börge Hellström, Einaudi Stile Libero. Un buon thriller, cospicuo e imponente a partire dalle dimensioni: 652 pagine. Piccola nota a margine. Sto per parlare di un thriller, categoria narrativa che frequento pochissimo, con n di numero letture tendente a zero. Quindi non aspettatevi una critica o una recensione competenti (come se lo fossero le altre che scrivo...).
Un buon libro, dicevo, che ho cominciato a leggere per semplice curiosità - e per mancanza di altri libri sottomano - ma che un po' per volta ho finito. A condurre la vicenda un curioso soggetto, ex-tossico diventato un infiltrato della polizia nella mafia polacca. Pagato fuori busta, conosciuto soltanto da pochi graduati della polizia, con una scheda personale che può essere manipolata a piacere per renderlo più pericoloso di quanto non sia in realtà. Paula, il nome in codice di Piet Hoffmann, dovrà diventare capo degli spacciatori in un carcere svedese di massima sicurezza per conto della mafia polacca, ma la cosa non andrà come previsto. Abbandonato da coloro che finora l'hanno aiutato, tradito dai suoi capi a Paula non resterà altra strada che condurre fino in fondo la sua personale vendetta.
Condotto con mano sicura - sia pure con alcune lungaggini superflue - un discreto romanzo che indaga sul confine tra legalità e illegalità nello scontro tra lo stato e una criminalità impersonale, così simile per organizzazione e modus operandi a una holding internazionale. Vero protagonista il commissario Ewert Grens della polizia di Stoccolma, uomo ombroso, intollerante, molto poco accomodante con i colleghi ma abbastanza testardo da svelare il sommerso e l'indicibile della lotta al crimine. Resta ancora da dire che Tre secondi non è un noir, né un poliziesco tradizionale con il/i poliziotto/i che coraggiosamente indagano contro pericolosi criminali ma il racconto di una vicenda profondamente e dolorosamente contemporanea, soprattutto nell'evidenziare la solitudine e la disperazione di chi recalcitra e si oppone alla distruzione personale di uomini divenuti semplici nomi da spostare o eliminare. E anche qui è davvero difficile non pensare a certe organizzazioni economiche internazionali...
Un altro giallo, questo scritto negli anni '50, da uno dei maestri del poliziesco tradizionale. Parlo di Rex Stout e del suo intramontabile Nero Wolfe nel giallo I quattro cantoni, Mondadori Oscar. Non è una novità, lo so benissimo, ma ho una vergognosa e inconfessabile passione per lo scontroso, musone e obeso cervell0ne newyorkese di origine montenegrina - figlio illegittimo, si mormora, di Sherlock Holmes - e per il suo «galoppino» nativo dell'Ohio, Archie Goodwin. Non si tratta di uno dei gialli migliori, temo, dalla conclusione affrettata & affannata, ma comunque gradevole per un appassionato come il sottoscritto.
E ritorno allo spazio, ora, in compagnia di un grande autore. Parlo di Jack Vance, grandioso creatore di civiltà, usi, miti, linguaggi, di avventure perfide e sconvenienti, di mistery soprendenti e di mitologie assurdamente verosimili. Ci sono pochi autori altrettanto malevoli, graffianti, infidi, maligni e ambigui come Vance. Le sue avventure hanno non poco di Mark Twain ma soprattutto molto di Ambrose Bierce, autore altrettanto deliziosamente malevolo. Ma non si tratta di quella mediocre cattiveria nella quale l'autore chiama a complice il lettore ma di una perfidia grandiosa nella quale la vittima riesce a riemergere e a prevalere grazie a un uso più attento e paziente di una sottile e intelligente malignità. Un eccellente esempio delle grandi qualità di questo autore nell'antologia edita dalla ormai defunta Nord di Viviani «I mondi di Alastor», composto da Trullion, Alastor 2262; Marune, Alastor 933; Wyst, Alastor 1716.
Note per due libri che mi coccolo in attesa di trovare il tempo per leggerli davvero e non per rubare loro qualche parola passando: Europe Central di William T. Vollmann e Un mattino oltre il tempo di Yang Yi. Il primo è un volumone di 1070 pagine pubblicato negli Stati Uniti nel 2005, il «racconto di storie personali […] dove l'autore cambia continuamente voce, punto di vista, protagonista muovendosi sempre all'interno degli stessi ambienti: i gulag, la guerra civile spagnola, i processi farsa di Stalin, il bagno di sangue di Stalingrado, i campi di sterminio nazisti […] L'umanità di di ciascuno dei protagonisti è la celebrazione di un'epoca e di un mondo nel quale essere uomini e comportarsi umanamente rappresentavano la più eroica delle imprese». Conoscendo Vollmann e il suo talento assoluto, un gran libro.
Il secondo è stato scritto in lingua giapponese - il romanzo ha vinto il Premio Akutagawa 2008 - ma l'autrice è una cinese, stabilitasi in Giappone all'età di 23 anni. L'unica autrice non di madrelingua nipponica ad aver vinto il premio vinto a suo tempo da Oe Kenzaburo, Murakami Ryu, Abe Kobo e Nakagami Kenji. Il semplice racconto di due adolescenti che avevano creduto possibile una nuova Cina e che saranno testimoni del massacro di piazza Tien An Men.
Ultima nota per un libro che non recensirò per alcuni buoni motivi. L'autore è un mio amico personale, per cominciare. E lo sanno tutti o quasi, dal momento che ha scritto la prefazione alla mia antologia. Perché qualcun altro ha già dichiarato la sua intenzione di recensirlo. Perchè comunque la mia recensione non potrebbe essere sufficientemente fredda e distaccata.
Il libro è Manca sempre una piccola cosa, di Alessandro Defilippi. Ne ho letto 196 pagine su 254, quanto basta per trarne una sensazione, un sapore, un'idea.
Lento, sornione, dolcemente amichevole, malinconico, disperatamente umano.
Di più da me non caverete...
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