5.2.13

M.A.d.u.L.P. 13. Il circo editoriale

Il mio penultimo M.A.d.u.L.p., visibilmente datato - viene persino citato l'anno in cui lo stesi - ma che constato essere rimasto perfettamente attuale, tanto che non ho dovuto cambiare nemmeno una virgola. Qui ci sono quasi tutti i motivi per i quali ho chiuso la libreria e mi sono autopensionato - senza pensione - in netto anticipo.


Esiste il burn-out del libraio?
Quando si cominciano a sentire segni di stanchezza? I primi sintomi di esaurimento?
Me lo sto chiedendo con frequenza allarmante in questa demente estate del 2006, constatando con orrore che la semplice idea del rientro autunnale con il conseguente arrivo di altri libri, nuovi titoli, sensazionali novità mi provoca un tremore alla bocca dello stomaco. Qualcosa di molto simile alla nausea.
È una sensazione ai limiti dell'incomprensibe e dell'osceno per chi si limita ad amare i libri senza averne fatto lo scopo della propria vita – ne sono ben conscio – ciò non toglie la realtà tangibile della sensazione, mai tanto evidente come in questo agosto irresoluto e inclemente.
Semplice stanchezza? Mal de vivre? Spleen? Mi risulta difficile crederci se provo a concentrarmi su altro. No, la nausea nasce proprio dalla prospettiva di un altro anno in trincea a difendermi dalla produzione editoriale e dall'ennesima recrudescenza di titoli in uscita. Il rapporto di molti operatori del settore editoriale librario sta diventando sempre più simile a un viaggio sulla Freccia Gialla di Viktor Pelevin: un interminabile tragitto in treno senza la possibilità di scendere, a guardare dal finestrino paesaggi che, fatalmente, finiranno per ripetersi.
Brrrr…
Ma forse vale la pena si scavare ulteriormente in questa sensazione, provare a delimitarla meglio.
«Persistenza».
È una parola-chiave.
I libri che leggevo un tempo avevano maggiore «persistenza».
Probabile che fosse perché non seguivo da presso la produzione editoriale ma mi limitavo a leggere ciò che trovavo in giro.
O forse, semplicemente, perché ero più giovane.
Brutto tasto, passiamo oltre. 


 
Ma la persistenza non è solo una categoria soggettiva, la convinzione ingenua che un libro debba lasciare un segno in chi legge. La persistenza è anche una caratteristica oggettiva. È oggettivo che molti titoli – belli, brutti o così così non importa – non possano sperare in una sopravvivenza in libreria che superi i 3-4 mesi. A parte ogni considerazione economico-finanziaria, il problema fondamentale finisce per essere: «E questo dove lo metto?»
Non si tratta soltanto di una conseguenza della metratura della libreria, tanto è vero che le grandi librerie e le librerie di catena sono assolutamente feroci nella selezione dei titoli da tenere a stock. Improbabile che un titolo che non ha avuto performance di vendita notevoli sopravviva a scaffale oltre i novanta giorni.
E loro non hanno problemi di spazio.
No, semplicemente il vecchio (sempre di più l'«appeno meno nuovo» o il «recente») deve lasciare spazio al nuovo (o presunto tale). Le macchine da stampa debbono continuare a girare perché l'investimento in capitale fisso sia produttivo e i giornali debbono riempire altre pagine di futili chiacchiere sul caso letterario, sull'autore – nuovo anche lui – o sull'eterna penultima tendenza.
Che p…
Scusate.
La nausea è un utile sismogramma, in questa indagine.
Aver citato gli articoli di argomento letterario dei maggiori quotidiani mi ha dato un brivido quasi insostenibile.
La parola «circo» non indica soltanto una forma di spettacolo ma definisce anche la circolarità dello spazio nel quale avviene la rappresentazione. «Circo» e «ciclo» sono lemmi molto vicini, etimologicamente legati. È così che il «ciclo editoriale» diviene con uno slittamente semantico quasi inavvertibile un «circo editoriale».
Del circo editoriale fanno parte artisti, impresari e banditori. La prima categoria può e deve essere «ruotata» con una certa frequenza, mentre impresari e banditori sono essenziali, irrinunciabili.
Fatali.
In tutti i sensi possibili.
È ragionevole pensare che in questo circo isterico e isterizzante possa trovare asilo una parola come «persistenza»?


Da bambino ho sentito dire che nel 2000 (scritto così, in forma di numero, aveva un fascino maggiore) avremmo lavorato al massimo per tre o quattro ore al giorno e il resto del tempo l'avremmo potuto dedicare a hobby, passioni, formazione personale. Abbiamo trionfalmente superato l'anno Duemila per arrivare a vivere in un mondo dove il tempo libero (ovvero il tempo da dedicare a se stessi) è diminuito rispetto agli anni Sessanta e dove capita di sentire idiotissime e nefaste classifiche mondiali sul numero di ore lavorate all'anno e dove l'Italia Produttiva si distingue da quella Improduttiva sulla base del vanto di coltivare l'abitudine incivile di lavorare troppo, ovvero di essere sempre più schiavi della propria avidità di denaro, oggetti, futile esibizione di lusso e ricchezza.
Che sarebbe bene darsi una calmata l'ha detto persino il papa che pure, date le sue origini tutt'altro che caraibiche, non è sospettabile di essere un sostenitore dell'ozio creativo.
«Peace & Love».
«Friede und Liebe», suona nell'idioma natale di Benedetto XVI.
Un po' meno frivolo, ma il significato è lo stesso.
Fatto sta che la coazione a produrre, ad alimentare ciecamente il ciclo (il circo) del denaro ci sta rimbambendo tutti quanti.
La permanenza è un disvalore. La durata una maledizione. La qualità un intralcio. Comincio a sentirmi più vicino alle radici del mio malessere.

«Mica vorrai mettere una pietra tombale sui nuovi autori, le nuove proposte, le nuove idee?»
Per carità. Ci mancherebbe.
Il guaio è che di «nuovo» c'è davvero poco all'orizzonte.
Raramente il «nuovo» in natura si presenta accompagnato dalle fanfare dei media. Anche il genere Homo sapiens è stato, a suo tempo, nuovo. Una novità fiammante sviluppatasi in sordina in qualche sperduta plaga dell'antichissima Etiopia. Nessuno ci ha presentato come «la specie che conquisterà il pianeta». Piccoli, brutti, mezzi glabri e mezzi pelosi non avremmo mai conquistato la prima pagina di alcunché. Nemmeno un articoluzzo su «Il Venerdì» o un elzeviro sul «Corriere».
Ci hanno lasciato in pace, buon per noi.
Il nuovo spesso si presenta così. Irriconoscibile, fragile, delicato, sgraziato. È molto probabile che il nuovo si annidi in qualche produzione minore, in qualche angolo poco frequentato.
«Su internet!», dice qualcuno
Internet sì, ma con qualche cautela. Per carità.
Di falsi «artisti clandestini» emersi soltanto grazie a internet abbiamo già abbondantemente fatto il pieno. Come di stimolanti blog e di geniali chat. Internet è la pubblica piazza di un tempo. Si va a zonzo – o si viene accortamente instradati da un motore di ricerca – finendo per andare tutti da quello che urla più forte ma evitando scrupolosamente di leggere qualsiasi testo che superi le cinque righe.
A meno che non siano le proprie predilette cinque o cinquecento righe.


Nella produzione editoriale che assalterà le librerie quest'autunno ci saranno sicuramente alcune conferme, diverse nuove proposte delle quali sarà complicato capire il valore nello spazio medio di una sessantina di giorni e una quantità imprecisata (ma sicuramente cospicua) di puro letame.
Il letame letterario (ma anche cinematografico o musicale) è ciò che viene prodotto per la paura di proporre qualcosa di interessante, e quindi rischioso. Nasce dal dominio ormai incontrastato degli uffici commerciali sulle redazioni editoriali.
E immancabilmente viene presentato come «nuovo».
Come se una fotobiografia di qualche viceparishilton, un saggiozzo farcito di ovvietà di qualche sociopsicotuttologo, un ruttino d'autore o l'ennesimo anonimo romanzetto thrillersplatterpornonoir potessero contenere anche solo un refolo di aria nuova.
D'altro canto la gente non ha tempo.
Non ha tempo.
Non ha tempo.
Vuole leggere – o forse riesce a leggere – soltanto cose facili, veloci, insapori. Da leggere e dimenticare senza rimpianti.

Sono quasi alla fine del viaggio intorno alla mia stanza.
Alla radice.
Forse alla verità, sia pure con la «v» minuscola.
Non sopporto di essere diventato, a tutti gli effetti, un passacarte.
Con poco tempo per leggere e poter giudicare con la mia personale dotazione neurale mi sento diventato un ferrovecchio. Un attrezzo nato in altri tempi per intenti adesso oscuri.
Non è una bella sensazione.
La sola via d'uscita per noi cimeli sembrerebbe quella di poter vivere in un mondo meno affannosamente lanciato in un loop senza fine di false scoperte e accorte dimenticanze. Sono stupito nel constatarlo, ma è grosso modo quello che dice Benedetto XVI.
L'unica persistenza riconoscibile, a questo punto, rischia di essere la mia. La nostra, se intesi come librai indipendenti. Più che persistenza, ostinazione.
Ostinatamente cercheremo di lavorare. Guardarci intorno e dire la nostra, anche se sbagliata, insufficiente, parziale o patetica.
Siamo stanchi, ma sappiatevi regolare.



6 commenti:

Nick Parisi. ha detto...

Diciamo che il momento del cambio nei tempi della fruizione di un libro in libreria (la cosiddetta "vita media" ) l'ho vissuto anche io da lettore.
Nel 1990 andavo nella mia libreria preferita di Napoli e trovavo gli stessi testi per 6-8 mesi, c'era anche il giusto ricambio, però avevo molto più tempo per scegliere-o meglio, si sono convinto che in realtà è il libro che sceglie te, decidere l'acquisto in maniera ragionata, dosare gli acquisti.
Nel 1998 stessa libreria : il tempo di permanenza di un libro era diventato di 3- 4 mesi al massimo.
Se tornassi oggi nella stessa libreria troverei libri che cambiano di settimana in settimana a meno di non chiamarsi Vespa; Brown e così via.
Sono i tempi ad essere cambiati Max, non certo noi.

Massimo Citi ha detto...

@Nick: infatti, nelle librerie di catena funziona esattamente così, Vespa è tuttora esposto ovunque - pur essendo uscito a metà novembre - anche se ho notato un certo rallentamento nel cambio, essenzialmente dovuto a un calo drammatico dei titoli in uscita. La crisi è reale anche per il settore editoriale, anche se ti chiami Mondadori, Rizzoli o Feltrinelli. Il risultato è che la permanenza di alcuni titoli - basterà ricordare la bassa qualità dei best-seller Newton? - diventa sinistra o snervante. Interessante notare, in ogni caso, che uno dei risultati della crisi è il drastico taglio (o l'evaporazione) dei diritti d'autore, con ritardi - di nuovo in prima fila la Newton - che hanno qualcosa di grottesco.

cily ha detto...

Prima, quando ero più piccola entravo in libreria e mi sentivo pervadere da una certa eccitazione. La stessa che ti prende quando vai ad un parco giochi come Disneyland e non riesci a decidere da quale giostra cominciare perchè tutte ti piacciono e ti caricano di aspettativa.
I libri come giostre. Il tempo trascorso a leggere come un tempo pieno, ricco, saziante.
Anche la biblioteca mi faceva lo stesso effetto.
Ora da una decina di anni a questa parte, dopo innumerevoli fregature guardo le librerie con un certo ribbrezzo. Come fosserò dei casinò. Dove finirai a perdere i tuoi soldi e non è detto che ti sarai divertito. Un luogo dove vince sempre il banco, alla fine.
Lo so che i librai non c'entrano ma sono gli editori però la diffidenza c'è(non che su IBS non ci sia ad esempio).
Poi ci sono i tanti libri ereditati da mia mamma, mia nonna, mia zia (da notare che a casa mia leggono le donne...)libri che quando li apri sono persistenti, come dici tu.
Eppoi c'è l'infinita collezione di fantascienza e fantasy dei bei tempi andati di mio marito.
Quando voglio qualcosa di buono vado lì. Ai vecchi libri.
La volta che sono incappata in Ballard che non avevo mai letto ero particolarmente assetata e scoraggiata. Uscivo dalla lettura dell'ennesimo urania sottotono, lasciato a metà.
Prendo il libro di Ballard e comincio a leggere e penso, questo ci sa fare.
Sì lo so che parlo di un buon autore però io pesco tendenzialmente a casaccio e di solito mi dice bene. vado in libreria ed è una tragedia.

Infine sottoscrivo il tuo discorso sul troppo lavoro.
Ho lasciato il mio lavoro riducendo un po' la qualità della vita nel senso di rinunciare a qualcosa (andare meno fuori, comprare meno vestiti o comunque meno costosi, riducendo gli sprechi), per stare con i miei figli e soprattutto perchè lavoravo 12 ore a volte 14 ore al giorno, senza sabati e domeniche.
Non era vita quella. Non aveva sapore, io non ero in grado di gestire il mio pochissimo tempo libero perchè ero troppo stanca per intrattanere qualsiasi conversazione e se andavo ad esempio al cinema mi addormentavo puntualmente.
Preferisco avere meno cose ma vivere il mio tempo in pienezza.

Argonauta Xeno ha detto...

Consola il fatto che i classici, anche i moderni, permangono. Ma se la narrativa (giusto per restringere il campo) contemporanea non permane, cosa leggeranno i nostri pronipoti? Quali saranno i classici di questi anni?

Massimo Citi ha detto...

@SX: proviamo a cambiare campo: quali sono i classici musicali del nostro tempo? I Sigur Roos? I Coldplay? Temo di no, con tutto il rispetto. Credo che l'ansia di piazzare soltanto colpi vincenti stia rovinando la piazza. Si risparmia sui nuovi per riproporre l'ennesima ristampa dei Beatles. E si ristampa Tolstoi rimandando a data da destinarsi i nuovi autori. Poi la vecchia talpa, quella di Karl Marx, opera ugualmente e sarà il tempo a stabilire i nuovi classici. Io non mi preoccuperei.

Massimo Citi ha detto...

@Cily: rinunciare... non è facile. Ho dovuto iniziare a farlo e, se debbo essere sincero, ne sono felice. Ho ritrovato il rapporto con mia figlia e ho scoperto di star bene con mia moglie. Quanto al tuo rapporto con le librerie non è facile descrivere cosa provo guardando adesso un tavolo di novità o uno scaffale di magazzino. Mi viene da cercare libri che non trovo e che probabilmente non esistono. Cerco un colore inesistente, un sapore perduto. Ma non riesco a smettere di entrare, anche se finisco per non comprare nulla. Non so se finirò per abituarmi, ma intanto debbo rassegnarmi: le librerie hanno perduto il loro fascino. E la spiegazione non sta nel fatto che non servono il caffè o hanno magliette loffie: mancano i libri, mancano gli autori, le idee, i sogni.