Tra i commenti all'esproprio già «massacrato» da Francesco ne ho trovati alcuni che parlavano di «compagni che sbagliano»
Compagni che sbagliano? Ma «compagni» di chi o di che cosa?
È da più di vent'anni che sento pronunciare questa formuletta che, sin da allora, mi sconcerta e mi esaspera. Un errore, uno sbaglio, prevede l'opportunità di scusarsi e di ricevere un perdono. Ho visto ben poche volte, però, un «compagno che sbaglia» ammettere: «Ho fatto una castroneria» e scusarsi. Già perché rubare – di questo si tratta – è un atto illegale, punto e basta. E ritenere che esistano gradi diversi di illegalità, che esista un'illegalità «buona» e un'illegalità cattiva è come ammettere che esistano guerre «buone» e guerre cattive. Le uniche guerre «buone» non si chiamano guerre, ma lotta di liberazione. E gli «espropri proletari» non sono furti «buoni» perché nessun proletariato organizzato in rivolta ha delegato quattro pifferi ad andare a espropriare alcunché.
[…] «Veramente la distruzion de' frulloni e delle madie, la devastazion de' forni, e lo scompiglio de' fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva».
Così scriveva Alessandro Manzoni, scrittore cattolico finché volete ma capace di scrivere in un italiano elegante e preciso, raffinato e penetrante. Avercene, ora, di Alessandro Manzoni.
L'esproprio proletario alla libreria Feltrinelli di Roma mi ha fatto venire in mente proprio l'assalto ai forni de I Promessi Sposi. Lo lessi da giovane estremista extraparlamentare e, nonostante le resistenze e i dubbi, fui comunque colpito dalla descrizione puntuale di come si possa essere anche intelligentissimi da soli ma idioti in gruppo. Il "gruppo" è il capolinea della responsabilità individuale, ovvero l'eclissi della ragione. È questo a spaventarmi molto di più dell'assalto, dell'esproprio, del furto.
Non mi sento colpito, viceversa, dal fatto che si sia trattato del «sacco» di una Libreria Feltrinelli. Mi spiace per Francesco... Una Feltrinelli è una cosa diversa, molto diversa da una libreria privata come quella dove lavoro io. Ci sono libri in entrambi i casi, questo è vero, ma il criterio di scelta e l'organizzazione sono molto diversi. Questo non significa che sia bello rubare in una e nell'altra no, significa soltanto che, mentre in un Feltrinelli l'assortimento è ponderato e basato su indici di rotazione e i primi 4-5 metri quadrati della libreria sono attentamente mirati al massimo realizzo, una libreria privata presenta diseconomie e discontinuità che nascono dal cervello più o meno bacato di chi le dirige. Capita così, solo per fare un esempio, che nella libreria dove lavoro il libro della Fallaci non sia stato neppure messo in vetrina o sui tavoli perché il direttore della libreria ne ha le tasche piene delle tirate xenofobe di un ex-grande giornalista e sopporta poco anche chi si esalta a cercarla e fa commenti ad alta voce sul fatto che «Ci voleva qualcuno che gliele cantasse, a quei là». Le scatole tanto piene da rinunciare in partenza a un fatturato "facile" solo per il gusto di dimostrarsi librai diversi.
Le Feltrinelli (ma anche le FNAC, le Mondadori ecc. ecc.) sono tutte uguali. Le librerie private (se sono «libere davvero», come le radio di Finardi) sono tutte diverse. A ognuno la sua.
Non è bello criticare Feltrinelli all'indomani di un "esproprio", me ne rendo conto. Ma forse è venuto il momento di cominciare a ragionare sul fatto che Feltrinelli è diventato un semplice marchio come tanti altri. «Regola per sopravvivere», si dirà, o, forse, semplice mancanza di idee e di fantasia. Più facile allinearsi alle sacre formule delle catene librarie inglesi e americane che cercare una propria via.
Nulla di strano, poi, se si è percepiti nello stesso modo.
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