16.6.19

Il Mare Obliquo 16

Dopo la faticosa lotta, Klog il boldhovin e i suoi amici si riposano in una locanda poco frequentata ma che gli abitanti del bosco di Canddermyn conoscono molto bene. È il momento per conoscere le gwellyniun e per ascoltare una storia dimenticata.
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 – Ma come sono le fate? Intendo dire nella loro vita di tutti i giorni, cosa pensano, sognano, desiderano?
Il boccone che pacificamente stava compiendo il suo tragitto diretto alla bocca del boldhovin si ferma a mezz'aria ed il proprietario della mano che lo sorregge insieme alla forchetta sgrana gli occhi verso il suo interlocutore. – Sul mio onore questa è una ben strana domanda, Basso Okme. Non conosci forse Sibiell ed i suoi amici seduti qui alla nostra tavola?
L'Uccello-di-Legno si stringe nelle spalle con un buffo movimento a singhiozzo. – Non posso dire di conoscere bene Sibiell. Nessuno può mai vedere una fata se non quando è ella stessa a decidere di mostrarsi e nulla si sa di loro se non quanto sono loro stesse a dire. Una fata è una creatura volubile e bizzarra come la brezza vespertina e nessuno riesce mai ad indurla a discorrere dello stesso argomento per più di pochi minuti.
– È vero. – Conferma Matushka nella sua veste originale, seduta sul tavolo davanti ad una scodella di zuppa. – Sibiell è matta come tutte le sue simili, anche se è molto gentile con noi due che chiama i suoi familiari. Io sinceramente non credo che faccia altro che cantare, danzare, intrecciare amori con i Silvani, raccontare storie meravigliose, comporre ghirlande ed altri oggetti fragili ed inutili e bere tisane parlando delle doti dei suoi amanti con altre fate.
– Matushka! – Insorge Plinio, acciambellato su una vecchia poltrona davanti al caminetto. – Le fate come Sibiell hanno una quantità di compiti che noi ignoriamo, doveri, responsabilità, tristi pensieri…
– Quali per esempio? – Lo interrompe Basso Okme.
– Beh, ecco… Ora di preciso non saprei dire, ma senza dubbio… Insomma avranno qualcosa di cui preoccuparsi anche loro come tutti no?
– Risposta insufficiente. Per quanto ne so la parola «preoccupazione» non esiste tra le fate, proprio nel suo senso di «occuparsi prima» o ha un significato molto diverso.
– Hai ragione Basso Okme. – Interviene Matushka – Non ho mai visto Sibiell affannata o nervosa o appunto, «preoccupata». Ma perché non lasciate parlare Klog, che è l'unico di noi ad avere una conoscenza approfondita delle fate?
Klog che nel frattempo sta ricevendo dalle mani dell'oste la seconda scodella di patate arrostite nel fuoco del caminetto e profumate con ginepro, erba cipollina, scalogno e rosmarino, sussulta come uno scolaro pizzicato dal maestro e guarda accorato le sue adorate patate.
– Non voglio essere scortese, miei cari amici, ma si tratta di una ben lunga chiacchierata e temo che di essa avrebbero a soffrirne queste meravigliose patate. Non potremmo rimandare al termine della cena?
– Vergogna, Klog. La metà della bellezza di una cena in compagnia sta nel conversare e l'altra metà sta nell'ascoltare la piacevole conversazione. Se ne deduce che le tue patate non esistono. Quindi puoi parlare senza remore.
Il boldhovin guarda con dispetto l'uccello di legno ed annusa la scodella. – Non esistono, eh, vecchio uccellaccio? Magari per te che al posto dello stomaco hai ragnatele e polvere, ma per me che ho sconfitto i temibili Syerdwin… Va bene la smetto. Allora, come tutti sapete le Gwellyniuin sono creature di aria, nate dal vento, dai fiori e dalla rugiada o almeno così si racconta. Mia madre Armelinda non mi ha mai fornito schiarimenti su questo né io ne ho mai chiesti. In realtà devo ammettere che mia madre non ha mai dedicato alla mia educazione neppure un pensiero. Se volevo potevo seguirla altrimenti ero libero di andare dove desideravo. Una condizione ben graziosa per chiunque soffra per una madre troppo apprensiva e soffocante, ma alla fin fine ben strana. È sconcertante chiedere alla propria madre. «Posso arrampicarmi su quell'albero altissimo e penzolarmi giù come una scimmia?» sentendosi rispondere: «Certo», oppure «Posso attraversare a cavalcioni su un tronco quel corso d'acqua impetuoso?» ed avere per risposta:«Ti prego, Klog, non annoiarmi con queste piccole faccende. Fai ciò che vuoi.»
Allora, quando le gwellyniuin e le altre creature del bosco mi chiamavano «pelosino» mi sono spesso sentito molto solo ed abbandonato, tanto che mi era passato il desiderio di fare tutte le sciocchezze che fa qualunque cucciolo. Stavo seduto su un vecchio albero, imbronciato, a tirare pigne in testa a tutti quelli che passavano ed a fare domande ad un vecchio tasso che abitava in un buco nella corteccia… 

 
– Un tasso! Io odio i tassi, sono così stupidi, pedestri, invadenti, goffi e incivili! – Si intromette Matushka. – Parlano solo per dire cose banali come «passami il sale», «fatti in là» oppure «oggi pioverà». Io non perderei nemmeno un minuto per parlare con un tasso. Sì, lo so, nessuno ha chiesto il mio parere, ma ci tenevo che sapeste quanto valgono i tassi, ecco.
– Grazie, Matushka. Puoi riprendere ora Klog? – Commenta Plinio con un lungo sospiro.
Il boldhovin che ha approfittato dell'interruzione per riempirsi la bocca di patate, beve un lungo sorso di birra e guarda tristemente la sua scodella.
– Beh, era molto interessante ciò che diceva Matushka. Io comunque non ho detto che il tasso mi rispondesse volentieri, ho solo detto che gli parlavo. Il più delle volte Grial, questo era il suo nome, mi ignorava o sbuffava come una teiera e solo di tanto in tanto mi rispondeva con strane frasi che mi obbligavano a ponzare per delle ore. Una volta gli ho chiesto «Ma è giusto che le Gwellyniuin ignorino così la sorte di noi pelosini?» Ed egli mi ha risposto: «Solo chi non è contento di se stesso fa continuamente domande stupide.» In quell'occasione ho pensato per tre giorni di seguito senza più parlare né con Grial né con nessun altro. Credo che questo fosse il suo scopo, tutto sommato, ma i suoi indovinelli mi hanno fatto bene. In capo a tre giorni avevo trovato la risposta alla mia stessa domanda ed era una ben strana risposta… Scusate.
Il Boldhovin si china sulla sua scodella mentre Edalan l'oste versa birra e latte nelle scodelle di tutti, fatta eccezione per Basso Okme, Bariton'Onodio e Maestro Selestin che non vivono di cibo materiale ma di musica e riflessioni profonde.
– Dicevo: la risposta era ben strana un po' perché credo fosse la prima riflessione vera che facevo un po' perché riguardava la natura stessa delle Gwellyniuin. Molte volte avevo avuto prove del fatto che la Fata Armelinda mi amava, un po' per i suoi baci, un po' perchè mi stringeva al suo petto che sapeva di fiori, d'erba e di vento e giocava con me come una bimba, un po', infine, perché non mancava di farmi raccomandazioni o raccontarmi delle strane cose che vivevano e soffrivano nel grande arco del mondo. Ecco il fatto è che le fate sono creature del Vento e come il loro padre non hanno casa né confini, qualcosa da conquistare o qualcosa da perdere. Esse passano, come ogni cosa di questo mondo senza preoccuparsi di lasciare un segno, un ricordo, senza costruire né distruggere, senza fare del male e senza fare del bene. La loro mente non si ingombra di progetti né di ricordi: esse sono il Presente e anche quando fingono di parlare del Futuro o del Passato lo fanno solo per assaporare il momento nel quale parlano o ascoltano. I loro discorsi non hanno inizio né fine e non vanno in nessuna direzione, sono fatti per incantare e divertire, per stupire e per giocare. Nella loro lingua non esistono parole come «dovere» o «obbligo», ma nemmeno «dubbio» o «rimorso». Quando ho capito questo, ed ero un pelosino non più tanto piccolo, ho provato un grande affetto per mia madre Armelinda che non ha mai cercato di rendermi diverso da come sono, non ha mai cercato di guidare le mie emozioni né i miei pensieri, lasciandomi libero come nessun'altra madre avrebbe saputo fare. 

 
– Scusatemi ma è un ben strano modo di amare, questo, messer Klog. – L'oste Edalan sedutosi al loro tavolo, l'unico occupato nella «Locanda della Felce d'Argento», ride e solleva la caraffa per versargli altra birra. – Mia madre, Donna Leonora di Ranvessel, era più prodiga di sberle che di parole con me, eppure non credo di essere venuto su particolarmente male ed ora ringrazio e benedico la sua mano ossuta e legnosa che mi ha insegnato i doveri, gli obblighi e quanto serve a fare di un ragazzo un uomo. Scusatemi, ma penso che se voi siete una creatura di cuore nobile e di mente agile questo si debba alla vostra indole e non al luogo dove siete nato e cresciuto.
L'oste è un uomo grande come un lupo-drago, dai capelli color del miele e dalla barba folta di una sfumatura di un colore leggermente più scuro. Ha occhi grigi come una mattino nebbioso e qualcosa nel suo passo, nel suo modo di muoversi e di sorridere sprigiona un'istintiva simpatia e fiducia, evoca la quiete di una serata trascorsa a chiacchierare davanti al caminetto mentre fuori il vento e la neve scuotono la terra. Klog annuisce educatamente alle sue frasi, cercando di capire se il dubbio che l'ha colto dal momento in cui ha visto per la prima volta l'oste corrisponda alla realtà oppure no.
– Non posso negare che vi sia del giusto nel vostro discorso Mastro Edalan, ma non è detto che si debbano percorrere le stesse strade per giungere nello stesso luogo. La natura di mia madre era quella che ho appena descritto, simile a quella di tutte le altre fate che ho conosciuto. Se esse nascano così o lo diventino stando con le altre gwellyniuin non saprei dirlo. So di fate che finiscono con l'invecchiare vivendo con le altre creature, che divengono amare e maligne e dimenticano la loro lingua, imparando a pensare con quella dei Syerdwin o degli Uomini. Questo dimostrerebbe che la loro natura non è così definitiva come sembra, cosa in fondo vera per noi tutti. Io ho quasi dimenticato la loro lingua, che ahimè non serve nel mondo dei re e dei mendicanti. A che pro dire «Le tue parole disegnano un lungo, tiepido momento, simile al colore del tuo diadema di petali e di profumo.» Così non parlano neppure gli artisti, tra la gente.
– Disegnare, «durwaldee». – Interviene Maestro Selestin. – È uno dei pochi verbi delle Gwellyniun, ho sentito dire. Esse non hanno quasi verbi, non vogliono mai, ma assistono, guardano e giocano. Se solo potessi trasformare in musica la loro lingua sarei il musicista più felice del mondo e tutti verrebbero ai nostri concerti per provare la felice singolarità di ogni momento, che adesso ingoiamo di fretta, senza appetito e senza piacere.
– Tu sei un vero saggio, Maestro Selestin, e la tua musica possiede già questo dono. – Edalan solleva la coppa ed indica l'anziano uccello-di-legno. – Io bevo al migliore dei musicisti ed al più saggio degli uccelli. Chi è d'accordo con me beva, altrimenti affoghi.
Come un sol uomo tutta la numerosa compagnia alza la coppa o tuffa il muso in una ciotola per festeggiare a gran voce Selestin e persino gli altri due uccelli-di-legno presenti fingono di bere per onorare il loro maestro
– Bene! E adesso che abbiamo giustamente festeggiato il così degno Selestin vorrei chiedere agli altri se il racconto di Klog ha esaurito l'argomento o no. – Continua l'oste. – Se qualcun altro ha qualcosa da aggiungere lo faccia subito: la notte è ancora giovane.
– Io mi ritengo soddisfatto. – Dice Basso Okme. – Sibiell e le altre fate non avrebbero potuto essere meglio descritte di come il boldhovin ha fatto parlando di sua madre Armelinda. Le gwellyniuin hanno il dono della felice inconsapevolezza che è comune al pazzo come al saggio. Se il mondo dovesse perderle sarebbe una ben grave perdita.
– È vero. Le fate amano senza chiedere in cambio nulla, senza pretendere nulla, senza gelosia e senza dolore e insieme non sono di nessuno, nessuno le possiede. Un po' come noi gatti.
Chiunque conosca un poco i gatti sa quando stanno sorridendo ed in quel momento Plinio sta proprio sorridendo, la pancia piena e la groppa riscaldata dal fuoco.
Klog approva e si volta verso Edalan, aspettandosi di incontrare il suo sguardo pieno di calore e di simpatia. Ma l'oste si è rabbuiato, i suoi occhi si sono fatti remoti e inespressivi, come se cercassero di celare violente emozioni.  


– È assolutamente vero, Plinio, e rendo omaggio al tuo acume ed alla tua sfacciataggine. Ma le tue parole mi hanno ricordato una storia così antica che dubito che qualcuno qui abbia mai sentito…
Anche se voce di Edalan suona allegra e potente come sempre Klog avverte in essa un'incrinatura sottile, come un cristallo che abbia perduto la sua leggerezza.
– Racconta, racconta! – Lo scongiura Matushka. – Le tue storie sono sempre così affascinanti.
– In questo caso mi duole di non ricordare una storia più allegra, ma anche di queste storie è fatta la vita. Un tempo, non lontano da qui, viveva un potente mago. Il suo nome era Holmen il Luminoso ed egli era giovane allegro e tanto abile dall'essere divenuto mago ad un'età nella quale la maggior parte degli apprendisti stanno ancora faticando tra provette, alambicchi ed antichi volumi. Il suo maestro era un mago anziano, poco noto, di nome Lanneberd. In quel tempo il seme dei Notturni non si era ancora indebolito ed egli era un Neek, cioè il figlio di un Notturno e di una donna umana. La magia dei Notturni è la più potente e la più segreta del mondo, ma il suo maestro la conosceva in buona parte, come era costume per i Neek che, seppure già molto meno numerosi che nei tempi antichi, erano ancora forti e possedevano terre e castelli. Holmen, addestrato di nascosto alla potente magia dei Notturni, era ben presto divenuto uno dei maghi più richiesti e più amati nel vasto arco del mondo. I Syerdwin, i Gu'Hijirr, gli Uomini, i Lupi-Drago lo conoscevano e lo stimavano ed i loro Re e Signori lo chiamavano nei quattro angoli del mondo per salvare raccolti, catturare rari animali, togliere fatture di maleficio, curare i mali della mente e del corpo, conquistare il cuore di fanciulle o liberarsi di amanti divenuti sciocchi e noiosi. Non aveva mai il tempo neppure di riposare Holmen e soprattutto non aveva più il tempo per riflettere, meditare. Giovane, potente, ricco, sicuro di sé, egli era l'incarnazione della buona sorte, della fortuna e tanto aveva udito ringraziamenti e benedizioni che la sua stessa non comune intelligenza non riusciva più a tener dietro alla vanità ed alla sicumera. Poi un giorno, al culmine della potenza e della fama, mentre si allontanava dalla Foresta Sacra di Anndhuil, dove era stato eletto dagli altri maghi nel Settimo Segreto della loro Gilda, una carica che mai nessuno della sua età aveva ricoperto a memoria del Mondo, incontrò una povera creatura, un bimbo d'uomo che piangeva desolato appoggiato ad un albero.
«Che hai, bimbo?» Egli chiese, ma il piccolo non rispondeva. Poi, con infinita pazienza lo indusse a confidarsi ed il bimbo gli disse che sua madre adottiva, una Gwellyniuin, stava morendo. La sofferenza delle fate era un fenomeno bizzarro e singolare, talmente unico che Holmen sentì che quell'incontro era una sorta di sfida che il destino metteva sulla sua strada, un sigillo alla sua grandezza che credeva senza limiti.
Seguendo il bimbo giunse alla casa della fata e la trovò adagiata su un letto di petali di fiori e di teneri germogli, con gli occhi chiusi, pallida come la morte stessa. Non era la prima volta che incontrava una fata, ma quella era di una bellezza talmente abbagliante e perfetta che Holmen cadde innamorato di lei senza speranza e senza memoria di altre donna conosciute prima. La fata si svegliò dopo pochi attimi, avvertendo la sua presenza e gli sorrise. «Buongiorno, mago Holmen.» Disse e quelle parole, pronunciate dalla labbra esangui della fata, simili a petali di rosa bianca, furono il lucchetto che chiuse per sempre la serratura del cuore del Mago. Holmen non avrebbe mai più potuto innamorarsi di un'altra creatura in questa o in un'altra vita. Senza perdere tempo egli estrasse dalla sua borsa magica tutti i suoi strumenti e le sue pozioni, anzi, fece di più: fece divenire la sua borsa una porta che si apriva sul suo laboratorio in modo da poter disporre di quanto gli serviva e si mise al lavoro. Il bimbo, orfano di due boscaioli che vivevano ai bordi della foresta si mise immediatamente al suo servizio e Holmen non ci mise molto a capire cosa avesse fatto ammalare Loredil la Gwellyniun. Ella era preoccupata, semplicemente preoccupata per la sorte di quel povero bimbo ed il pensiero del suo futuro in un mondo che non aveva pietà dei bambini. Ella aveva fatto violenza alla sua natura per prenderlo con sé ed ancor più ne faceva preoccupandosi del suo destino. D'altro canto il bimbo, di nome Eld, non aveva mai avuto una madre così bella, allegra, fantasiosa, capace di raccontare fiabe così meravigliose e rispondeva con tutto il suo affetto a tanta attenzione. Il problema non era facile, come si vede. Holmen avrebbe potuto ridare la salute alla fata solo allontanando da lei il bimbo, ma così facendo avrebbe spezzato il cuore di entrambi e non avrebbe mai potuto ricevere l'amore della fata. 


 
– Bel problema, non c'è dubbio. – Osserva Bariton'Onodio. – Perlomeno all'altezza della sua abilità.
– Infatti. Ma per quanto si scervellasse Holmen non riusciva a trovare soluzioni ed il bimbo, vedendolo tanto prodigarsi aveva preso ad amarlo come un padre, rendendogli impossibile allontanarlo da lì per salvare la vita di Loredil. La sua amata tuttavia, forse per le sue cure o meglio per i motivi che fra poco vi dirò, sembrava migliorare, sia pure debolmente. Lentamente i suoi occhi riprendevano lucentezza, il suo incarnato colore, le sue membra forza. Nel vedere che i suoi rimedi avevano qualche effetto Holmen prese a prodigarsi anche più di prima e Loredil ogni giorno sembrava stare meglio del giorno precedente. L'unico neo della cosa era che ella ora trattava con distrazione e senza attenzione il piccolo Eld, che sempre più spesso trascorreva il suo tempo con Holmen. D'altro canto anche verso il mago il suo atteggiamento era cambiato. Ora ella rideva spesso della sua serietà, lo canzonava quando egli parlava d'amore, raccoglieva fiori e sorrideva senza rispondere quando lui le apriva il suo cuore per descrivere i suoi sentimenti. Holmen continuava, perplesso a somministrare alla fata le sue pozioni, ma qualcosa in lui si era come spezzato: il sorriso con cui lei l'aveva accolto non era mai più tornato sul suo volto ed ora gli tornava alla mente ogni istante, egli lo paragonava ai sorrisi distratti o buffi che ora lei gli indirizzava ed ogni volta era come se una freccia si piantasse nel suo cuore. I suoi sonni si fecero agitati, dolorosi e i risvegli rabbiosi e cupi. Giunse ad odiare la sua levità, le sue piccole vanità, il suo infantile ridere di ogni piccola cosa ed egli divenne geloso di ogni momento che ella viveva da sola. A tratti sul volto di lei si accendeva nuovamente quel sorriso e quello sguardo ed in quei momenti Holmen ridiventava l'uomo più felice del mondo, ma quei momenti duravano poco perché egli non si saziava mai di quei pochi istanti e cercava disperatamente nuove conferme del suo amore che la fata, distratta e immemore, non poteva dargli.
– Ma come poteva ignorare così la natura delle fate? Tutti gli uomini sanno che innamorarsi di una gwellyniuin è una follia.
– È vero, Klog. Ma Holmen pensava di essere il migliore degli uomini. Ma la sua superbia fu anche la punizione di se stessa, come vedrete. Un giorno che era nel suo laboratorio in compagnia del piccolo Eld, divenuto suo allievo, Holmen decise di andare a trovare la fata di sorpresa per portarle una pietra di opale che gli era costata molto lavoro e molta fatica. Prese per la porta magica che univa il suo laboratorio alla casa della fata e, emozionato al pensiero di quanto lei avrebbe gradito quel regalo, la oltrepassò senza annunciarsi. Oltre la porta magica la bella Loredil giaceva tra le braccia di un Erbano, ridendo ed accarezzandone il volto legnoso. Quando vide il mago ella lo salutò con il consueto sorriso e pronunciò il nome del Silvano. In quel momento tutto il mondo di Holmen si spezzò come si spezza uno specchio. Egli prese a urlare ed a minacciare, gettò la pietra di opale contro il muro, spezzandola in mille frammenti di ogni colore, mentre la sua mente lavorava furiosamente cercando una formula che gli desse la vendetta più crudele e orribile. Ma le altre fate percepite le sue emozioni intervennero e cancellarono parte della sua memoria con un antico sortilegio. Egli, stupito, imbarazzato, si trovò improvvisamente al cospetto di una coppia innamorata nella più imbarazzante e inopportuna delle situazioni. Si scusò con i due, prese con sé Eld, che aveva assistito alla scena in silenzio, oltrepassò la porta magica e la chiuse per sempre. Da quel momento, senza nemmeno sapere il perché egli cessò di frequentare il mondo, scomparve con la sua magia nascondendosi in un'antica foresta e solo nei sogni, confuso e strano, egli vide ancora il sorriso della fata che aveva voluto possedere e a quella vista nei sogni seguiva sempre una sensazione di vergogna e di dolore. 

 
– Una ben triste storia, Mastro Edalan, però perfettamente adeguata alla nostra conversazione precedente. Sapete se ora quell'uomo vive ancora, sapete se è felice, se ha trovato pace?
– Pace… Beh in un certo senso sì, Messer Klog. La sua magia ora serve a rendere la gente amica, a rendere più felice il soggiorno nella sua locanda, talmente nascosta ed appartata che ben pochi la frequentano.
– Capisco, Mastro Edalan. Certo una leggera magia in certi luoghi o in certi volti non si può ignorare. Sapete anche quale fu la sorte del giovane Eld?
– Il suo nome adesso è Sealghan, il grande evocatore al servizio di Re Barstodesch.– Sorride l'oste. – Una bella riuscita per un'orfano.
– Permettetemi di bere alla vostra salute, allora, per festeggiare una così degna fine della vostra storia.
– Alla vostra, Messer Klog ed a tutti coloro che hanno udito questa storia così istruttiva, dovunque essi siano.

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