28.12.20

Una promessa è una promessa


Avevo chiuso il precedente post con la promessa di ritornare presto, ed eccomi qui.

I libri letti sono sempre sulla libreria e continuano a costituire un intralcio logistico ai libri alle loro spalle. Non che la lettura di questi ultimi sia particolarmente urgente – si tratta di libri già letti, prevalentemente dedicati alle biografie, ai saggi psicologici e sociologici e ai miei non facili rapporti con le religioni – ma la presenza di libri letti e dimenticati a caso sullo scaffale mi crea un sottile malessere del quale voglio liberarmi quanto prima. In fondo l'abitudine a recensire i libri dopo la lettura è un'abitudine presa ai temi della scuola media (cinquant'anni fa, la durata di una vita) e che non mi ha mai abbandonato. Ai tempi della scuola media il mio scopo era quello di "crearmi un giudizio personale su qualsiasi cosa" (…nientepopodimeno…), infatti 0ltre i libri recensivo anche programmi radiofonici, televisivi, LP, film, documentari e Dio solo si ricorda cos'altro, in genere stendendo feroci stroncature, particolarmente dei programmi RAI ma anche di dischi o film poco graditi. C'è voluto del tempo per capire che i miei gusti non erano un buon metro di giudizio e che alcune volte (molte? è possibile) il mio giudizio mancava clamorosamente di lucidità, accusando quel tale film di orrori estetici e ideologici mentre il vero problema stava nella recitazione o nel montaggio o nella sceneggiatura o nella regia. Un po' alla volta ho ridotto il campo delle mie recensioni, limitandomi ai libri che, se non altro, sono stati uno dei pilastri della mia vita, diventando col tempo sempre più tollerante e paziente, nonostante la mia rovente e sempre vivacissima intolleranza per soggetti tipici del panorama italico, tipo Bruno Vespa o i molti G.P.G.Q. (Grandi Palloni Gonfiati Quotidiani) che infestano le librerie sotto Natale. Da questo punto di vista aver dovuto chiudere la libreria è stato una benedizione, nel senso che acquistare un libro per parlarne male non ha senso mentre nella mia vita precedente potevo leggere un libro e rimetterlo sullo scaffale senza colpo ferire. 

Adesso devo comprare i libri per leggerli, evitando – come si evita una festa piena di individui senza mascherina – i libri dei soggetti che non amavo nella mia vita precedente ed evitando, (lo so, mi dispiace, ma non mi sento di rischiare) i giovani autori nazionali, troppo spesso gonfiati come palloni aerostatici da giornalisti compiacenti e da critici un tot a riga. La cosa non mi funziona sempre, sia chiaro, come vedremo anche tra i libri che presento questa volta, ma diciamo che in genere riesco a leggere cose quantomeno decenti. 

 


 

Il fatto che personalmente scriva fantascienza e fantastico probabilmente non ha un particolare rilievo sui miei gusti e sulle mie scelte in campo narrativo. Non leggo quanta fantascienza dovrei, ahimé, spesso preferendole la letteratura fantastica, il gotico e i classici dell'orrore. In sostanza ho sempre amato Calvino, Borges, Perutz, Buzzati, Bradbury, Cortazar, Hoffman e Bioy Casares più di quanto abbia mai amato (o in qualche caso sopportato) Heinlein, Van Vogt, Asimov, Keith Laumer, Ayn Rand o Ron Hubbard. Qualcuno mi farà notare che il 90%  della sf non ha nulla a che fare con costoro e che vi sono ben altri autori e io risponderò che certo, è proprio vero e che dietro a Jack Vance, Cordwainer Smith e China Mieville posso mettere in coda altre decine di autori, ma questo non mi impedirà di commettere un delitto imperdonabile ponendo sullo stesso piano di gradimento il fantastico e la fantascienza. Mi dispiace, sono bilaterale da tempi non sospetti e non posso farci nulla...

Questa volta partirò da un libro recente, indicato tra le novità natalizie di Adelphi: La valle oscura di Anna Wiener [Uncanny Valley, a memoir], trad. di Milena Zemira Ciccimarra. Il libro viene presentato come un reportage in forma romanzata, promettendo di ridere ogni piè sospinto. Bene, non è vero. Al massimo il libro fa sorridere, ma solo raramente, e la protagonista nonché narratrice del mondo dell'informatica della Silicon Valley, riesce talvolta sottilmente odiosa per la sua abitudine di dare perennemente la colpa a se stessa di tutto ciò che le accade, finendo (fatalmente) per parlare esclusivamente di sé. Anna Wiener ha lavorato in una libreria e in una casa editrice– luoghi assolutamente emblematici – sulla costa orientale degli USA fino a quando si vede costretta a cambiare luogo e tipo di lavoro, trasferendosi in occidente, nella «Uncanny Valley» a lavorare per una Startup californiana. Nelle successive 280 pagine l'autrice ci racconta, con innumerevoli digressioni sulla sua vita pazza, esagitata e disperata, della follia dei giovanissimi manager delle Startup, della loro ansia e ambizione, di ambienti di lavoro dove l'autosfruttamento è una sana abitudine, dove il passaggio dai PC agli attrezzi da palestra costituisce più del 90% della vita quotidiana, dove l'alimentazione a base di similredbull e altri beveroni multivitaminici è considerata assolutamente normale. In tutto ciò la nostra Anna passa da fasi di felice adesione al progetto della Startup – o meglio delle Startup, dal momento che la protagonista cambia impiego a metà libro  – a fasi di profonda insoddisfazione, intolleranza per se stessa e slanci di un vago femminismo incosistente. La realtà che la circonda è fatta di un maschilismo da ragazzini immaturi, in genere incapaci di giudicare la realtà nel suo complesso ma soltanto i frammenti che in qualche modo li toccano e li appassionano. Tra questi le donne sono a un buon punto della classifica ma non sono considerate essenziali, tanto è vero che la presenza di una donna in una piccola azienda informatica è considerata con curiosità e un vago stupore. Alla protagonista, laureata in lettere, viene affidato un compito che evidentemente non è molto apprezzato dai nerd che la circondano: rispondere alle lamentele e alle richieste dei clienti, compito nel quale Anna se la cava decisamente, anche se, ovviamente, da quella posizione non può afferrare a pieno lo scopo e gli intenti della ditta. Parlare con il CEO della ditta dove lavora in una prima fase non gli è particolarmente utile: si tratta di un dannato giovanotto impallinato, talvolta infantile, più spesso autoritario, capace di mettere insieme qualche milione di dollari in una settimana ma assolutamente sprovvisto di quella che in tutto il resto del mondo viene chiamata empatia. Il cambio di Startup migliora le sue condizioni di lavoro – stipendio maggiore, buona parte del lavoro in smartworking, orari d'ufficio autogestiti – ma non migliora la sua visione del mondo della Silicon Valley fino a portarla ad ammettere che quel mondo per lei, una letterata cresciuta nel mondo librario della costa Est, non è la scelta giusta. A pesare su questa decisione è anche la situazione nel frattempo venutasi a creare con l'elezione di Ronald Trump e con l'apparizione inquietante di un modo di lavorare e rapportarsi al mondo ricalcata sul mondo televisivo di Ronaldino, quindi sommaria, brutale e fondata sulla menzogna e su una realtà deformata. Ed è in queste pagine che Anna Wiener riesce a raccontare in modo nitido e preoccupato la situazione degli USA e il rovesciamenti di valore sul quale l'EX-presidente (sia lodato il cielo) ha costruito il suo sistema di potere.

Un libro scritto con uno scopo lodevole e tradotto in italiano essenzialmente per favorire la demolazione del mito che circonda la Silicon Valley e, detto per inciso, per sottolineare il valore incomparabile della cultura letteraria e della circolazione di libri. Sono d'accordo? Diciamo che avrei preferito un testo più nitido, più netto nel raccontare le improvvise ricchezze di CEO imberbi e più preciso nel raccontare la mutazione e la decadenza del ceto intellettuale californiano, passato dall'essere libertario a teorizzare il lavoro 24h. Diciamo che si tratta di un tentativo parzialmente fallito? 

Continuiamo con un'altro mezzo fiasco. Parlo di Benevolenza cosmica di Fabio Bacà, Adelphi 2019. Lo stile, innanzitutto – dal momento che di trama e intreccio non è facile parlare – bene: lo stile è magistrale, dotato di un lessico lussureggiante,  capace di accelerazioni funzionali e di digressioni che non ritardano il ritmo a tratti sostenuto della narrazione. In sostanza il tipo di libro che si legge per la semplice, banale soddisfazione di ammirare come si gestiscono principali e subordinate, incisi e incipit, flussi di coscienza e riflessioni affannate, emozioni, sorprese e rimorsi, insomma come si riesce a scrivere un romanzo brillante anche se non ha, ahimé, nulla di serio da comunicare. 

La vicenda si racconta in poche parole: si svolge a Londra – la metropoli pre-brexit e pre-COVID –  il protagonista, tale Kurt, gode di una sorte straordinariamente positiva, tanto da suscitare in lui qualche dubbio: «non è che se io ho tutta questa fortuna, qualcun altro vivrà in un'innaturale situazione di scalogna cronica?». Il romanzo procede su questa bizzarra trovata, allineando fatti che parrebbero avvalorare la tesi di Kurt fino a un curioso "incidente" che a suo modo equilibra la bilancia del caso. In sostanza un romanzo che sembra ricavato da una storia del fortunato cugino di Paperino, Gastone, e che non sembra aggiungere nulla alla storia del romanzo italiano, nonostante il lusso esagerato dello stile, probabilmente l'unico motivo per il quale questo libro è stato pubblicato. Diciamo che a un 9 dello stile corrisponde un 3 nell'intreccio e il risultato matematico è un bel 6.

Il Cosmonauta di Jaroslav Kalfař, titolo originale Spaceman of Bohemia,  editore Guanda, è un romanzo non di fantascienza e il cui sentore di buffa malinconia si coglie già dal titolo originale, con la sovrapposizione di un'entità ottocentesca come la Boemia, con i suoi derivati: il Bohemienne, il suonatore boemo ecc. ecc. a un dato simil-bowiesiano come Spaceman, parente stretto dello Starman di Ziggy Stardust, il tutto a formare un ircocervo di ardua interpretazione, sullo stile della tomba rumorosa o della candida notte. 

Si parte con una ipotesi di primo acchito assurda e vagamente ridicola: la conquista dello spazio da parte della Repubblica Ceca e la scelta di Jacub Prochàzka – scienziato non particolarmente brillante – come cosmonauta alla conquista del pianeta Venere. Il povero Jacub deve rinunciare alla sua adorata fidanzata, Lenka, con la quale sta attraversando un momento di crisi, per avventurarsi nello spazio sconosciuto, a bordo di uno shuttle battezzato JanHus 1, in un viaggio condotto in perfetta solitudine. La spedizione sembra procedere con successo almeno fino a quando un misterioso alieno, simile a un ragno ingrandito migliaia di volte (non casuale, probabilmente, la somiglianza volta in parodia con una certa, nota blatta kafkiana) non compare sulla navicella, iniziando a perseguitare il protagonista con domande inopportune, troppo impegnative o vagamente assurde, tentativi di sondare il suo corpo per comprenderne l'origine e raccontando dei misteriosi ordini della sua tribù. Impegnato con i compiti normali per un cosmonauta e nei dialoghi frustranti con Hanuš l'alieno, a Jacub rimane comunque il tempo per struggersi per l'incomprensibile condotta della sua Lenka e per riflettere sulla sua infanzia e adolescenza, in gran parte vissute all'ombra del nonno – eroe del regime e/o traditore del popolo – e per meditare senza scopo sulla sua presenza sull'astronave. 

Un incidente decisamente più serio interviene a spezzare lo strano procedere delle sue giornate. Costretto ad abbandonare la JanHus 1 viene salvato della NachaSlava 1, un'astronave russa, ovvero la personificazione della nemesi dei cechi e della storia ceca degli ultimi settant'anni.

Un romanzo bizzarro, impregnato di un gusto acre per una satira sardonica, capace di riassumere in un testo stralunato diversi decenni di storia cèca e di presentare con rabbia trattenuta e divertita i tipi umani che contrassegnano i passaggi dal nazismo al comunismo al capitalismo di rapina attualmente al potere. Un  testo notevole e a suo modo spassoso che consiglio volentieri a chi apprezza la letteratura cèca e il suo gusto secolare per il nonsense e l'assurdo e, in subordine, a chi si pone domande sul patto di Visegrad e che non comprende i motivi della politica dei paesi dell'Est. Importante: non abbandonarsi a una riflessione più puntuale e attenta sulle meditazioni e i ricordi di Jacub, soprattutto se si ha a cuore il futuro della UE: potreste pentirvene.

A adesso cambiano nettamente genere e tipo di libro. Siamo a La mente del corvo di Bernd Heinrich, Adelphi 2019, trad. Valentina Marconi, collana Animalia, pp. 556 (!). 

Tema del libro è, evidentemente, lo studio puntuale e attento della vita, la condotta, la nutrizione, i rapporti sociali e familiari, le attività volte alla riproduzione, alla ricerca del cibo e al gioco del corvo imperiale (Corvus corax), il più grande tra i  corvidi, specie diffusa in Europa, in Siberia e nell'area Nordamericana. Se, come me, siete appassionati di corvi e dei loro parenti in area cittadina – le cornacchie grigie e le gazze – non dovete farvi sfuggire questo libro, un baedecker ricco e ragionato sul comportamento dei corvi, condotto per anni su diverse generazione di corvi, faticosamente osservati in natura o sottratti ai loro nidi per assistere alla loro crescita. Il risultato è uno studio approfondito di vita dei corvi, presentata nei diversi capitoli: Trovare casa; Caccia e ricerca del cibo, l'adozione; La percezione sensoriale; Il riconoscimento indivuale; La comunicazione vocale; Status e dominanza; Le paure dei corvi; Scorte, furti e inganni; Moralità tolleranza e comprensione; Il gioco secondo i corvi; Cervello e capacità cranica. Segnalo in particolare il penultimo capitolo, I corvi hanno coscienza ed emozioni?, dove l'autore riflette in particolare sulle insufficienti o deficitarie modalità di definizione della coscienza: 

Non possiamo definire o comprendere appieno la mente, in parte perché non potrà mai essere scomposta in unità semplici come i geni, essendo una proprietà risultante dalle complesse interazioni tra miliardi di neuroni. 

Ciò che l'autore sottolinea più volte è la capacità di mantenere per lungo termine ciò che per altre specie è un riflesso momentaneo: 

Poiché i corvi creano legami duraturi, la mia ipotesi è che si innamorino come accade a noi, semplicemente perché per mantenere un legame e lungo termine è necessario un qualche meccanismo di ricompensa interiore. […] I nostri valori sono soddisfazioni sul piano emotivo che ci consentono di compiere azioni di per sé senza senso e che non forniscono alcuna ricompensa immediata. Lo stesso vale per un corvo che tira uno spago. L'uccello non ottiene alcuna ricompensa dai singoli passaggi intermedi prima di raggiungere il cibo. 

E la sua conclusione è che:

Le mente, come la vita e la vitalità, è una proprietà emergente ed è un fenomeno tanto storico quanto fisico […] La coscienza non è un oggetto finito. È un continuum senza confini. 

E se avete dedicato qualche minuto del vostro tempo a osservare come una cornacchia riesce ad aprire la castagna di un ippocastano semplicemente facendola cadere dall'alto di un lampione, non avete bisogno di altri motivi per leggere questo libro. 

Piccola nota, nata dalla curiosità sulla personalità di uno scienziato che ha dedicato buona parte della sua vita a salire e scendere dagli alberi per studiare i suoi amati corvi. Il professor Heinrich è un professore emerito di Biologia all'Università del Vermont ma la sua nascita nel 1940 in Germania, i suoi studi iniziali nello Schlewig-Holstein e la pratica con la lingua tedesca è testimoniata dal capitolo 3 (Un corvo in famiglia), che da solo merita il prezzo non irrilevante del libro e dal capitolo 7 (Trovare casa). Interessante sapere che a questo libro Heinrich ne aveva fatto precedere un altro, Corvi d'inverno e che l'autore oltre ad essere uno studioso del comportamente animale è uno dei più accreditati esperti per quanto riguarda la fisiologia degli insetti. 

Per concludere mi occuperò brevemente dell'antologia nella quale è apparso il mio racconto «Un rifugio a Baba Yaga», titolo Mondi paralleli, il meglio della fantascienza italiana indipendente 2019, curata  da Carmine Treanni e che contiene opere di quattordici autori, a suo tempo pubblicate in diverse antologie e amorevolmente spulciate dal curatore a costruire una rassegna molto variata negli spunti, nelle idee e in generale nella capacità di costruire una storia breve compiuta e appassionante. Uno sforzo notevole, soprattutto tenendo conto dello scarso appeal del quale godono i  racconti nella tradizione letteraria italiana, considerati non tanto un tipo di narrativa peculiare e indipendente quanto esempi di bozzetti – spesso maldestri – stesi da chi è incapace di scrivere un romanzo. A titolo di esempio personale mi ricordo ancora quando, a una presentazione della mia prima antologia, In controtempo, ho ricevuto tra i complimenti un paio di osservazioni tipo: «Carini, i racconti, ma quand'è che ti metterai a scrivere sul serio?» Inutile far osservare che un'antologia di racconti – e il lavoro di scelta e accostamento – può costare in tempo e fatica quanto un romanzo: semplicemente non si viene creduti e sempre considerati con l'occhio mezzo divertito e mezzo cinico da: «Ma, dai, non prendermi in giro.»

Ciò detto passo a presentare rapidamente i racconti, essenzialmente quelli che hanno incontrato di più i miei gusti, quindi non «i più belli» o «i più fichi» o «quelli che spaccano» ma semplicemente quelli che mi hanno regalato qualche attimo in più di sogni, visioni, brividi o commozione. 

Cornucopia di Linda De Santi è un racconto gelidamente crudele e insieme stranamente forte, deciso come una rasoiata. Il destino delle sue sue "fate", scaturite da una "Frattura" nel nostro spazio-tempo e divenute cibo per palati raffinati, finisce per identificarsi con il nostro destino, rendendoci corresponsabili del nostro fato.

Il grande errore di Claudio Chillemi è un racconto molto breve e basato su un meccanismo narrativo che, se ben preparato, scatta infallibilmente. In sostanza si tratta di scegliere un punto di vista personale e, approfittando della sospensione di incredulità del lettore, condurlo a credere ciò che non è dimostrabile. Il finale del brevissimo racconto è perfetto nel suo registro amaramente ironico. 

Il corpo di Luigi Musolino è un apologo, costruito su una visione surreale: un gigantesco corpo morto sospeso su una città. Il destino di quel corpo è quello di un cadavere qualunque e la sua corruzione e decadenza si identificano con il termine per la nostra specie. Un po' meno convincente il finale moraleggiante, ma un racconto comunque magistrale. 

Collasso domotico di Carlo Menzinger di Preussenthal è un racconto basato su una semplice riflessione: «Che cosa accadrebbe se la luce non tornasse?», pensiero che credo ognuno di noi abbia prodotto durante un momento di black-out. L'autore si basa su questo semplice tema e lo svolge in maniera perfetta, conducendoci per mano nella rapidissima discesa verso la barbarie. Una narrazione che non si dimentica.

Il vecchio blaterone di Nicola Catellani è una piccola storia di quelle che si ha la sensazione di aver letto da qualche parte, un po' di tempo fa, ma ha per nocciolo un tema eterno, che rende ragione del nostro scrivere e raccontare. Con sottile umorismo l'autore ci racconta esattamente la storia che volevamo ascoltare, come migliaia di anni fa e come tra migliaia di anni.

La scomparsa di Matteo Sanniti di Paolo Aresi era presente nell'ottima antologia Fanta-Scienza, pubblicata nel 2019. La costruzione del racconto è classica: lo scienziato che, da solo, giunge a una scoperta rivoluzionaria, la prova su stesso e finisce per pagare di persona le conseguenze del suo gesto prometeico. Non c'è altro da aggiungere, credo. Ottimo racconto. 

E con quest'ultima recensione ho finito. La colonna di libri da recensire è nettamente diminuita, anche se non scomparsa, e quindi dovrò ritornare qui tra qualche tempo, anche perché ho quasi finito la lettura di altri due libri che andranno a rimpinguare la pila. Quindi, arrivederci a presto!


 

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