26.10.12

M.A.d.u.L.P. n.1


Questa serie di articoli è a suo tempo uscita su LN-LibriNuovi in forma di «Memorie Anticipate di un Librivendolo (libraio) Pre-global», M.A.d.u.L.P.. in breve.
Un incontro con uno dei miei pochi lettori – sia pure un lettore particolare, attualmente direttore di un testata di recensioni on line – mi ha ricordato la sua esistenza e la necessità di ritirare fuori l'insieme degli articoli. «Magari potresti persino farne un e-book», ha suggerito il buon Enzo, «e venderlo, che so, a un euro o due euro e 99».
Sulle prospettive di farne un libro non mi pronuncio. Ne riparleremo, semmai, una volta vista l'accoglienza dei lettori. Quanto all'aggiornamento degli articoli, beh, la situazione è largamente cambiata ma non pochi aspetti sono rimasti gli stessi, quanto basta per non gettare via tutto. Quanto infine al titolo, la situazione è parecchio cambiata e adesso non posso certo parlare di «memorie anticipate», anche se, da un certo punto di vista tali sono. Si tratta di un futuro anteriore, ovvero di un futuro immaginato in un punto indefinito del passato e messo a confronto il presente reale. Qualcosa di sottilmente malinconico, ideale per un daimyo decaduto a rônin. Rimarranno tali, dunque.
Le memorie usciranno con cadenza settimanale, di venerdì o di sabato. La rubrica occupò l'ultima parte della rivista per 14 numeri, dal 27 – settembre 2003 – fino al 40 – dicembre 2006. Diciamo che per 14 settimane posso dare ai miei gentili lettori qualcosa da masticare.
 

Come si diventa librai?
Già, come. Il perché non è necessario. Basta riprovare a ogni ingresso in libreria l’antica sensazione che da bambini dava l’attesa della mattina di Natale – la sensazione che qualcosa di bellissimo, non si ancora che cosa né come sta per accadere –, per aver afferrato il perché.
In realtà qualsiasi lettore feticista, esagerato e fanatico è un possibile libraio. Il desiderio di possedere libri – molti libri, vari libri, troppi libri – è la parte libidinale dell’essere librai, o meglio, librivendoli.
Ma su questo torneremo.
La domanda, però, era un’altra: «Come si diventa librai?»
Mah? Non lo so. Ma sospetto che il sistema migliore e più tranquillo non sia quello che ho vissuto (vissuto, non scelto) io.
Ho iniziato per caso, seguendo l’istinto e un’occasione che non ho ancora stabilito se considerare tale. No, non è falsa modestia. Nella vita riconoscere le occasioni è tutto, ho letto da qualche parte. Ma questa è una di quelle frasi che si pensano e si scrivono da ben sistemati per ammaestrare le giovani generazioni, frasi che implicano lo sviluppo lineare di qualcosa, un successo maturato attraverso un accorto mix tra fiuto, intelligenza e quel minimo di spregiudicatezza. E che infatti trovano il giusto risalto in vere memorie. Ma queste sono M.A. (memorie anticipate) e quindi…

Comunque, ho cominciato e dopo qualche anno ho sentito la necessità di iscrivermi anch’io alla Scuola Librai «Umberto ed Elisabetta Mauri». Era giugno, anche se non un giugno assassino come quelli del nuovo millennio. Ma comunque un giugno caldo. Si stava chiusi in un’auletta, sul banco un cartellino con il proprio nome e quello della società. «Company», veniva da pensare. A essere senza giacca e cravatta e senza tailleur eravamo in due. A essere non troppo ben pettinati, non troppo executive, non troppo qualsiasi cosa, sempre in due. C’erano anche alcuni librai cooperatori milanesi (come il sottoscritto, peraltro, cooperatore anche se non milanese), ma il loro essere senza giacca-e-cravatta era troppo programmatico, troppo attentamente cercato per essere genuino.
Per il resto sembrava di essere alla Bocconi. E anche gli argomenti non erano troppo diversi. Si faceva uso di inglese e di matematica mentre gli allievi librai progettavano osservazioni calcolatamente acute e acquiescenti. Le «dimensioni dello stock» e «l’indice di rotazione» erano il Verbo, l’Alfa e l’Omega del lavoro di libraio. Scoprii ciò che avevo già subodorato: l’amore per il libro doveva vestire il cilicio dei costi finanziari. E la sorte del Libro fu detta non una sola volta ma tante, a scolpirlo definitivamente nella testa degli allievi. Fui sorpreso dalla mancanza di reazioni, dall’assoluta identificazione con i Massimi Sistemi dell’economia di gestione. Intuii il senso di tante giacche-e-cravatte. Ero e sono io a essere un povero illuso da fumetto. Ciò che sono tuttora.
Io e un altro quasi-libraio di Milano, della libreria Hoepli, l’altro non cravattopendulo, un po’ facevamo la fronda alla tripla I in anticipo sui tempi. Sorridevamo, sogghignavamo ma quando incontravamo lo sguardo del prof ritornavamo serissimi. Mangiammo leggermente e bevemmo executivamente. Questo genere di comodità non si adattava alla nostra nuova pelle di super-librai. E poi i pasti erano compresi nel costo del corso. Al tavolo ci trovammo curiosamente con il prof, persona squisita e realmente interessante. A riprova che gli epigoni sono sempre peggiori dei precursori.


Mi rileggo. Non vorrei aver dato una sensazione sbagliata. Non ho nulla contro l’economia di gestione, l’indice di rotazione, il calcolo dei costi. Convivo tuttora, in pratica quotidianamente, con questi elegantissimi e affascinanti modelli matematici. Modelli, però. A volerli considerare realtà rivelate, cioè qualcosa di diverso dalle ombre che sfilano sul fondo della caverna platoniana si rischiano disastri. Che genere di disastri? Il costo del personale, per dire. È una voce, una semplice riga. Più di una riga, in realtà, visto che nel personale rientrano anche i contributi, l’accantonamento TFR eccetera. Bene, caricate i dati del vostro bilancio su un foglio elettronico. Calibrate opportunamente le interazioni tra le celle. Poi lanciatevi a simulare. «Via 10.000 (o 100.000 o 1 miliardo) dal personale». Controllate il valore finale del vostro bilancio, a questo punto. Aumento di utili (o diminuzione delle perdite) prodigiosi! Talmente prodigiosi che bisogna essere dei bei pifferi per credere che sia 1) facile, 2) comunque possibile.
Il mondo va così, però. Ovunque c’è gente davanti a un PC – laptop o desktop – che macchina qualche facile idiozia per rappezzare un bilancio. Anche nelle pubblicità. Da qui la necessità di diffidare delle pubblicità vipparole ed executive.

Ma prima della Scuola Librai c’è stata la gavetta. Che non è ancora finita. Che per un settore come questo non è mai finita, probabilmente. Gavetta vuol dire dover prendere una dozzina di decisioni al giorno che si rivelano per il 75% inadeguate, basate su insufficienti informazioni, avventate o semplicemente stupide. Adesso sono arrivato intorno al 50%. Ma solo perché ho imparato ad aspettare, lasciando che certe decisioni si prendano da sole. Immanuel Kant da Königsberg (ora Kaliningrad, tra un po’ forse di nuovo Königsberg) ha affermato che qualsiasi problema ignorato si risolve da solo. E ha lasciato intendere che l’esito finale del processo non è sempre infausto. Io, che ho inserito Kant anche nella mia domanda per il servizio civile, mi fido ciecamente del filosofo prussiano. Primo perché prussiano, secondo perché filosofo.


Il primo problema per chiunque voglia tentare di fare il libraio è la composizione dello stock, ovvero, detto in un italiano accettabile, di quali e quanti titoli volete rifornire la vostra libreria. Un inciso… Anzi, prima piccolo inciso del piccolo inciso: queste memorie anticipate non procederanno linearmente e cronologicamente. Perché sono uno smemorato, innanzitutto. Poi perché ho paura che mi scappino di mente piccole cose interessanti e inerenti. Quindi chi mi legge abbia l’accortezza di abituarsi agli incisi perché ce ne saranno parecchi.
Torniamo all’inciso originale, ora. Recentemente ho conosciuto una simpatica ragazza che intendeva aprire una libreria. Attraverso comuni conoscenze ha chiesto il mio parere e un certo numero di consigli. Sentendomi profondamente inadeguato l’ho incontrata. Le ho dato qualche suggerimento e svelato qualche trucco piuttosto banale. Una volta definite dimensioni e caratteristiche della futura libreria e le dimensioni dello stock, siamo arrivati a cercare di capire come e quali collane scegliere per iniziare. La mia amica, che chiamerò per comodità Francesca (non si chiama Francesca, comunque) aveva in mente una scelta dei titoli da cliente di libreria. Francesca pensava: «Vado nel magazzino dell’editore XY, prendo un grosso carrello e…»
«Ah, vai nel magazzino…»
«Infatti, scelgo… a me piace Coelho, per esempio, ne prendo 4 copie, e poi mi piace Hermann Hesse e…»
«I magazzini sono a Milano. Qui a Torino rimangono solo grossisti».
«Beh, l’Einaudi…»
«Il magazzino di Einaudi è a Verona, insieme a quello di tutto il resto del gruppo Mondadori. Qui a Torino, in via Biancamano potresti giusto tentare di grattare qualcosa dalla biblioteca personale dei redattori superstiti».
«Bollati Boringhieri?»
«Gran parte del magazzino è in un posto desolato nell’hinterland milanese insieme a quello di un’altra cinquantina di editori. Per girarlo tutto più che un carrello ti servirebbe un furgone. Comunque nemmeno i librai di Milano vanno ai magazzini a scegliersi i titoli. Usano i cataloghi».
«Capisco. Vado da un grossista».
«Bene. E per le novità?»
«Le novità, già. Beh, vado a sceglierle dal grossista».
I grossisti hanno criteri assolumente (e giustamente) demagogici nella scelta dei titoli. Sui tavoli per i librai hanno un assortimento fatto di titoli che «tirano». In realtà farsi un’idea della produzione editoriale partendo dai tavoli di un grossista è come cercare di capire qualcosa della produzione cinematografica mondiale sulla base della programmazione in prima serata di Rete 4.


«Dovrai far venire i rappresentanti, se vuoi sapere davvero cosa esce».
«I rappresentanti?» Il sorriso di Francesca è via via diventato meno convinto fino a scomparire completamente alla parola «rappresentanti». Dall’idea della passeggiata tra due scintillanti pareti di libri alla materializzazione di individui con grosse borse che cercano di spacciare libri brutti e inutili estorcendole un assenso per stanchezza e inesperienza, c’è effettivamente un abisso. Eppure senza rappresentanti – senza nessun rappresentante – non è molto facile condurre una libreria che non sia strettamente specializzata. O che non sia una cartolibreria con 700 tipi diversi di cartoncini d’auguri e un assortimento in libri fatto da 25 titoli.
«Ma ci sono i siti internet», gemeva Francesca, «le recensioni su quotidiani e settimanali».
«Vero. Ma le novità, il commercio delle novità, è il lubrificante di tutto il settore».
«Cioè…»
«Gli italiani leggono troppo poco per mantenere un’industria editoriale decente. Purtroppo molti italiani sono ignoranti e come tutti gli ignoranti pensano che la furbizia più dozzinale e un’astuzia bertoldesca possano sostituire cultura e intelligenza. Prova ne sia che hanno votato Berlusconi, i geni. Ma questo è un altro discorso. Fatto sta che il mercato editoriale italiano ha disperatamente bisogno di fare circolare denaro. Molti editori hanno bisogno di anticipi per stampare i libri. Devono produrre novità che le librerie comprino. Le librerie pagano a 60 giorni, le rese dell’invenduto arrivano dopo 180 giorni e così gli editori hanno per un po’ i soldi per poter produrre altre novità. E così via, finché dura. Che tu, cara Francesca, ordini i tuoi libri sulla base di recensioni o segnalazioni non serve. Non solo: esiste la possibilità che tu i libri non riesca proprio a trovarli. Le tirature, infatti, almeno per gli editori di maggiori dimensioni, sono basate sulle prenotazioni fatte ai rappresentanti».
«…»
«Quindi, se vuoi mantenere in piedi una libreria devi rassegnarti alla presenza dei rappresentanti. Diffidare di tutto quello che dicono, diffidare delle schede scritte che l’editore ha affidato loro, diffidare di campagne, condizioni di acquisto mirabolanti, pagamenti a babbo morto, grandi campagne di stampa, presenza su giornali, radio, TV…»
«… Ma, cosa resta?»
«Eh? Nulla, o almeno ben poco. Cioè no, restano i libri. I libri restano. In tutti i sensi possibili».

Francesca ha aperto la sua libreria. Ha incontrato alcuni rappresentanti e, che io sappia, è viva e vegeta. Non so se sia felice o perseguitata, come capita a me, dalla pila di invenduti che troneggia in mezzo alla libreria e che nessun lettore prende in considerazione, nonostante le rassicurazioni del venditore di turno, al quale ho, nonostante tutto, creduto… Se potessi mangiare un’idea / avrei fatto la mia / rivoluzione…

Qui finisce la prima puntata di queste memorie. Proviamo a fare come nei romanzi d’appendice e anticipiamo la prossima puntata:

« Vita quotidiana di un libraio residuale, I best-seller e i chiodi, il blitz e la resa, l’instant-book e la campagna sui tascabili, guerra con lo sconto e guerra allo sconto, riflessioni in margine a un bel libro invenduto davanti a una scatola di cartone»

Resta naturalmente inteso che non mi sento minimamente vincolato a quest’anticipazione.


4 commenti:

Nick Parisi. ha detto...

Io anni fa volevo aprire una mia libreria, poi mi sono trovato davanti alle stesse obiezioni che ha subito la povera Francesca...il resto purtroppo "non è stata storia".

Massimo Citi ha detto...

@Nick: comunque hai fatto bene. Questo è (era) un lavoro dove devi essere fuori come un balcone per farlo. Si guadagna poco e, in compenso, ci sono i momenti in cui devi "ricapitalizzare" che, tradotto in italiano, significa "cacciare i soldi" per coprire le perdite. Chi ti ha consigliato ha fatto bene, davvero.

Romina Tamerici ha detto...

Le «dimensioni dello stock» e «l’indice di rotazione»?! Benissimo. Ho appena scoperto che avere un diploma tecnico commerciale potrebbe tornarmi utile se decidessi di aprire una libreria! Scherzi a parte, le logiche di mercato sono importanti, ma senza passione tutto diventa vano, secondo me. Bisogna sempre fare i conti con il denaro, le risorse, gli utili... è inevitabile, ma quando tutto si riduce a quello ogni lavoro diventa uguale all'altro e non può rendere davvero felici e realizzati. Sono un'illusa? Una sognatrice? Certo che sì, ma il mondo, nonostante tutto, non è ancora riuscito a convincermi che sia un male. In futuro si vedrà.

Massimo Citi ha detto...

@Romina T: sembra paradossale ma non è troppo diverso dalle "buone norme per scrivere", che debbono sì essere apprese, ma che non sono un viatico al capolavoro. Rendersene conto è essenziale, anche perché un mondo che funziona a base di norme rigidissime è un mondo semplicemente orrendo. Come per molti negozi di musica (ma prima ancora per gli spazzacamine, i palafrenieri e i piloti di dirigibili) la fine della mia libreria è stata determinata dal mutamento del quadro di riferimento. Ma se avessi seguito ciecamente l'IdR o le DdS oltre che chiudere ugualmente non mi sarei nemmeno divertito : )