13.4.18

Quando una storia finisce...



Lo spunto per questo post mi è venuto da Dario Tonani che ha fatto pubblicamente questa domanda: 

CHE COSA PROVATE a venti pagine dalla fine di un vostro romanzo? Ve lo chiedo, perché per ognuno di noi è diverso. Per me è come aprire gli occhi, svegliarsi, accorgersi che è mattina. Voler infilare di nuovo la testa sotto le coperte. Riavvolgere il nastro: trenta pagine, cinquanta, cento... Ma anche la gioia del profumo di caffè, la spremuta d'arancia, la colazione, la giornata di sole. Nel weekend, se tutto fila come deve, mi appresto ad affrontare proprio le ultime venti pagine del mio nuovo romanzo. Dubito che le finirò tutte, tra chiusura del capitolo finale, epilogo e prologo (che scrivo sempre per ultimo). Nel caso, il profumo di caffè durerà qualche giorno in più. E per voi, com'è?

Domanda in apparenza facile. È sufficiente fare qualche osservazione sulla vicenda perduta (vero), sui personaggi perduti (vero, anche se solo in parte), sulla sensazione di felice stanchezza che coglie (vero)… ma anche sui mille e mille dubbi su ciò che si è scritto (avrò reso bene quel personaggio, avrò reso bene quella svolta della vicenda, ma sarà credibile il Feroce Millanta o è soltanto una sagoma di cartone… e la società immaginata sarà possibile o è solo un teatro dei burattini…?) Mille e mille insufficienze, carenze, mancanze che ti perseguitano mentre paghi un caffé, acquisti una rivista o vai in banca.  
«Ma quanti lettori pensi di avere, sciocco!»
No, il numero di lettori è del tutto secondario,  è sufficiente sapere che non li conosci tutti. Al limite è sufficiente un solo lettore che non ti sia congiunto in qualche modo a creare panico, insicurezza, dubbi. Senza contare il tuo personale SuperIo, quello che è sempre pronto a ridere dei tuoi sforzi, a trovarli pietosi, vani, ridicoli. 


Sicché essere verso il finale di una storia può renderti insicuro quanto soddisfatto, malinconicamente felice quanto sottilmente disperato, dal momento che man mano che si avvicina il momento della pubblicazione un testo sarà perduto per sempre e di questo tuo figlio, comunque sia nato, dovrai prenderti cura e difenderlo e il massimo che potrai fare sarà provare a immaginare le critiche, dando per scontato che comunque quelle che ti verranno in mente sono solo una frazione minima di quelle che ti perverranno. 
Ovviamente esiste la possibilità, essendo al soldo – detto in senso realista (o fattuale) – di un editore di grandi nome o di grandi tirature, di valersi del suo patronage per sorridere alle critiche, sogghignare davanti alle stroncature e in qualche occasione giungere ad adirarsi davanti a qualche osservazione particolarmente ottusa. Ma si tratta semplicemente di una mascheratura, sia pure ingegnosa, qualsiasi scrittore serio – quindi non bariccoforme né bariccoinvaso – sarà disposto ad ammettere, in solitudine e con qualche bicchierino in corpo, che il suo ultimo libro non lo soddisfa pienamente. Il bello è che proprio questo il senso del suo lavorare, il lavorare su un libro pensando intanto a quello che seguirà e a tutti quelli che non si sono nemmeno iniziati ma che hanno comunque lasciato un segno nel proprio immaginario, a quelli iniziati e mai finiti, ai generi sfiorati, alle ambientazioni promettenti ma non riprese… Le ultime pagine di un libro che si sta scrivendo sono tutto ciò, un grumo di sogni e incubi interrotti a metà che almeno in un caso hanno trovato un proprio finale. Ed è normale ci sia una certa soddisfazione – che sarebbe più giusto definire sollievo – nel giungere a scrivere FINE  al termine delle temporanee fatiche.   


Quella dello scrittore in crisi e tormentato – magari anche alcolista – è divenuto un luogo comune ed è onestamente difficile non ridere davanti a individui affannati che ripetono con grottesche variazioni frasi poco significative di per sé, si tormentano fino a fuggire nella loro stanza per scriverne. Ma entro certi limiti non si tratta completamente di un'invenzione: a chi tra noi scriventi non è accaduto di frugarsi addosso cercando una penna e un pezzetto di carta per prendere nota di un'idea improvvisamente balenata in mente? O chiedere al vostro accompagnatore / accompagnatrice se per caso hanno qualcosa per scrivere, qualunque siano le circostanze in cui questo avviene, durante una salita alpinistica o mentre si deve salire su un treno. 
In ogni caso resto convinto che esista il finale di un racconto o di un romanzo unicamente come sosta in un viaggio che avrà termine soltanto con l'exitus. Si potrà godere del caffé e della spremuta d'arancia, ma pagine non scritte ci seguiranno e ci perseguiteranno: scrivere vuol dire anche questo. 


2 commenti:

Nick Parisi. ha detto...

Non sono uno scrittore quindi non posso essere molto utile,ti dico invece che quando concludo un dossier particolarmente lungo, la prima sensazione che provo è quella di liberazione, di un impegno (preso magari solo con me stesso) portato a termine.
E tanto mi basta.

Massimo Citi ha detto...

@Nick: ciao, bello. Hai perfettamente ragione, è un'emozione che conosco, soprattutto quando mi capita di scrivere qualcosa per LN-LibriNuovi. E gli impresi presi con se stessi sono di gran lunga i peggiori, dal momento che un eventuale committente per trovarti deve fare un minimo di fatica, mentre il rapporto con se stessi va avanti x 24h/d.