8.2.19

Calibano 28totto. Missione impossibile


In attesa che le due flotte comicino finalmente a spararsi addosso, sarà bene spiegare un paio di cose sulla guerra presso i galattici.
L’arte bellica nella galassia ha ovviamente raggiunto un livello di raffinatezza tecnologica terrificante, tanto che il ricordo dello Scudo Spaziale di Reagan suscita tenerezza, più o meno come il fucile da caccia tanto amato dal nonno e lasciato a far ruggine in soffitta dopo i funerali.
Anche il costo degli armamenti in dotazione delle flotte galattiche é terrificante: il primo articolo del regolamento di guerra dei comandanti di astronave recita: “Non fatevi distruggere nulla che non siate in grado di ripagare con il vostro stipendio”
Di conseguenza la maggior parte delle guerre combattute tra le stelle comporta l’esibizione ostentata di armi sempre più scenograficamente impressionanti, nella speranza di indurre il nemico alla fuga o alla resa senza inutile dispendio di denaro.
Ulteriore conseguenza – questa volta sul design – le astronavi da guerra sono bruttissime, cattivissime, minacciosissime, hanno dimensioni smisurate, sono irte di aculei, piene di inutili rostri e disegni di mascelle spalancate, luccicanti come alberi di natale diabolici e accompagnate da cupi clangori metallici, stridenti ed inquietanti.
La storia militare galattica dell’ultimo secolo é ben rappresentata dalla figura dell’Ammiraglio Fatal Novara, capace di vincere ben quattro battaglie contro flotte numericamente preponderanti camuffando la sua flotta da “pensione economica- vista sul mare- juke-box e ping-pong, grande spaghettata a ferragosto e caccia al tesoro”.
La quinta volta il nemico comparve sotto forma di “Settimana Piovosa in Villeggiatura” e il geniale ammiraglio si suicidò.
Naturalmente le due flotte – Kerrabbia e Mangiasabbia- ricche di esperti nell’arte militare, stanno ritardando il momento dello scontro finale per studiare un’apparizione abbastanza agghiacciante da permettere una vittoria compresa nel budget.
Le navi Kerrabbia hanno già sperimentato gli schemi di battaglia denominati: “Arrivo in albergo di gita scolastica”, “Dibattito in studio all’indomani delle Elezioni”, “Sosta in Autogrill di Corriera di Gitanti”, tutti rigorosamente proibiti dalla Convenzione di Betelgeuse e proprio per questo utilizzati dai comandanti Kerrabbia.
Da parte loro i Mangiasabbia continuano da giorni ad esercitarsi negli schemi: “Buffet freddo gratuito per un gruppo di impiegati”, “Gruppo Corale Alpino amatoriale” e “Matrimonio con cinquecento e passa invitati”, ma le manovre non riescono troppo bene e Arn Periferiko, comandante in capo della flotta dei Mangiasabbia, è talmente nervoso e pungente che persino i Geosinclini e gli Ortosinclini girano alla larga per non incontrarlo.
I membri della piccola flotta della Satan e soci, godemichizzata da un cartello con scritta rossa “DIVIETO DI DISCARICA”, assistono loro malgrado alle esercitazioni delle due grandi flotte nemiche.


Volendo si può anche girare la faccia, è ovvio, ma lo spettacolo dell’orrido è affascinante e i componenti dei minuscoli equipaggi della società immobiliare di Gomorra girano per i corridoi pallidi e pieni di tic, si azzuffano per un nonnulla e di notte dormono malissimo.
– Fanno sul serio. – Pelagio distoglie con fatica lo sguardo da un gruppo di navi Kerrabbia impegnate nello schema denominato: “Dame di carità ad una Pesca di Beneficenza” e beve un sorso da una fiasca appesa alla cinta. – Magari si distruggono tra loro. Magari.
Mirella getta uno sguardo oltre l’oblò della nave e rabbrividisce: – Non avrei detto che gli alieni fossero capaci di tanto.
Pelagio si stringe nelle spalle e commenta filosoficamente: – Ognuno é l’alieno di qualcun altro.
E., luminoso come un campo di grano dipinto da Van Gogh, interrompe la masticazione della razione di emergenza XR-45 (all’aroma di caffelatte) e sorride beato. – Che bella frase, Pelagio.
– Grazie.
Il ronzio sonnolento del comunicatore di Spazio 1 interrompe la conversazione non troppo vivace tra gli occupanti della “Voodoo”.
– Qui Ahriman Godetai. Buongiorno. – L’immagine del sauroide con monocolo ed elegante tunica crema e vermiglia si forma in un angolo della sala da pranzo della nave.
– Buongiorno. – Rispondono in coro i presenti.
– Doppio Kuemmel ha cominciato a lavorare… – Il nobilsauro esita – E…
– …E qualcuno dovrebbe uscire dal Campo Godemichè, qualcuno particolarmente abile e fidato. Dovrà portare con sè qualche accidente di marchingegno per qualche scopo che poi vi dirò, mentre io e gli altri coraggiosamente coordineremo le altre attività. E così? – Pelagio sorride: conosce bene i suoi polli.
Ahriman annuisce con uno scatto nervoso della testa: – Più o meno. Tra poco arriveranno lì da voi Doppio Kuemmel ed Eisenstein che vi spiegheranno meglio la cosa…
– C’é qualcos’altro, vero? – Pelagio cerca sempre di definire nel modo più chiaro le dimensioni della propria sfiga.
– Ci sarà anche mio figlio Neurite. – Deve ammettere il sauroide.
– Ah.
– Doppio Kuemmel é qui per girare un film, lo sapete no? E quindi bisognerebbe non lasciare trapelare nulla sul vero scopo della nostra missione. E ovviamente assecondarlo.
– Tutto qui? – Chiede Pelagio con una punta di sospetto nella voce.
Ahriman fa strani gesti con le mani. – È tutto qui.
– Non ci credo.
– Giuro giurin giurertola, Godzilla fammi diventare una lucertola. Va bene così? Beh, tanti auguri, ragazzi, siete il meglio della nostra squadra.
– Lo so. – Taglia corto Pelagio
– Beh, arrivederci. – L’ espressione imbarazzata del sauroide svanisce in un breve lampo di luce.


– Ma che cavolo hai da sorridere, eh? – Fa Rumpus ad E.
– Ma, la luce… – Balbetta il quasi trentenne, incapace di spiegare il riflesso che lo ha spinto a sorridere al lampo di luce.
– Lascialo stare, dai, Rumpus. – Interviene Mirella. – Pelagio, cosa dobbiamo fare?
– Eh? Ah sì. Pregare credo, meditare sul senso dell’esistenza, comprendere il fine ultimo delle nostre miserabili vite. – Il tartoide si alza lentamente grattandosi la nuca. – Vado a vedere come va la nave, visto che tra non molto dovremo fare un bel po’ di straordinario. Conan, vieni con me.
Il lungo pilota della Satan e la bionda sintetica scompaiono, diretti ai reattori Gaalighe. Visti di spalle fanno una bella coppia impossibile: Pelagio in tutablù e Conan in slip di pelle nera e reggicalze. Fossi Mapplethorpe li fotograferei.
Un attimo dopo esce anche Rumpus alla ricerca del suo contenitore della sabbia.
– Fattifottograffà. – Canticchia il sorianone in corridoio.
– Non sarò mai simpatico al tuo gatto. – Commenta E.
Mirella sorride. – Un po’ di gelosia. Nemmeno tu l’hai mai sopportato.
– Mi odia, anzi mi disprezza. Adesso è pure geloso. Meno male che pesa solo sette chili.
Mirella si alza stirando le braccia. – Sette chili e mezzo. Ma è un gran bastardo. Beh, Sei pronto a salvare la terra?
– Che domanda, e tu?
– È quello che tentavo di fare quando ancora ci vivevo. Le marce, le riunioni, GreenPeace, la guerra al salmone norvegese in busta e sfuso, le balene che cantano e le balene che crepano, le discariche abusive, i fiumi blindati, i giovedì del pedone. Mi sono sbattuta un casino e incazzata anche di più. Ma non conoscevo Conan, Pelagio o la Satan e soci. Così mi piace di più.
– Quelli là fuori fanno sul serio, Mirella.
– Lo so. Ma comunque Kerrabbia e Mangiasabbia non sono mica peggio di Edwin Teller o di Ossequio Fede o delle petroliere della Exxon.
– Preferirei Ossequio Fede. (pausa) Forse no.
– Io no sicuro. Il popolo di Pelagio dice: “Ora il Crudele Signore riposa e sorride, ma i suoi stupidi servi non conoscono pace.”
– Ho già sentito qualcosa del genere…
– Certo, anch’io, ma come lo dicono i tartoidi é più carino.
Mirella sorride. – Dai, andiamo, che forse più tardi avremo un momentino per noi. Devi ancora spiegarmi cosa fa il paguro con la conchiglia…
E. diventa paonazzo e con una gomitata fa cadere il bicchiere con il caffè – autosolubile ed autoriscaldante alla semplice dichiarazione “Adesso mi farei un bel caffè” (Proprietà Società sintedetica “Skizzo” di Marechiaro).
Poi, tentando di salvare il caffè, fa cadere il comunicatore portatile che si accende.
Voce di Conan: – Ah, Pelagio, ma sarà bello abbandonarsi così alla passione?
Voce di Pelagio: – Stringi qui.
Ancora Conan: – Mi ha detto che il mio modo di parlare é terribilmente sexy.
Pelagio: – Mmhhh, questo giunto é un po’ ballerino, passami la chiave ipercardanica.
Conan, tono sognante: – Sì. Il fatto é che mi piace come mi tratta, é così … gentile.
Pelagio, quasi incazzato ma educato: – Conan, questo é un trapano.
Conan, confuso: – Scusa. Tieni. Oh, scusami ancora, un attimo (rumore di attrezzi smossi, sospiro prodotto da un tartoide esasperato) Ecco, l’ho trovata. Ti dicevo…
– Spegni. – Dice Mirella ed E. la vede sorridere teneramente.
Dovrebbe avere una polaroid sotto mano: Mirella sul tenero è rara come una bisvalida.
E. solleva il comunicatore e lo spegne. – Andiamo. 

 
Piange il telefono.
 
– Ma mi trattano come un escremento, capisci Aquila?
– Eh…
– Qui muoio di freddo, di fame, per le umiliazioni. Non é nemmeno stata mia l’idea di usare quell’imbecille di Cilicio Benelli.
– Beh… – Aquila Yò-yò è poco loquace. Intento ad accarezzare un segmento della notevole anatomia della proprietaria originale dell’idea, si sta chiedendo come togliersi dai piedi l’inopportuno Duca, ultimamente simbionte del tele-imago come una massaia.
– … E poi questa idea della flotta non é molto opportuna. Cazzo, mica pensavo di andare in guerra io. Aquila, ci sei? Bene. No è che ho paura. I Kerrabbia sono dei guerrieri nati, ci faranno un paniere a totem, minimo. Niente, una frase di quand’ero ragazzino. E poi questa nave non é sicura, il comandante passa il suo tempo a gozzovigliare, bere e ridere di me…
– Ma non puoi farlo smettere? – La Verdalmata parla ad alta voce perché l’altro la senta. Aquila Yo-yo le fa strani cenni e si stringe nelle spalle.
– Cosa dici? Farlo smettere? Ci ho provato, ma non mi apre neppure la porta. Cosa hai fatto alla voce, Aquila? Lo sai che il tuo teleimago non funziona? Non ricevo l’immagine.
– È il teleimago che c’è sullo yacht del grande Geosinclino. – Spiega il coniglioide.
– Continua, sì… – Mugola la verdalmata.
Aquila Yò-yò fa gli occhiacci alla sua compagna.
– Sì, continuo. Ma il fatto é che solo tu puoi fare qualcosa. Hai una voce strana, sai? Non stai mica covando un raffreddore per caso? Io qui sono perennemente raffreddato e il guaio é che a nessuno gliene importa nulla. Ho una coperta piena di buchi e ho il bagno in comune con l’equipaggio. Pensa che ci vado solo quando non c’è nessuno in vista, altrimenti mi fanno certi scherzi che non sarebbe di buon gusto…
– Già. Vedo cosa posso fare. Il guaio é che il grande Geosinclino… Sai com’é fatto, no? Poi adesso che ce la dobbiamo fare coi Kerrabbia non é il momento, capisci cosa voglio dire?
– Eh, sì , io capisco, ma…
– ALLORA SPUTO TE NE VAI O DOBBIAMO VENIRE LI’ A TIRARTI FUORI?
Ci sono due xingù all’esterno della cabina del tele-imago della “Katakomba”. Il duca si affaccia al vetro: cambia poco sapere chi è stato dei due, ma va così, ci sono cose che si fanno senza motivo.
– Uh, uh! Cosa guardi surgelato? – Urlacchia lo xingù più alto e quasi magro, con metà baffi bianchi e metà neri.
– Non lo toccare eh? Se no poi devi disinfettarti. – Dice il secondo xingù, più vecchiotto e un’aria quasi simpatica.
– STA BENE LA MAMMA? – Ulula il primo.
– TAGLIA, ABBIAMO FRETTA. – Spiega il secondo. 

 
– Li senti, Aquila? Li senti? È sempre così, ogni occasione é buona per insultarmi ed umiliarmi… –
– Cheppalle, ma quand’é che la pianta? – Esclama la verdalmata.
– Cos’hai detto? – Strepita il povero duca.
– HAI FINITO, STRONZO? IL MIO AMICO QUA È UNO CHE SI STANCA FACILE! – Urla il primo Xingù mentre il secondo comincia a battere con una moneta sulla porta della cabina.
– Fatti coraggio, resisti. UuuAAAAuuuuhhhh! –
Tari-La si è stancata di aspettare ad ha iniziato con un giochino appreso qualche giorno prima da un manuale per la felicità sessuale tra membri di specie diverse. Aquila Yo-yò riesce a stento a posare il ricevitore del tele-imago e dimentica il suo interlocutore fino alla prossima volta.
Il duca di Kroton guarda inquieto il ricevitore improvvisamente ammutolito, chiedendosi il motivo dell’urlo finale del coniglioide.
– SCEMO, LA DOCCIA È DI LA’.– Urla baffo bicolore che ha finalmente divelto la porta della cabina.
– Prego. – Pantaleone esce, ancora dignitoso, e si allontana buttandosi la sciarpetta bianca di seta sulla schiena. Prodigioso: sembra Isadora Duncan. Baffo bicromatico gli fa lo stesso dei gestacci.
– CHE PUZZA! – Commenta.
– INSOPPORTABILE. – Conferma l’altro.
Il duca di Kroton, ormai fuori tiro, li sente sghignazzare e fare altri commenti sulla sua igiene personale. Depresso si avvia verso la sua cabina, fermandosi solo per nascondersi in un incavo della parete sentendo qualcuno avvicinarsi.
– Buonasera signore. – Il robot astromeccanico passa davanti al suo nascondiglio e il duca ha un’idea.
– Robot. – Dice sottovoce.
– Prego, signore?
– Nella mia cabina ho alcune riviste, sai, quelle per progettisti di robot, quelle un po’… allegre. Ho anche qualche video di istruzioni di montaggio…
Gli occhi del robot astromeccanico si accendono di un bel rosso rubino.
– Sono di servizio. – Dice serio.
– Robot per il servizio domestico, con crestina e pettorina, il pannello aperto per riparaz…
– Dov’é la sua cabina? 
 
La vendetta di Frankenstein  

Non so voi, ma io ho sempre avuto un debole per loro, – i Robot – fin dai tempi del magnifico Robbie del “Pianeta Proibito”. 

 
Mi piaceva che fossero sempre rappresentati come creature candide, curiose e servizievoli, serie come bimbi intenti ad un tema particolarmente impegnativo, ma capaci di chissà quali riflessioni e considerazioni dentro le loro belle zucche di metallo.
Viceversa non ho mai avuto molta simpatia per gli androidi, versione perfezionata degli esseri umani, robot che hanno rinunciato alla propria sana e pulita veste metallica per calarsi nei nostri panni, ereditando anche i nostri difetti.
Singolare che anche presso i popoli ed i governi della Galassia questa sia stata l’opinione prevalente. La distinzione tra robot propriamente detto e androide, data la recente possibilità di riprogrammazione molecolare che abbiamo visto in azione per Conan, è un po’ meno salda di un tempo – questo è vero – ma chi è nato robot, robot resta in fondo all’anima anche se pornodiva, capitano di cargo stellare, gru intelligente, taxi-taxista e sostituto di padrona di casa con ospiti sgraditi.
“Ma sono intelligenti i robot, comunque programmati? Provano emozioni e sentimenti simili ai nostri?”
Sì, certo, ma bisogna tenere conto di alcune peculiarità della psicologia robotica (Robopsicologia, se il termine nato con la D.ssa Susan Calvin vi piace di più) dovute all’altrettanto peculiare psicologia del primo costruttore di robot, l’ormai famosissimo Desìo Chiamato del sistema di Porkpiehat.
Come riportano, anche con una punta di malignità, i principali testi di storia ad uso delle scuole galattiche era egli un individuo molto grasso e come spesso capita in questi casi timido, amabile e incline ad una tenue malinconia ed a una concezione elegiaca dell’esistenza.
Questa tipologia personale era acuita dalle peculiarità del suo pianeta d’origine: il freddo e solitario Lacustre, dodicesimo satellite di Giovannino Biribò, un gigante gassoso a righe orizzontali rosse e blu.
I primi turbamenti del giovane Desìo Chiamato sono legati al nome del pianeta gigante che notte e giorno occupa gran parte del cielo di Lacustre, conferendo ad ogni cosa una morbida sfumatura viola e rendendo i suoi abitanti i poeti e compositori più suggestivi e deprimenti del cosmo.
Terminata la scuola dell’obbligo il giovane Desìo era stato iscritto dai provvidi genitori ad una scuola di tipo tecnico. Pensavano di garantirgli un futuro e in un certo senso avevano ragione. Ma al povero Desìo, entrato in classe tra gli ultimi, parve di aver attraversato lo Stige per approdare ad un inferno personale.
I suoi compagni lo accolsero con sghignazzi, risatine, cachinni, belati, ululati, fischi e cartacce. Dopo pochi secondi partì un coro: “È arrivato Giovannino / Biribò – Biribò – Biribò / Troppo grasso, troppo ciccio / per entrare nel paltò.”
La mamma aveva commesso l’errore di vestirlo con un maglione a righe rosse e blu, ma forse il problema non era tutto in quel particolare, forse sarebbe bastato non arrivare per ultimo o quasi, o non guardarsi intorno intimidito o farsi scortare dalla mammina fin davanti alla porta dell’aula o chissà cos’altro. La scelta di uno zimbello in qualunque comunità è un fatto misterioso.
Seguirono alcuni tentativi di ignorare la cosa o “di prenderla con spirito” come gli suggerivano genitori ed insegnanti, ma ben presto il povero Desìo dovette rassegnarsi alla realtà: ogni suo tentativo di inserirsi nella vita sociale della classe, qualunque sforzo per valorizzare la sua immagine, per lasciar apparire la sua grande sensibilità naufragava miseramente contro quel maledetto nomignolo: Giovannino Biribò (anzi biribòbirbòbirbò, come da canzoncina), pronunciato con scherno e sufficienza dai più ricchi e sicuri di sè e con crudeltà compiaciuta dai più poveracci ed imbranati, sollevati dall’aver qualcuno messo peggio di loro con cui sfogarsi.
Dopo un anno di strazio e la composizione di una cinquantina di poesie (le celeberrime “Odi alla Disperazione solitaria”, più tardi premiate con il Calvarzio Dorato dall’Accademia Poetica di Lacustre), il giovane Desìo giunse a una conclusione definitiva: se nessuno voleva essergli amico si sarebbe procurato un amico da solo, una creatura insieme forte, sicura di sè, molto intelligente ma anche sensibile, capace di apprezzare la sua vena malinconica e disposta a condividere le sue tristi notti interrogandosi sui più profondi perchè dell’esistenza e della sofferenza.
La decisione spinse il giovane Desìo ad una carriera scolastica formidabile, culminata nella laurea in ingegneria robotica acquisita presso un ateneo prestigioso. 

 
Ormai definitivamente abbigliato con la famosa maglia a righe, provvisto di biglietti da visita con la feroce canzoncina stampata oro, sempre solo e poco amato dai colleghi di lavoro della Robotek S.p.A., che ridevano di lui (ma già con una punta di isterismo), il giovane Desìo perseguiva con determinazione assoluta il suo progetto.
Il primo prototipo, un robot alto quattro metri con cranio in ghisa, (“…Siccome la piccolezza delle parti mi ostacolava decisi di procedere alla costruzione di una creatura di dimensioni imponenti, tale da incutere timore e soggezione” scrisse nei suoi appunti di lavoro), si rivelò fondamentalmente buono, ma dotato di una mente molto semplice.
– Quale sofferenza? È tutto così bello e colorato.
Rispondeva Prototipo Uno alle osservazioni di Desìo. – Stai allegro, su. Vuoi un caffè?
Dopo alcuni tentativi di inserire un circuito di malinconica tristezza nella grande testa di Prototipo Uno, Desìo Chiamato passò senz’altro a Prototipo Due. Dovette nascondere in casa il povero Uno: la sua semplice vista determinava nei concittadini un inspiegabile isterismo e li spingeva ad organizzare grandi cacce al mostro alla luce di improvvisate fiaccole ed a parlare con un bizzarro accento gutturale.
Prototipo Due possedeva effettivamente alcune delle caratteristiche volute da Desìo, ma ahimè in un grado tale da autosmontarsi per lo sconforto dopo una conversazione di prova sulle abitudini delle Formiche Blindate di Gakkum.
Prototipo Tre, un robot di formato ragionevole, dotato di un circuito Ironico per prevenire altri spiacevoli incidenti, si rivelò ben presto creatura troppo intelligente e malevola per i gusti di Desìo. La sua irritante abitudine di intercalare le risposte con la frase: “Che megapalle Desìo, perchè non andiamo al cinema?” indusse il geniale lacustre alla progettazione di un Prototipo Definitivo.
Gettatosi nel lavoro con grande impegno, dopo aver ceduto Tre ad una stazione TV che ne fece un incisivo ed innovativo cabarettista, Desìo raggiunse il suo obiettivo in una notte di tempesta, sotto la luce viola di Giovannino Biribò schermata da grandi nubi.
– Prendi Vita mia creatura! – Urlò il grande roboticista e Definitivo aprì i grandi occhi da moscone fissandolo con timida malinconia.
– Perchè, perchè questa vita? – Furono le sue prime parole. – Perchè son io ad affrontare il grande, insondabile abisso del mondo? Son io forse vivo o son ombra di un sogno? O siamo forse noi tutti sogni che qualcun altro sogna e la nostra assurda vita non sarà forse destinata a scomparire al primo raggio di sole come illusione, come orma sulla sabbia che il vento disperde ? 

 
Il successo di Desìo fu talmente completo che ben presto tutte le principali società produttrici gli offrirono cifre iperboliche per acquisire i diritti di costruzione su Definitivo, un tipo di robot contemplativo, malinconico e grande lavoratore, esattamente ciò che i loro clienti desideravano.
Divenuto favolosamente ricco Desìo Chiamato rimase tuttavia sempre fedele all’amicizia di Definitivo, intrecciando con lui un dialogo ricco e stimolante, ben sorretto dagli ottimi piatti preparati da Uno.
Oggi i robot modello Definitivo, sono in funzione praticamente in ogni angolo della Galassia, spesso frustrati ed umiliati, obbligati ad una conversazione sciatta e banale fatta solo di ordini o di minacce, cosa che, come vedremo, può portare anche le creature più pazienti all’esasperazione.
“Temete l’ira dei miti.” È scritto.

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