14.3.08

A che cosa serve un editore? Capitolo 6

Post tosto, anzi tostissimo.
Si tratta di affrontare due-temi-due.
L'utilità dei premi letterari per opere inedite. L'utilità non in termini assoluti - esistono premi letterari che danno in omaggio prodotti locali come prosciutti, polenta, castagnacci, torte, salsicce, formaggi tipici, vino ecc. e che quindi sono sicuramente utili e preziosi - ma l'utilità ai fini di una possibile pubblicazione con qualche editore che vi dia del denaro (e non ve lo tolga) per ciò che scrivete.
In secondo luogo affrontare il tema dei concorsi per racconti.
Peggio che andar di notte, considerando che scrivo racconti, pubblico racconti, ho una moglie che scrive racconti, mia figlia ha preso un premio (75 euro) per un racconto pubblicato on line, ho un sacco di amici che scrivono racconti e che hanno vinto qualcosa pubblicando racconti. Che è come dire che praticamente TUTTI LORO o quasi possono legittimamente dire qualcosa in proposito e magari schiantarsi dalle risate leggendo le quattro scemenze che scriverò.
Ma contro il ridicolo sono assicurato, quindi proseguo.
Punto 1.
Ne abbiamo parlato diffusamente nel post precedente e nei commenti e repliche al post.
E abbiamo fatto una collezione di affermazioni necessariamente parziali. Nel senso che sicuramente vincere un premio - un premio che non preveda la pubblicazione del testo, naturalmente - migliora l'autostima, permette di avere un riscontro e persino di tirare su qualche soldino ma il non averlo vinto (qui sta il nocciolo del problema) non è necessariamente la controprova di nulla, se non del fatto che a qualcuno il vostro testo non è piaciuto. Può avere avuto ragione, certo, nel senso che avete idee banali, uno stile sciatto, un incipit barboso, un finale sconclusionato, inserite scene che non c'entrano un tubo, avete tendenza alle digressioni pseudofilosofiche, non avete ritmo o - peggio - avete troppo ritmo, tanto che il lettore rischia il nistagmo ecc.
Ma anche, forse, che siete un po' troppo originali, politicamente scorretti, sessualmente devianti, coltivate l'assurdo o l'iperreale.
O, semplicemente, che il lettore non sa bene dove appendere il vostro romanzo.
E ai lettori per i premi viene l'orticaria se non sanno dove appendere un libro.
Se non riescono a stabilire chi è il vostro padre nobile.
Le ascendenze.
Gli influssi.
I riferimenti.
I giurati dei premi sono quasi sempre forti lettori che per giudicare un libro debbono prima di tutto situarlo, operazione legittima e utile ma con un certo sapore scolastico. E che rischia di crocifiggere il malcapitato scrivente al suo vero o presunto riferimento.
Per essere abbastanza originali da sorprendere e circuire un giurato bisogna avere letto un bel po', tanto da non imitare (inconsapevolmente) l'autore prediletto. E bisogna avere sempre con sé un metaforica valigetta dalla quale estrarre le suggestioni e sistemarle.
Un momento alla Conrad, un attimo di Carver, un passaggio buzzatiano, una suggestione borgesiana, un tocco alla Cortazar, un'atmosfera ballardiana, un ricordo à la Proust.
Non una riscrittura di Marquez o di Raymond Queneau («ti ho beccato!», mormora il giurato), ma una combinazione personalissima di «ombre letterarie» guidate dalla vostra mano.
Il che è facile a dirsi, ovviamente...
L'importante, comunque, è che tutte queste ricchezza di riferimenti salti all'occhio dopo aver scritto e non prima. Possibilmente almeno un paio di mesi dopo aver finito di scrivere, quando il manoscritto è «freddo» e leggete soltanto le parole effettivamente scritte e non anche quelle soltanto immaginate.
Non è una mia soluzione, l'ha enunciata formalmente Calvino e chiunque scriva sa che è sacrosanta e andrebbe scritta nella pietra.
In tutti i casi fare il genio incompreso è peggio che inutile.
È chiaro che un genio viene riconosciuto persino dai lettori del Calvino ma un certo numero di buone idee affogate in un romanzo poco strutturato, grezzo e cigolante non permettono di vincere molto.
Non è il caso di buttarsi giù, comunque.
Il problema resta che è difficile capire perché il vostro romanzo non sia stato accettato.
E l'unica soluzione che mi venga in mente - a parte richiedere le schede di lettura, se il concorso le prevede - è quella di darlo da leggere a quante più persone diverse possibile.
Come si fa?
Beh, il romanzo che sto pubblicando a puntate in questo blog «Ultimo spettacolo» è stato scartato e vilipeso da - se mi ricordo bene - almeno tre premi letterari. Uno per «giovani narratori» (l'ho scritto nel 1995) e gli altri due per narrativa di genere.
È un romanzo pieno di difetti.
Possiamo far notte a enumerarli tutti e credo che, comunque, voi sareste addormentati da un pezzo mentre io ne sto ancora trovando qualcuno.
Resta il fatto che almeno qualcuno dei difetti scoperti da voi a me non sarebbe mai venuto in mente.
Bingo!
Certo, perché la gente venga a leggere il vostro libro dovete sbattervi non poco. Tenere in piedi e aggiornare un sito o un blog (che vuol dire lavoro), cercare di dire cose anche non mostruosamente intelligenti ma perlomeno plausibili (altro lavoro), rispondere gentilmente a chi vi scrive (lavoro, lavoro, lavoro...) e così via.
Il tutto senza nessuna garanzia che la prossima volta prenderete un premio...
Ma in fondo questo non è poi così importante, se nel frattempo avrete imparato almeno un pochino a scrivere e avrete trovato dei lettori... Che è poi ciò che dovrebbe spinge un autore degno di questo nome a scrivere.
Il mio parere, in definitiva, è che l'utilità dei premi ai fini della pubblicazione sia quantomeno dubbia.
Opinabile.
Perfino sospetta.
Sarà forse - o sicuramente - perché io di premi ne ho vinti ben pochi e anche quei pochi attribuiti per motivi curiosamente diversi da quelli da me immaginati.
Un'altra simmetria rispettata, a pensarci bene.
Oltre al dubbio che, in realtà, i premi non siano un punto di partenza per la pubblicazione ma un punto di arrivo.
Se sapete già scrivere avete buone possibilità di vincere un premio.
Ma che vi frega, a quel punto, di vincere un premio?
Resta il Punto 2.
Ma l'ho già fatta troppo lunga.
Ne parleremo presto.

5 commenti:

Davide Mana ha detto...

Non ho mai vinto un premio per una mia storia.
Né, d'altraparte, ho mai spedito un mio racconto ad un concorso - il che forse spiega il punto precedente.

Un volume al quale ho partecipato - Delta Green:Countdown - ha vinto un premio Origins, negli Stati Uniti, ma credo che non conti perché, primo, eravano trenta redattori, e secondo, ci hanno prima pubblicati e poi premiati.

Il fatto è che io dei premi diffido.
E nulla di ciò che ho letto nelle ultime settimane mi ha portato a rivalutare la mia diffidenza, con la sola eccezione di un commento di Consolata Lanza ad un post di Massimo Soumaré.
Il concorso come addestramento - molto darwiniano, in verità - a trovar fiducia in se stessi, a superare la paura del palcoscenico.
Ecco, si.
Forse in quel senso, partecipare a un concorso può essere una buona idea - per vaccinarsi contro la paura.

Ma continua a non fare per me.
Capisco i premi alla carriera - ma sono troppo giovane.
capisco i premi agli esordienti - ma ormai non lo sono più.

Sarebbe così bello poter trovare fiducia in noi stessi senza dover sottostare al giudizio di estranei ostili...

Massimo Citi ha detto...

Difficile trovare la fiducia in se stessi. Esiste gente nel mondo narrativo che ha la fiducia in stesso di default ovvero scritta nel DNA. A me non è capitato. D'altro canto solo chi è convinto convince. Non puoi «fare» Berlusconi, devi essere Berlusconi.
Personalmente mi trovo in una fase un po' particolare. Sono abbastanza d'accordo con Consolata sull'utilità di fare concorsi quando si inizia -anche perché può essere un modo per capire che non è il caso di insistere nella scrittura - ma se sono già anni che scrivi credo possa essere utile partecipare soltanto a concorsi che prevedono la pubblicazione, né più né meno. Tenendo conto che la pubblicazione non attesta le tue qualità ma soltanto la tua vendibilità. Se poi sei anche bravo, originale e in certi momenti geniale, tanto di guadagnato per tutti.
L'ostilità, infine.
Non ne ho mai colta e di concorsi ne ho fatti parecchi. Un po' di spleen, questo sì. Un po' del sussiego dell'arrivato o pseudotale che giudica il pisquanello. Rovesciando le parti, tuttavia, mi chiedo come siano state interpretate,comprese e metabolizzate certe schede inviate ai partecipanti al concorso Fata Morgana. Nonostante la buona volontà il passaggio dall'altra parte, tra i guardiani invece che tra i prigionieri è fin troppo facile.
E i guardiani tendono a essere stufi dei trucchetti dei prigionieri, li trovano tutti uguali: senza fantasia, senza autocontrollo, senza idee.
Facile diventare estranei.

Anonimo ha detto...

Al mondo ci sono tanti tipi di persone, e quelli che non hanno bisogno di conferme (come Berlusconi nell'esempio di Massimo) non hanno bisogno nemmeno del premio letterario, si promuovono da soli e in qualche modo saranno comunque pubblicati o no, ma la cosa non li preoccuperà.

Ma se uno non sa, se la mamma e lo zio affermano che sei un genio, ma tu non ne sei proprio convinto, che cosa fai? Allora capisco Massimo ed il blog e far leggere le tue cose a più gente possibile...
Questo mio intervento è assolutamente inutile, per me la domanda resta: come fare a sapere se quello che si scrive ha un qualche valore, anche remoto, anche migliorabile? Come fare a smettere di chiedersi "ma a chi mai potrebbe interessare?". Per gente come me, basta un solo "estraneo ostile" per far passare la voglia di scrivere per anni... e forse è la cosa giusta... ma come faremmo senza Davide Mana, senza Massimo Citi? Come faremmo se gli estranei ostili avessero la possibilità di eliminare tutto quello che è originale e "diverso"?

Massimo Citi ha detto...

Domanda complessa, fatta di parecchie altre sottodomande.
Potrebbe bastare una risposta, forse: «se per te è davvero importante» puoi tollerare anche gli estranei ostili.
Ma è una risposta apodittica che in definitiva non spiega nulla. A trombonare sulla vocazione si fa come quelli che «rispondono al richiamo dell'Arte senza essere stati interpellati» (Leo Longanesi).
Cercherò di essere positivo. Ogni mese,se non sbaglio, scrivi sulla rivista dei Rudi Mathematici. Scrivi per un migliaio di abbonati che sono ben contenti di leggerti. Un numero astronomico. Scrivi di matematica, certo, ma se sei pallosa non ti si fila nessuno, matematica o no. Immagino tu sia abbastanza sicura di te, in questo campo. Come ci sei arrivata? Hai fatto leggere le tue prime cose a qualcuno, suppongo. A degli amici con la stessa passione. Non sarà andato proprio liscio tutto e subito, subodoro. Quindi, direi che hai la formula sottomano. Scrivi e manda. Agli amici, ai concorsi, a chi vuoi. Siamo tutti genii finché teniamo le nostre cose in una cartella del PC (del MAC, per i più fighi). Ma se non le tiri fuori non saprai mai se è vero. Se tutti ti schifano può essere che non era proprio la tua strada ma se qualcuno apprezza può valere la pena di insistere.

Anonimo ha detto...

Mmm. Probabilmente questo è proprio off-topic.
RM è un caso meraviglioso di project management, la maggior parte del lavoro è svolta dal Capo e da Doc, io metto tutto insieme e a volte scrivo qualche pezzettino qua e là per aiutare un po'... credo che la mia funzione principale sia quella di far lavorare gli altri due :-)

Grazie per il consiglio comunque, molto prezioso.