23.10.19

Il Mare Obliquo 37

Il viaggio della Goren, la nave che trasporta Usif-Lizhi e gli altri, procede in acque note ma l'assurdo e l'improbabile non hanno intenzione di abbandonarli.
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Kwister si alza abitualmente con cautela, quando la prima luce ha fatto la sua comparsa superando l'orlo del mondo. Svegliarsi di buon mattino è un'abitudine presa nella sua Marrak, un luogo rumoroso e affollato, dove i servitori cominciavano a chiacchierare sottovoce ed a fare rumore con le stoviglie quando ancora i Marran riposavano. Aveva l'abitudine di nascondersi in un angolo della grande cucina di famiglia ad ascoltare i pettegolezzi dei servi, coperto solo da una lunga tunica di lana grezza decorata nel centro del petto dal Gughen, un albero di acciaio brunito simbolo del primo Lupo-Drago. Non appena era stato in grado di parlare il fratello di sua madre gli aveva affidato quell'abito ruvido che indicava la discendenza della Marrak e molto prima di capire l'importanza di quel gesto aveva passato il tempo a grattarsi furtivamente come tutti i Duchi di Ruthen e Lö che l'avevano preceduto.
Kwister annusa l'aria mentre si veste silenziosamente nella minuscola cabina che divide con Share Harvaiun, il barone Enklu e Jai Wediliun, il mercante Syerdwin. I loro odori recenti non sono riusciti a coprire il fortissimo sentore di fiume che impregna il legno della nave, un aroma non spiacevole una volta che ci si sia fatta l'abitudine, forse troppo intenso per un lupo-drago nato e cresciuto in mezzo alla neve ma che ha il potere di ricordargli sempre, anche in sogno, di essere molto lontano dalle pietre scure della sua Marrak, che sanno di muschio e di neve sciolta.
I Gu'Hijirr hanno addosso lo stesso odore, anche Kirzil Pennarossa che pure non naviga più su un fiume da anni ed anni: questo particolare lo rende più tollerante verso quelle bizzarre creature, ciarliere, rissose e pettegole, ma anche salde, acute e determinate quando è il momento.
Una volta abbigliato il Duca Kwister scivola fuori sul ponte della nave, certo di incontrare come ogni mattina Usif-Lizhi, intento a contemplare il limite della riva reso incerto dalla luce dell'alba.
Il profilo familiare del Notturno si staglia sul colore lavanda del cielo. Kwister sa che Usif-Lizhi l'ha già udito mentre si vestiva nel silenzio della sua cabina e per un attimo si chiede che tipo di vita sia quella dei Notturni, che come piccole barche sfidano ogni giorno l'oceano dei rumori quotidiani.
– Buongiorno Duca Kwister. – Pronuncia a bassa voce Usif-Lizhi.
– Buongiorno.– Replica Kwister cercando di spegnere la propria voce da baritono in un rauco sussurro.
– Che luce singolare, non trovate? – Gli chiede affabilmente il Notturno, tanto per avviare la conversazione.
Il Lupo-drago fissa la cupola del cielo dove la luna, già pallida, sembra velarsi di nubi sottili.
– Ho già visto questa luce: fa seguito agli uragani estivi nelle terre più calde. Siamo dunque scesi tanto in basso lungo i gradini dell'Orlo del mondo?
– No. – Il Notturno ha voltato il capo per un attimo mostrando gli occhi grandi, accesi di una debole luce verde. – L'aria è frizzante ed il sole non giunge ad arrampicarsi troppo in alto nel cielo. Tra poche ore dovremmo essere in vista di Sdea. Chissà, forse gli strani fenomeni che stanno verificandosi nell'arco del mondo si riflettono nella luce dell'alba.
Kwister brontola un debole assenso, improvvisamente incupito nel ricordare il flagello cristallino che ha colpito quelle piante lungo la strada per la Rocca di Vandel.
– Voi che siete membro di una razza tanto antica, sapete trovare una spiegazione a quanto sta accadendo? – Si decide infine a chiedere il Duca.
– No. – Risponde semplicemente il Notturno. – Ho udito la spiegazione di Khude, che mi ha ricordato le leggende sui giganti di cristallo che abitavano il mondo dell'alba, ma nulla più di questo. Khude ha parlato di acqua che diventa cristallo, di ciò che è mobile che diventa immobile, di carne e sangue che divengono roccia. Questo descrive probabilmente bene ciò che sta avvenendo ma non ne dà una spiegazione.
– È come se noi tutti esseri viventi fossimo solo sogni della terra che ora si sta risvegliando…– Kwister esita per un istante mentre il ricordo si ravviva in lui. – C'era un leggenda che ho udito molto giovane sui sogni della Madre Terra. La raccontava un lupo-drago cieco insieme ad altre storie di guerre ormai dimenticate e di antichi cataclismi. La storia che raccontava non era molto diversa da ciò a cui stiamo assistendo.
– Chissà, forse non ha senso la nostra ricerca, forse il mondo si rinnova così e questo non è altro che il suo respiro, che nessuna forza al mondo può impedire.


– È possibile, certo.– Ammette il Lupo-Drago il cui sguardo è tornato a fissarsi sul colore cristallino del cielo.
– Ma forse è ugualmente giusto opporsi al destino. Khude ha detto che tanti della mia gente sono già aridi e solitari come altrettante pietre ed io ho visto i loro cuori disseccarsi e le loro labbra farsi di gesso e cartapesta, ripetendo continuamente le frasi dei nostri antenati, come se avessero fretta di divenire a loro volta polvere. Perdonatemi, Duca Kwister, ben noiosi ricordi ha risvegliato in me la nostra conversazione.
Il Lupo- Drago scuote il capo a contraddire Usif-Lizhi mentre il suo pensiero, instabile e inquieto, lo trasporta molto lontano da lì. La riva del fiume brilla leggermente come se volesse anticipare la luce solare, suscitando l'illusione di un lento volo di lucciole o di un esercito notturno dalle armi lucenti come fatte di raggi di luna. – Questa luce non sembra cambiare. – Osserva dopo un certo numero di minuti di silenzio il Notturno.
– Non vi sembra una stranezza eccessiva? – Kwister si risveglia dalle sue emozioni con un improvviso senso di allarme. Da una piccola tasca della giubba estrae un piccolo capolavoro di fabbricazione Gu'Hijirr: un piccolo cronografo meccanico che solo pochissimi tra i signori dell'Arco del Mondo possiedono.
– È già trascorsa l'alba. – Annuncia a voce bassa e tesa il Lupo-Drago. Solleva il braccio ad indicare un punto dell'orizzonte di fronte a lui.– Il sole dovrebbe essere all'incirca in quella posizione ora.
Usfi-Lizhi accogli la frase senza parlare. Fissa ancora la riva del fiume, immobile come dipinta su un fondale smisurato. – Il Cambiamento ha già visitato questi luoghi, Duca Kwister. – Dichiara infine. – Gli alberi che si specchiano nel fiume non sono già più fatti della stessa sostanza che condividono tutte le creature viventi.
Con un brivido di orrore, che non gli impedisce di cogliere la sovrumana bellezza di quella natura trasfigurata, Kwister ripone il suo cronografo e torna a guardare il gioco di luci cristalline che trascorre davanti alla nave, incerto e confuso. – Non avete la sensazione che la nostra velocità sia diminuita? – Chiede Usif-Lizhi. – Osservate l'acqua, essa sembra essersi fatta più densa, come se vi fossero sospesi innumerevoli piccoli grumi pronti ad unirsi, come avviene quando il gelo serra i fiumi.
Il Duca Kwister si sporge oltre la murata: le piccole onde create dal passaggio della nave sembrano impercettibilmente più lente e dense e più che rispecchiare la luce diafana del cielo sembrano produrne di propria, un riflesso ancora incerto, un baluginare che può essere colto solo distogliendo lo sguardo.
– Tra poco dovremmo essere in vista di Sdea. – Dice a se stesso il Duca, che non riesce a staccare gli occhi dall'acqua ed insieme prova orrore per quella visione.
Dopo un gomito nel corso del fiume la piccola città fluviale si offre ai loro sguardi. Nel frattempo il ponte si è andato affollando di passeggeri e membri dell'equipaggio: le loro voci sono basse e concentrate come se si trovassero all'interno di un tempio.
Il piccolo molo di legno al quale la Goren abitualmente attracca si avvicina lentamente, scuro e silenzioso come il resto della cittadina.
Il timoniere della nave manovra per allontanarsi: nessun rumore proviene dalle case silenziose che hanno assunto la forma definitiva e statica della roccia, dalle finestre divenute regolari aperture cieche in una parete dell'apparenza del granito, dagli alberi, simili a sculture ingioiellate per una bizzarra festa.
– Quale magia ha colpito i poveri abitanti di Sdea?– Chiede con un sussurro Oakin.
– E quale magia sovrumana allora ha spento la luce del sole? – Chiede Kirzil Pennarossa. – Chi sa rispondere a questa domanda?
– Nerthurok. – Dice Khude semplicemente, come se il semplice suono di quella parola potesse spiegare ogni cosa.
Il vecchio Oakin guarda con timore l'Uomo-Pianta. – Colpirà anche noi?
– È possibile. – A rispondere non è il Silvano ma la fata Mahaderill che guarda il bizzarro paesaggio senza mostrare né paura né sorpresa.
– Nella mia vita che certo non è troppo breve e neppure è stata vissuta seduto in un cortile non ho mai veduto una cosa simile. Chi è il mago tanto potente da spezzare in questo modo la vita di un'intera provincia?
Non vi è nessuna magia, povero Oakin. – Kirzil Pennarossa ha voltato la schiena al corso del fiume e lo fissa bene in volto, come se volesse sfidarlo. – Ho veduto altri luoghi colpiti da questa maledizione. Non senti come è diversa l'aria qui? Non senti come il suono stesso, le parole, siano più sottili, più lente ad essere udite e comprese? Fai mettere mano ai remi, presto o diverremo anche noi parte di questo suggestivo paesaggio. 

 
Il vecchio marinaio annuisce di scatto dopo un attimo di paralisi e si allontana verso il centro della nave. Il rumore dei suoi passi vibra delicatamente a lungo nell'aria. Il sole ricompare lentamente, un'ombra chiara ed indistinta che balugina lenta come velata da un vetro spesso e segnato dagli anni.
A bordo della Goren la luce del giorno viene accolta con stordimento, quasi che l'altra luce fosse divenuta per loro più naturale.
Insieme al sole ritorna un vento leggero che riporta loro l'odore del fiume, scomparso per tutte quelle ore nella sostanza vuota ed immobile del Nerthurok. Tutto il mondo e loro stessi riprendono soltanto ora a respirare, l'aria riacquista la sua sostanza lieve ed ineffabile e così le piante, l'acqua, ogni creatura vivente.
– Che saporaccio ho in bocca! Ho la sensazione che qualcuno mi abbia infine tolto dal petto una lastra di pietra. Credete forse, signora Mahaderill, che quel fenomeno stesse per afferrarci? – Chiede Share Harvaiun dopo aver sputato fuori bordo.
La fata alza lo sguardo di scatto facendo trasalire il Syerdwin. – Tiommhén ghlidi lìan audùin! – Pronuncia ad alta voce fissando gli occhi di un colore grigio acciaio in quelli del servitore.
Harvaiun si affretta ad assentire con il capo ma la fata non aspetta risposta da lui. Con un gesto rapido si copre il capo con un sottile velo di seta e si allontana verso il castello di poppa.
– Si è offesa? Cosa mi ha detto? – Chiede smarrito il Syerdwin.
– Se si sia offesa lo ignoro. Ciò che ha detto si potrebbe tradurre come: «Troppo ha lavorato il ragno» o più letteralmente «Lunghi e secchi i fili di rugiada.»
– Pregevole traduzione, messer Usif-Lizhi. Posso chiedervi dove avete imparato una lingua tanto bizzarra come quella delle fate?
– La noia, Duca Kwister, null'altro che un'immane, insostenibile noia sopportata nei miei anni di gioventù presso il Castello della mia Casa.
– Che strano, ad alcuni la noia sembra rafforzare solo se stessa, altri li rende ansiosi, quasi febbrili nel dedicarsi a mille attività diverse. Devo dire tuttavia che la prima eventualità mi è sempre parsa la più frequente.
Usif-Lizhi scuote il capo e sembra voler sorridere per l'apprezzamento cortese del Duca. Si appoggia con una mano al mancorrente lucido e consumato del ponte ed indica un punto davanti a loro.
– Gabbiani.
– Già. – Kirzil li osserva con soddisfazione. – Gabbiani vogliono dire pesce e gente che lo pesca. Ehi, della nave, qual'è la prossima città avanti a noi? –
– Chiusa Diodhann, Pennarossa. – Replica secco il marinaio, un Gu'hijirr insolitamente alto e dai gesti rapidi e nervosi. – Sempre che la troviamo ancora.
– Bisognerà avvisarli di quello che è accaduto ai loro concorrenti di Sdea, non è così Nato Berzel?
Il Gu'hijirr fa uno strano gesto con braccio, un arco lento che si conclude aprendo la mano sul torace. – Ghed'haan, Iuduk'Mappin.
Nel gruppo dei viaggiatori è il solo Jai Wediliun a ridere, mentre Kirzil fa una smorfia a metà tra il fastidio ed il divertimento.
– Non è così, Nato Berzel. Quello che sta avvenendo non arricchisce nessuno, anche a Chiusa Diodhann lo capiranno.
– Nave a dritta! – La voce della vedetta, arrampicata su una piccola piattaforma sull'albero centrale della nave interrompe la replica dell'interlocutore di Kirzil.
– Che grande nave. – L'osservazione del Barone Enklu giunge per prima a spezzare il silenzio. – Guardate l'altezza dell'albero centrale e considerate la distanza. Come può una nave siffatta navigare in questo tratto di fiume?
– È curioso. – Oakin dei Berzel di Fonteluna ha affidato il timone ad un cugino ed è salito di persona sul ponte a sincerarsi di ciò che avviene. – Conosco praticamente tutte le nave che percorrono questo tratto di fiume ma una forma come quella… Passami il cannocchiale Riaseffin.
L'anziano Gu'Hijirr fa scorrere le sezioni dello strumento e lo solleva ad altezza d'occhio. – Non ho mai visto uno della vostra razza impallidire, Mastro Oakin. Cosa avete visto in quell'arnese?
Il patriarca dei Berzel si strofina gli occhi con una smorfia come un neonato insonnolito e borbotta qualcosa tra sé. Urla alcuni ordini a raffica ai parenti ed infine volge lo sguardo verso il Lupo-Drago.
– Non lo so cosa ho visto, barone. Non posso descrivervi quella nave… Dovevo arrivare a questa età per incontrare così tante bizzarrie su questo pezzo di fiume che credevo di conoscere come le pulci del mio letto. Ma guardate, guardate voi stesso!
Enklu appoggia l'occhio sulla bocca del cannocchiale aperto. – È una nave. – Dice senza staccare gli occhi dallo strumento. – Ma ha la murata così alta da sembrare un castello galleggiante. E gli alberi sfiorano le nubi più basse. Ha un colore bianco perlaceo simile a quello delle pareti interne di un'ostrica…
– Vi è qualcuno sul ponte? – Chiede il Duca Kwister.
– Nulla e nessuno si muove. Ma se anche qualcuno cammminasse su quella nave parrebbe piccolo come una formica…
Il Lupo-Drago abbassa il cannocchiale. – Ma come può navigare un simile mostro su queste acque?
– Tornate a guardare meglio, Barone. – La voce di Oakin risuona stanca, come se le stranezze del suo fiume avessero ormai superato ogni limite di decenza. – Essa NON naviga sulle acque. 

 


15.10.19

Il Mare Obliquo 36

 
Klog, Plinio e Matushka e Basso Okme continuano il loro viaggio con il Neek, in territori inesplorati e con leggende che raccontano di olocausti avvenuti in tempi ormai lontani. Avanti, fino all'ingresso alle Foreste Sotterrate.
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Sistemati sulla grande schiena degli Ippogrifi che procedono volando per lunghi tratti, fermandosi ogni tanto per camminare, come se non sapessero ben scegliere tra le proprie due nature di uccelli e di cavalli, Klog, Plinio, Matushka e Basso Okme scendono rapidamente il crinale dei monti fino a giungere in vista della pianura.
Il cielo, spazzato da un vento frizzante, si è fatto chiaro e profondo e lontano, alla loro destra, è divenuta visibile la forma massiccia e imponente del Mahan Dwur, incappucciata di nubi come un Dio canuto, circondato da una corona di monti più bassi come guardie del corpo della Signora delle Montagne.
– Qualcuno ha mai visto la cima del Mahan Dwur? – Chiede Klog durante una breve sosta ai piedi della discesa.
Fahgön, che li appena raggiunti insieme agli altri cervi, solleva il capo dall'erba umida che cresce in folte macchie tra le alte betulle dell'altopiano e lo scuote come per scacciare una mosca particolarmente noiosa.
– No. Nessuno ha mai visto la cima del Monte-Grandirami. Non esiste aria, lassù, ho udito dire, solo il colore azzurro del cielo, sottile e leggero come seta impalpabile.
– E tu cosa sai in proposito, Gudre-Yinnu? – Insiste Klog, poco persuaso della risposta del grande cervo.
– Ben poco, Boldhovin. La mia gente lo chiama Tjuthìrin e molti sono sicuri che sulla sua invisibile cima vivano i Giudici del Mondo, coloro che un giorno pronunceranno la sentenza finale per la Grande Prova che abbiamo affrontato vivendo.
– E tu credi a questa leggenda, Neek? – Chiede con la sua espressione più seria Basso Okme.
– Purtroppo no. Credo che in cima al Tjuthìrin vi sia un'aria molto più leggera che in pianura, questo sì, perché molti grandi viaggiatori raccontano che attraversando alti passi si respira con molta difficoltà e che praticamente nulla, forse nemmeno i più piccoli tra i Fratelli Immobili, riescono a vivere a quell'altezza.
– Molto ragionevole. – Commenta Plinio. – Ma assai poco divertente. Dove sta il piacere di raccontare e di ascoltare se tutto è così chiaro e lineare?
– Credi, messer Micio? Io invece penso che ciò che possiamo vedere con i nostri occhi sia sempre molto più affascinante e sorprendente di quanto le nostre povere menti possono arrivare ad immaginare. Il mondo non è stato costruito da una mente cosciente, a parer mio, quindi anche se coerente è imprevedibile.
– Considerazione empia, ma degna di riflessione, messer Neek. Ora, per tornare alla nostra situazione, può ragguagliarci sul nostro percorso fino ai Monti dell'Orlo?
– È presto detto, mio gentile amico. Davanti a noi c'è il limite dell'altopiano, quindi la pianura, un luogo, come potrete vedere, assai poco ospitale, le Foreste Sotterrate, il grande Deserto dei Cristalli ed infine le Porte dell'Orlo.
Klog aggrotta la fronte udendo pronunciare quei nomi, forieri di un genere di avventura assai scomodo, e inghiotte un biscotto ed un sorso di latte per rassicurare il suo povero stomaco. – Naturalmente potremo attraversare luoghi tanto terribili sulla groppa dei nostri buoni Ippogrifi, nevvero?
Il Neek scuote la testa con un sorriso rammaricato.
– Mi duole deluderti, quasi-Silvano, ma Mieri ed i suoi amici non possono volare tanto a lungo da superare in volo spazi così ampi. D'altro canto l'unico luogo dove potremo trovare acqua in abbondanza, tanta da poter superare i Cristalli, è proprio nelle Foreste Sotterrate. Non hai un po' di interesse per luoghi tanto bizzarri?
Klog inghiotte a vuoto incrociando il suo sguardo con quello pacifico di Plinio. – Mi accontenterei di un racconto anche mediocre di tali bellezze. Puoi anticiparci qualcosa di quegli strani luoghi, prima di raggiungerli?
– Non vi è nulla di peggio che raffigurarsi un pericolo prima di averlo incontrato. Si diviene inquieti, rabbiosi, imprudenti e poi, dopo aver incontrato ciò che tanto si teme, il nervosismo porta a sopravvalutare o a sottovalutare i rischi. Quindi credo che dovrai attendere fino a quando non saremo proprio in faccia alle Foreste ed allora potrai decidere se spaventarti o meno.
Klog apre la bocca per protestare ma un istante prima di farlo è Fahgön a parlare. – Giusto, giustissimo, meno si sa, meno si immagina, meno si ha voglia di scappare.
Il Boldhovin si guarda intorno, cercando dal gatto o dalla volpe un sostegno alle energiche rimostranze che sta per presentare a Gudre-Yinnu, ma inutilmente: Plinio e Matushka se ne stanno silenziosi ed apparentemente addirittura distratti.
– Non mi stupisce che tu, Grandirami, faccia un simile elogio dell'ignoranza, ma da un saggio come te, Duhit-Uinn, non mi sarei mai aspettato tanto cinismo. 


– Ti sbagli, Klog, non di cinismo si tratta. Semplicemente credo che esista un limite a ciò che è sano sapere prima di vedere. Una mente non addestrata ma ricca di fantasia può costruire intere lande di terrore da poche parole.
Il Boldhovin attende qualche attimo prima di replicare, cosa che non è nelle sue abitudini ed infine si inchina leggermente. – Ti ringrazio per l'apprezzamento che hai fatto delle mie modeste capacità, Gudre-Yinnu, anche se questo non mi convince affatto. Devi avere pazienza con ma, ma io non sono un cervo e non amo che si decida anche per me. Comprendi?
– Molto, molto giusto, caro Klog. In fondo ciò che affermi discende direttamente dalle mie parole. Se non vi sono infatti né dei né giudici, nessuno ha più la tutela di nulla ed il popolo deve arrangiarsi come meglio crede, senza alcun saggio padre ad indicargli la via. Ho ben interpretato le tue parole?
Il Boldhovin guarda con una punta di sospetto il Notturno, quindi approva incerto.
– Ecco. Anch'io credo che il mondo sarebbe migliore se condotto in questo modo. Eccomi quindi pronto a raccontarti tutti gli infiniti orrori e gli spaventosi abissi che ci attendono: sei pronto ad udirmi?
Klog esita per un tratto prima di accettare. – Infiniti orrori? – Chiede poi con una sfumatura di dubbio nella voce.
– Infiniti. – Ripete il Neek.
– Beh, in fondo non ho troppa fretta di essere informato. – Dichiara dopo qualche altro secondo. – Mi basta sapere che posso contare sulla tua sincerità. Non è forse meglio levare le tende?
– Certo, certo.

Dove ci porta il Vento
Senza più chieder nulla
Del Domani e di Ieri
Senza Ricordi e Speranze
Come pallidi uccelli in volo
verso l'alba ed il mare.

Canticchia Matushka.
– Non ho mai udito quella canzone. – Commenta Klog.
– Nemmeno io. – Gli risponde la giovane Volpe.
Dopo un paio d'ore la corona di monti è ormai alle spalle e l'erba sotto di loro è scomparsa, sostituita da una vegetazione bassa e chiara, simile a muschio secco.
Dalla terra sale un debole odore speziato, simile a quello dello zenzero ed anche il cielo ha assunto una sfumatura arancio, come mai hanno veduto nelle terre amiche che stanno ormai dietro di loro.
Ogni ventina di passi un albero, scuro, sottile e dal tronco levigato, come se un esercito di falegnami fosse transitato per quello strano luogo, interrompe la monotonia del paesaggio, proiettando un'ombra allungata davanti ai loro passi.
– Sembra di camminare su un tappeto. – Osserva Plinio a metà tra divertito e perplesso. – Neppure io riesco ad udire i miei passi, come fossi divenuto un'anima incorporea.
– Ehi, Notturno, dove ci hai portato, al paradiso o all'inferno? – Sbotta Klog in capo a mezz'ora. – E poi perché obblighi tutti a camminare mentre sarebbe tanto comodo volare?
– Comodo ma pericoloso. – Ribatte paziente Gudre-Yinnu. – Qui l'aria è infida come le acque di un lago, che nascondono mulinelli e gorghi. Camminando, se si evitano le Testuggini- Drago, i Tappeti di Sangue, le Ventose, gli Scavoni, i Millegrinfie ed i Cataudici si dovrebbe arrivare alle foreste sotterrate entro stasera.
– L'aria? L'aria è più pericolosa del bestiario infernale che ci hai appena descritto? – Il Boldhovin scrolla la testa incredulo. – Non sono più tanto certo della tua saggezza, Duhit-Uinn.
Il Neek ride. – Avanti, ed attento a dove metti i piedi.
– Questo odore mi mette il mal di testa. – Osserva dopo un po' Fahgön. – Rimpiango già l'aria pulita e leggera dei miei boschi. Qualunque cosa sarà meglio di questa erba silenziosa e di questo cielo fasullo.

– Ecco. – Gudre-Yinnu, sulla sella di Mieri, si ferma di colpo ed indica alla loro sinistra un forma scura e molto lontana che si muove lentamente. – Vedete quella cosa? Si tratta di una Testuggine- Drago. Fortunatamente siamo sottovento rispetto a lei, quindi non può avvertire la nostra presenza.
Il piccolo gruppo di viaggiatori si immobilizza, lo sguardo fisso all'orizzonte, dove la possente forma dell'animale trascorre lenta come una grande macchina da guerra di re Artamiro.
– Di cosa si nutre quel formidabile animale? – Chiede con educata curiosità Basso-Okme.
– Non credo che quella belva si ponga questo genere di domande. – Ribatte tranquillo Gudre-Yinnu.
– Vale a dire?
– Tutto quello che si muove può essere un pasto gradito per una testuggine-drago.
– Capisco. – Commenta a mezza voce l'Uccello di Legno, la cui espressione diviene improvvisamente più ansiosa.
– Ma così lenta… – Inizia a dire Plinio.
– È lenta ma instancabile ed in questa piana così regolare potresti fuggire per ore ma lei finirebbe sempre per ritrovarti, una volta sulle tue tracce ed attaccarti. L'unico modo per sfuggire ad una testuggine- drago che ti abbia scorto è ucciderla.
– Uno scherzo, immagino.
Gudre-Yinnu si passa una mano guantata sulla tempia e volge lo sguardo verso l'orizzonte del colore dello zafferano: – I miei antenati correvano un tempo per queste terre, la notte, cacciando la fauna solitaria e feroce di questa pianura. E molti sono morti combattendo contro le testuggini- drago.
– Ma perché darsi tanta pena per uccidere quegli stolidi e feroci animali? – Chiede Klog, parlando a voce molto bassa, senza perdere di vista la forma che scorre lenta all'orizzonte.
– Se devo dirti tutta la verità non lo so, caro Boldhovin. Molte sono le cose che si fanno per consuetudine, molte le cose che un tempo avevano significato ed ora non l'hanno più. Il tempo non passa nello stesso modo per ogni cosa. Questo forse è il motivo per cui esistono ancora i Notturni, gli Ippogrifi, i Neek, io stesso. Siamo come foglie secche dimenticate in un angolo della corrente: la prossima piena ci trascinerà via tutti, probabilmente… No, no, così non va. Cosa sono quelle facce lunghe? Perché non mi lanciate addosso contumelie e verdure marce? Che pessima recita la mia, pomposa e patetica, presuntuosa e ridicola. Non aspettiamo ancora, amici miei, dobbiamo arrivare all'ingresso delle foreste sotterrate prima che scenda il buio.
Klog e Plinio approvano con un cenno pensoso, storditi dallo strano modo di conversare del Neek, evidentemente abituato, come tutti gli individui solitari, a dire e negare insieme, ad affermare e contraddirsi, come se l'esercizio della solitudine avesse abituato la sua mente a divenire due persone distinte, l'una melanconica e contemplativa, l'altra ironica e curiosa.
Ripartono di buon passo, adesso che che i pericoli futuri della foresta impallidiscono al confronto di quelli che li attendono nella pianura. Per un paio d'ore marciano silenziosi, occhi ed orecchie attenti ad ogni movimento o strano rumore.
Quando il sole in cielo ha da poco superato la metà del suo percorso è la volta di Fahgön di fermarsi di scatto, subito imitato dagli altri cervi.
– Abbiamo fame, ora. – Dice semplicemente il Grandirami. – E sete.
– Giusto. – Approva Gudre-Yinnu. – Ghiu trasporta una certa quantità di fieno e di acqua proprio per queste necessità di viaggio. – Il Neek si guarda intorno perplesso. – Temo tuttavia che non sia facile trovare un luogo dove riposare all'ombra.
– Il riposo non è importante. – Dichiara reciso il cervo. – E nemmeno l'ombra. La Pietragemella di Sibiell non è più custodita dagli Erbani ed il tempo per lei corre veloce. Non dobbiamo perdere troppo tempo per la nostra comodità.
Klog fa un grande cenno di assenso, congratulandosi con se stesso per non essersi lamentato. Con un moto quasi inconscio affonda la mano nella borsa a sfiorare l'incerta forma della pietragemella. Come in tutte le altre occasioni il contatto lo lascia perplesso, a chiedersi un attimo dopo se davvero ha toccato il bizzarro oggetto o no. Crolla il capo e guarda torvo verso un punto qualunque davanti a sé: non si può toccare davvero una Pietragemella, ormai dovrebbe averlo imparato.
Mangiano e bevono velocemente senza parlare e dopo una sosta molto breve ripartono.
– Questo posto è un inferno. – Commenta Matushka, un'oretta dopo. – Non esistono punti di riferimento: si potrebbe girare in tondo per giorni e giorni senza neppure accorgersene. 

 
"Chissà a quanti è già toccata una simile sorte." Si chiede Klog, fissando con attenzione le increspature del terreno, quasi dovessero nascondere cadaveri spolpati dal caldo e dalla sete, spettri gelidi e mummie dalle occhiaie vuote, desiderose di impadronirsi della loro vita, custodita come una debole fiamma nel petto.
– Ma si può sapere cos'hai detto? Ehi, mezzo-erbano, parlo con te! Il boldhovin volta il capo all'improvviso, come se l'avesse punto una vespa ed annuisce frenaticamente.
– Sì, sì certo!
– Certo cosa? – Chiede Matushka ironica.
– Gli spettri, certo, come no… Sarà pieno qui.
La piccola volpe scrolla il capo. – Io non ho parlato di spettri, né di fantasmi, né di altre ombre. Caro Klog, temo che la tua testa sia troppo piena di fantasie perché ci entri qualcos'altro.
– Non hai parlato di…
– No.
– Ma non ti sembra … Lascia perdere. Ehi, Duith-Uinn, dove siamo? –
Il Neek, che procede a piedi pochi passi davanti a Klog, affiancato da Mieri che ogni tanto sbatte nervoso le ali, non si volta neppure prima di rispondere. – Non ci siamo perduti, Boldhovin, né stiamo girando in tondo. Le foreste sotterrate sono davanti a noi: le vedremo nella luce del tramonto.
– Ehi, ma nessuno conosce una leggenda, una canzone, una storia buffa, qualsiasi cosa, insomma, per far passare il tempo mentre attraversiamo queste plaghe così noiose? – Chiede Matushka ad alta voce, passato qualche minuto. – A non parlare né ascoltare si secca il cervello.
– Hai ragione. – A risponderle è inaspettatamente Basso Okme che fino a quel momento aveva marciato silenzioso. – Io conosco una leggenda su questi luoghi.
– Bene, e allora racconta. – Lo incita Plinio.
L'uccello-di-legno esita per un attimo, guarda l'orizzonte, come a cercare un cenno di assenso e si schiarisce la voce.
– Un tempo questi luoghi non erano così caldi e secchi. Una volta, molto tempo fa, secondo una carta custodita da Kerfilluan, questo era un luogo di laghi e fiumi che portava il nome di Livi-an. L'estate era fresca e ventilata e l'inverno trasformava i fiumi ed i laghi in grandi superfici ghiacciate, dove, spinte dalle ali del vento, correvano le grandi navi-slitta a vela: le Sibias. Molte erano le città che sorgevano lungo i fiumi e sulle rive dei laghi, dove vivevano insieme in armonia Syerdwin, Lupi-Drago, Notturni, Uomini ed Erbani.
– Anch'io avevo udito una leggenda simile… – Gudre-Yinnu ha parlato d'impulso, spinto forse da un ricordo. – Scusa se ti ho interrotto Basso Okme. In uno dei tanti libri che ho letto in gioventù si raccontava di Tirihia dalle Torri di Vetro che sorgeva sui ghiacci eterni, il luogo dal quale provenivano tutte le razze del vasto Orlo del Mondo.
– Dev'esserci qualcosa di vero in queste leggende.– Osserva serio Plinio. – Non sentite? Ti-ri-hia, Li-vi-an, quasi lo stesso numero di lettere e quasi le stesse lettere.
– Già. Ma continua, Basso Okme: cos'è accaduto dopo?
– Si racconta che nacque la discordia tra le razze delle città, che si giunse alla guerra nelle città e tra le città. Le Sibias, navi sottili e veloci vennero armate e corazzate di ferro per combattere ed ovunque vi era sangue sui ghiacci. Anni ed anni durarono quelle guerre, sempre più crudeli e sanguinarie e il tempo ha coperto di polvere fino all'oblio i Signori di questi luoghi, perché più nessuno tentasse di imitarli…
– E poi? – Chiede Klog, completamente dimentico del caldo e della paura.
– E poi avvenne ciò ogni saggio temeva constatando quanto i tempi si fossero fatti barbari e crudeli. In una sola notte le città, i boschi verdi, i campi, i fiumi ed i laghi scomparvero sotto terra, come se un'immane sipario fosse stata tirato dagli dei per nascondere tanto orrore. Questo luogo prese le sembianze che adesso vedete e tutte quelle genti così empie e malvage scomparvero alla luce del sole.
– E così le foreste sotterrate…
– Proprio così Klog. Ma non so dirti quanto ci sia di vero in questa leggenda. Il libro stesso dove era scritta era tanto antico che le sue pagine avevano perduto colore e sostanza e solo Kerfilluan lo apriva di tanto in tanto, proteggendolo con un incantesimo.
– Avevo letto una versione simile di questa leggenda… – Gudre-Yinnu chiude gli occhi per concentrarsi o forse per proteggerli dalla luce del sole basso davanti a loro. – Secondo il libro dei Giorni Dimenticati dagli Dei, Tirihia era scomparsa divorata da un fuoco venuto dal cielo per bruciare la bizzarra crudeltà dei suoi abitanti.


Mentre Basso Okme aggiunge altri particolari alla sua descrizione, Klog considera con sgomento crescente che se le foreste sotterrate sono quelle che videro la luce del sole al tempo di Livi-An o Tirihia, nulla vieta che esse siano tuttora abitate da qualche discendente di quei popoli così empi, rimasto nel buio ad attendere di sfogare la sua ira millenaria contro il primo folle che fosse penetrato nel suo mondo ctonio.
– Basso Okme? – La voce del Boldhovin suona flebile e incerta quando infine si decide a dare fiato ai suoi terrori.
– Sì?
– Vi saranno ancora degli abitanti nelle foreste sotterrate?
L'Uccello-di-Legno interdetto socchiude gli occhi per riflettere, come se non avesse minimamente considerato quella possibilità.– Sinceramente lo ignoro, Klog. Non ricordo che Kerfilluan ci avesse mai detto nulla in proposito.
Ma è probabile, vero? – Si sforza di aggiungere il Boldhovin.
– Sinceramente…
– Non ti preoccupare di rispondergli, Basso Okme. – Lo interrompe il Neek. – L'ingresso alle Foreste è qui davanti a noi.
Un ampio portale di pietra adagiato obliquamente sulla terra tiepida, come se qualcuno l'avesse costruito per poi spingerlo giù come fa un bimbo stanco di un gioco, circoscrive un frammento di oscurità insondabile dal quale proviene un soffio di aria fredda e secca.
Klog annusa l'aria e fa una smorfia. – Sa di polvere e di chiuso.
Gudre-Yinnu ride. – Certo. Il ricambio d'aria è quello che è. Adesso è sufficiente entrare per sapere se vi sono superstiti di Livi-An.
– Non mi piace. Non si potrebbe aspettare il mattino per entrare, per avere l'intero giorn…
Klog si interrompe di colpo e scuote la testa.
– Già, Boldhovin. Cosa ce ne facciamo della luce del giorno laggiù? – Ride Plinio.
– Senza contare che i tappeti di sangue e gli scavoni non aspettano altro che ci addormentiamo su questa terra per saziarsi finalmente. – Aggiunge il Neek. – Allora?
– Andiamo.

6.10.19

Il Mare Oblliquo 35

Avere a che fare con Andòden non è cosa da tutti. Ma oltre che creare problemi lo specchio può aiutare Teardraet a risolverli…
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Seduto davanti alla superficie lucida di Andòden, Teardreat passa più volte la lampada davanti ad esso senza che lo specchio rimandi neppure un raggio di luce. È un giochetto che ha già fatto migliaia di volte, capace ogni volta, tuttavia, di dargli un lieve senso di allarme.
Eppure in altri momenti Andòden è in grado di comportarsi come uno specchio qualunque, rimandando l'immagine di lui e degli altri oggetti della stanza. «O almeno di fingere di farlo.» Pensa Teardraet, che molte volte ha provato il desiderio di porre un altro specchio davanti a quello, come si diceva avesse fatto Aran il Negromante per essere assunto al Cielo Superiore.
«Superstizioni patetiche.» Decide Teardraet alzandosi per raggiungere il tavolo sul quale è aperto il grosso volume che stava leggendo all'arrivo dei musici.
Il libro è aperto su una pagina dove un disegno tracciato con lunghe linee del colore della cenere mostra le rotte del Mare Obliquo percorse dalla nave di un antico Notturno, Gujdu-Ithri. Il Conte-Mago di Baran e Verhida percorre con un dito l'intreccio di linee che lo porta oltre l'Orlo del Mondo, fino alla Scogliera delle Nubi ed al Mare-di-Vapore, dove la linea tracciata dal Notturno si piega indietro, verso un gruppo di Isole rotonde come cerchi tracciati con un compasso.
Teardreat sorride e scuote il capo perplesso. Il Libro di Gujdu-Ithri è da sempre considerato una strana fiaba raccontata da un Notturno eccentrico, amante delle acque e dei viaggi, a differenza dei suoi simili. La pagina è incorniciata da frasi nella lingua antica dei Notturni, vergate nello stesso inchiostro grigio.
Teardret le legge facilmente, ma questo non significa che ne comprenda fino in fondo il senso.
Gujdu-Ithri parla spesso di Via Maestra e di un mare più ampio sorretto da un Orlo più lontano. Ma è difficile distinguere ciò che l'antico scrittore ha scritto di proprio pugno da ciò che si è limitato a riferire attingendo dalle innumerevoli leggende del suo popolo.
Il libro di Gujdu-Ithri non ha mai avuto traduzione nella lingua degli Uomini o dei Syerdwin e l'autore, poco amato dal suo stesso popolo è un assoluto sconosciuto per le altre genti dell'Orlo del Mondo. 

 
Con la mano coperta da un guanto di seta bianca Teardreat volta la pagina per proseguire la lettura. «…Innumerabili sono i gradi dell'imperfezione. La materia tende sempre a scendere da un grado di imperfezione minore ad uno maggiore così come un paiolo levato da un caminetto diverrà più freddo e meno utile… Allo stesso modo si comporta il nostro corpo ed il nostro intelletto che più facilmente si indirizza verso ciò che è più evidente, percorrendo la via più semplice mentre a fatica si inerpica sulla via che sale verso la saggezza…»
Il Conte-Mago sorride divertito dello strano argomentare dell'Antico Notturno. Non era abitudine dei saggi Syerdwyn o Umani cercare conforto ai propri ragionamenti in fenomeni fisici banali o tratti dalla realtà di ogni giorno. Molto più comune era riferirsi al Libro dei Cicli ed al suo alto insegnamento per dispensare una saggezza vuota e uguale a se stessa da centinaia di anni. Questo pensiero, anche se non nuovo, lo scuote con nuova singolare forza. «Da centinaia di anni… E se fosse così per sempre, ogni ciclo uguale al precedente, infinitamente per anni e anni e anni…Come una commedia composta da un solo atto che si ripete sempre uguale cambiando appena i costumi, i fondali, le luci?»
Distrattamente il Conte-Mago sfoglia le pagine del Libro di Gujdu-Ithri, soffermandosi solo per ammirare il bestiario degli animali incontrati sulle bizzarre isole rotonde del Mare Obliquo: i Coralli di Luna, i Serpenti Nani, i Cervi dalle corna a forma di croce, le Tartuche con il piastrone irto di spine, i Cavalli- Orsi, grossi, irsuti ed irascibili e le Aquile d'acqua, capaci di affondare una nave con un semplice colpo del formidabile becco rostrato.
Teardraet sorride. In ogni racconto di viaggio c'è sempre la descrizione di animali terribili, capaci di uccidere il narratore, che miracolosamente sembra esservi salvato. Gujdu- Ithri pur avendo scritto un libro unico nel suo genere non è sfuggito a quella regola.
Il Conte-Mago continua la sua lettura sempre più svogliatamente, assalito ed a poco poco vinto dall'unica nemica che ha imparato a temere: la Noia. Giunge alla fine del libro affrettatamente, di malagrazia, come per poter dire alla fine «L'ho letto.». Oltre l'ultima pagina, dove è stampata come di regola una breve nota dell'Autore per ringraziare i cortesi lettori, rimane solo una pagina liscia e giallastra che ricopre la rilegatura.
Su quella superficie ultima qualcuno che ha letto il libro prima di lui ha vergato alcune righe in un inchiostro che il tempo ha reso del colore della muffa. Teardret avvicina la lampada per decifrare quei segni, simili alle tracce senza senso che si fanno con la punta della penna per ripulirla da un'impurità dell'inchiostro. Il Moeld passa alcuni secondi ad osservarli, inspiegabilmente sicuro che essi debbano avere un qualche senso e che un motivo grave ed urgente abbia spinto l'ignoto lettore a tracciarli.
Dopo pochi minuti di osservazione Teardraet giunge alla conclusione che quei caratteri non fanno parte di nessuna delle lingue che abbia incontrato o letto nel corso della sua non breve vita. 
 
«Certo non sono stati scritti preoccupandosi della bella calligrafia. Probabilmente sono semplici note frettolose, appunti, considerazioni di nessuna importanza per nessuno.» Ragiona tra sé il Conte-Mago, la cui mente esercitata non cessa tuttavia di indagare quelle poche righe cercando tra esse un segno riconoscibile, un carattere, qualcosa che faccia scattare in lui il ricordo.
Decide di accendere la lampada più grande, posta subito sopra Andòden, lo Specchio, e si avvicina tenendo in mano il libro e rovesciandolo leggermente, perché la luce vi cada sopra meglio. Nulla, quei segni continuano a non avere alcun senso intelleggibile. Irritato Teardraet alza il capo di scatto riconoscendo il proprio volto riflesso nella superficie lucida dello Specchio. Scuote la testa mormorando alla sua immagine:«Sono scarabocchi senza importanza.»
Per tutta risposta il suo riflesso fa un gesto con il capo come per approvare. Teardret sorride, ormai abituato al bizzarro umorismo dello Specchio ed alza l'ala del grosso volume per chiuderlo. Quel movimento rapido provoca in lui la strana sensazione di aver appena letto una parola che fino ad un attimo prima la sua mente non aveva mai neppure immaginato, la parola «Maguedhonne».
Interdetto si immobilizza per un istante, il libro stretto in mano. La sua immagine nello Specchio sorride stupidamente, lo sguardo perso nel vuoto.
Ubbedendo ad un impulso improvviso Teardraet alza il grosso volume ponendolo proprio di fronte ad Andòden.
La superficie dello Specchio reagisce facendosi opaca e grigia come la sabbia del letto di un fiume attraversato da piccole onde. «Andòden» mormora il Conte-Mago. L'immagine si sfoca e si oscura mentre Teardraet continua a tenere ben aperto davanti a Lui il Libro. «Rivela, Andòden.» Gli intima a bassa voce. Le parole scritte rovesciate ed invertite appaiono poco per volta sulla superficie dello Specchio, vergate nell'antichissima grafia dei Lontani Primi.