29.9.10

Oro!


È un po' difficile riprendere a scrivere sul questo blog quando si ha la sensazione che le cose stiano correndo troppo velocemente, che la situazione precipiti con una rapidità inattesa.
Esagero?
Me lo auguro.
Ma il problema è la sensazione che ogni giorno le cose slittino senza ritorno verso un gradino più basso.
Provate a ripensare a ciò che riempie i giornali ogni giorno.
Agli insulti a un'etnia o a un popolo, che siano i «porci» romani o i «ladri» Rom.
Alle insinuazioni sul possesso o meno di una casa.
Ai deputati pagati perché passino dall'altra parte.
Alle rovine de L'Aquila che tali rimarranno, a quanto pare, a lungo.
Alla scuola deturpata dai ridicoli simboli leghisti. Detto per inciso la svastica nazista aveva una storia molto più ricca e una grafica decisamente più notevole di un risibile fiorellino da esercizio con il compasso.
Al cemento che avanza, agli omosessuali picchiati, alle donne vendute ai sessanta-settantenni cocainomani, alle tangenti proprie e improprie... e mi fermo qui.
Tutte cose che in altri tempi avrebbero suscitato furiose esistenze, vivaci polemiche, rabbie che sarebbero esplose per le strade e in TV.
Ma non ora.
Ora non più.
Ci abituiamo. Chiniamo la testa.
«Con la testa vuota si annuisce meglio», come ha scritto qualcuno su uno striscione affisso sul retro della facoltà di fisica.
Con la testa vuota, si può aggiungere, e il portafoglio pure.
L'ha scritto di recente l'IRES-Cgil. Negli ultimi dieci anni gli stipendi dei dipendenti sono diminuiti di 5.000 e passa euro.
E così sorge la necessità di fare cassa. Di vendere i beni di famiglia, raggranellando qualcosina per spese impreviste. Vendersi l'oro.
Vicino a dove abito - quartiere di civile abitazione, zona Nizza - hanno aperto di recente tre negozi specializzati nell'acquisto di oro. Tre, in un quadrato di 200 m2 di lato.
L'oro si è molto rivalutato, di recente, causa crisi economica. Commerciare in oro conviene, molto di più di quanto convenga venderlo.
Cosa metterà la gente nei cassetti svuotati, nei piccoli , nascosti anfratti, nei miniscrigni dove conservava l'orologio d'oro ricevuto dal nonno nel giorno della comunione o la collanina ricevuta dalla zia per il proprio compleanno?
Altro denaro che passa di mano, dal moribondo ceto medio alla classe di neofeudatari che ha comprato l'Italia. Coloro che promettono di scacciare i Rom che minacciano i nostri cassetti ormai vuoti, l'oro che non possediamo più.
Quelli che i vecchietti stupidamente indignati per «le nigeriane che salgono sul pullman con la carrozzina» voteranno ancora.
E ancora.
Senza riuscire a capire chi li sta derubando.


6.9.10

Altre letture

L'estate è giudicata un ottimo momento per leggere, e indubbiamente lo è.
Non solo per leggere i libri preferiti ma anche per leggere «quel libro là, che m'incuriosisce ma...», per affrontare «quel librone che non trovo mai il tempo per...» o per gettare un occhio a «quel libro unico, inimitabile, fantastico...» che un conoscente ti ha suggerito di leggere. Libri, libri, ancora libri, quasi da averne le tasche piene. Già, perchè l'estate è anche il momento per girare, vedere luoghi nuovi, fare nuove esperienze e, nel contempo, rinvigorire i rapporti trascurati, dedicare tempo alla famiglia, visitare gli anziani genitori, risentire i parenti e rivedere antichi amici persi di vista.
Totale, il tempo dedicato teoricamente ai libri evapora come l'acqua abbandonata sul fuoco e i libri scelti sono stati - ancora una volta - letti nei ritagli di tempo, trascurando i capolavori e i tomi particolarmente voluminosi e impegnativi per dedicarsi, ancora una volta, ai libri più (volumetricamente) leggeri.
Il risultato è quello che leggerete di seguito, cioé un piccolo concentrato dei miei difetti e delle mie manie.
Uno dei libri che mi ha accompagnato quest'estate è sicuramente un testo curioso e apparentemente troppo limitato di argomento per risultare interessante. Parlo de La purpurea meraviglia, Storia del pomodoro in Italia, Garzanti editore, autore David Gentilcore, eminente storico britannico. E invece nulla di tutto ciò. Come capita spesso nei volumi dedicati alla «microstoria», l'angolatura peculiare permette riflessioni e considerazioni molto più vaste di quanto, teoricamente, consenta l'argomento.
Così, la lettura di questo ottimo volume mi ha permesso di conoscere talune curiose abitudini quotidiane della nobiltà italiana del XVI secolo, apprezzare la bellezza puramente ornamentale delle piante di pomodoro, distinguere i pomodori - o pomidoro o pomidori - dai tomatl, ortaggi andini che poco hanno in comune con i primi, tranne l'origine comune e la confusione creata nella botanica molto poco sistematica dei nostri antenati. Mediante il pomodoro ho potuto conoscere una parte rilevante della storia della pasta e più in generale dell'alimentazione aristocratica e popolana degli ultimi secoli. E chi avrebbe immaginato il difficile rapporto del pensiero fascista con il pomodoro, insieme marinettiana vedura futurista e complice dell'orrore pastasciuttaro? O che il leggendario «Patto d'acciaio» tra Italia fascista e Germania nazista avrebbe potuto comodamente ribattezzarsi «Patto di pomodoro», dal momento che parallelamente venne fissata la quota dei pomodori esportati oltre il Brennero, pari all'incirca al 90% della produzione nazionale. Così fino ad oggi, dove si convive, secondo Citati (e Carletto Petrini) con un pomodoro dall'anima industriale, poco saporito e acquoso, oggetto misterioso di origine cinese. Difficile dare loro del tutto torto, detto di passata. Prima di prendere una posizione in proposito, comunque, è consigliabile leggere questo interessantissimo libro, magari accompagnando la lettura con un piatto di tagliatelle «pomodoro e scalogno» (ricetta originale di Rachele Mussolini) o anche con una semplice insalata di (buoni) pomodori. Buon appetito e buona lettura.
Meno singolare - o forse di più, dipende - il libro di Yang Yi, Un mattino oltre il tempo, fazi editore. In apparenza un libro di autore cinese, probabilmente pubblicato all'estero, dedicato al giorni di Tien An Men. Due studenti di campagna catapultati nella capitale a cercare un'affermazione nella turbinosa Cina contemporanea. Due amici che, iscritti all'università, finiscono per interessarsi troppo a temi e problemi come la democrazia, la libertà di opinione, il futuro del loro paese e, come milioni di loro contemporanei, hanno visto morire ogni speranza in un mattino di giugno.
In apparenza, dicevo, perché il libro è stato scritto in giapponese e ha ricevuto, caso unico nella storia della letteratura nipponica, il premio Akutagawa, un premio vinto, tra gli altri, da Kobo Abe, Murakami Ryu, Oe Kenzaburo, Inoue Yasushi e Yu Miri. Insomma, un romanzo scritto da un'esule che, dalla propria patria di adozione, racconta l'amara disillusione di chi ha sognato una nuova Cina per poi doverla abbandonare, come tanti altri hanno fatto.
Un romanzo scabro, sincero e dotato di una inattesa grazia che lo rende una lettura non solo gradevole ma anche appassionante. Consiglio gli interessati al personaggio (nome reale: Liu Qiao) un passaggio sull'intervista pubblicata sul Japan Times. Ultimissima nota, l'editore italiano riferisce che l'autrice «
-->Inizialmente non conosce nemmeno una parola di giapponese: si appassiona alla lingua ascoltando ripetutamente "una cassetta della cantante Matsuda Seiko, raccolta casualmente all’immondizia». Non c'è motivo per dubitare sull'attendibilità di questa notizia - anche se l'autrice non la cita nel corso dell'intervista - e, in ogni caso, direi che è confermata l'utilità delle canzonette d'amore, se non altro per apprendere una lingua.
Steampunk è un termine che, perlomeno per i lettori di LN, dovrebbe avere un significato chiaro e inoppugnabile. Per chi non fosse lettore di LN riassumerò le caratteristiche del «genere» con queste parole, non mie ma di Davide Mana: «Lo steampunk è una rivisualizzazione del passato, attraverso le percezioni ipertecnologiche del presente». Ovvero: prendete un personaggio-tipo di Jules Verne, dotatelo di un'astronave in versioni art-deco e lanciatelo nello spazio: l'avventura che vi sarà narrata sarà fatalmente steampunk. Un tipo di esercizio che ho condotto anche personalmente con un racconto lungo pubblicato su Fata Morgana 4, «Nuvole» con il titolo «La testa fra le nuvole» firmato da Giulio Maria Artusi. Si trattava, in quel caso, del racconto di un personaggio tipicamente Verniano che incontrava sulla sua strada l'anziano capitano Nemo. Chi fosse interessato a leggerlo potrà scaricarlo da «Visione e letture» nello spazio «Le mie storie».
Il riferimento a me stesso è in realtà un avviso per il lettore. Come dire che non potrà attendere da me una recensione freddamente seria di un libro steampunk. Per quanti difetti possa avere il libro il sottoscritto non potrà non presentare almeno qualche pregio, reale o immaginario...
L'autore è Scott Westerfeld (autore del buon «L'impero di Risen», pubblicato in due volumi negli Urania Mondadori e di «Brutti», un discreto romanzo per adolescenti, pubblicato sempre da Mondadori) e il titolo è Leviathan, Einaudi Stile Libero. Piccola nota, utile dal momento che nel libro l'esistenza del secondo volume compare soltanto in calce (nella postfazione dell'autore), a Leviathan ha fatto seguito Behemoth. Il terzo volume della serie, Goliath, risulta tuttora in corso di scrittura.
Quindi sarà bene prendere nota che inizierete a leggere il libro senza sapere di preciso come andrà a finire la storia. A qualcuno questo darà fastidio, è evidente. Tanto più che Einaudi nasconde il particolare a pagina 400 su 402... Tutto ciò detto, resta il fatto che il libro di Westerfeld è divertente e decisamente godibile. Si tratta di un juvenile, altro particolare da non trascurare, come testimoniato dalle numerose e pregevoli illustrazioni di Keith Thompson e dal fatto che i due protagonisti - il principe Aleksander d'Asburgo e Deryn Sharp dell'aviazione di sua maestà Britannica - sono due adolescenti di 15-16 anni. Le illustrazioni, tra l'altro, giustificano il peso non indifferente del volume, pubblicato su una carta adatta alla stampa di immagini.
L'avventura dei due giovani, ambientata in un Europa «alternativa» di inizio XX secolo, li obbliga a misurarsi con un gravoso compito da adulti e viene condotta separatamente fino a metà circa della vicenda, fino a quando i due non si troveranno loro malgrado uniti nel difendere la pace in un Europa divisa tra potenze Darwiniste e Cigolanti. Domanda: che cosa significano questi due neologismi? La prima - darwinista - rappresenta una forma di sviluppo economico basata sull'ingegneria genetica che permette di creare una raffinata tecnologia su basi biologiche, come è il caso di Gran Bretagna e Francia. «Cigolanti», viceversa, sono tutte le tecnologie metallurgico-meccaniche, sulle quali si basa la tecnologia di Germania e Austria-Ungheria. Questo spiega, tra l'altro, il curioso incontro di Alek e Deryn, il primo alla guida del suo «camminatore» sospinto da motori Daimler e armato di un pezzo da 37 mm e la seconda imbarcata sul dirigibile-balena Leviathan. Alek inseguito dai malefici tedeschi - il posto del villain è ovviamente appannaggio del Kaiser Guglielmo - e Deryn nei panni di un ufficiale apprendista maschio, dal momento che le donne non possono aspirare a un posto in marina. A noi lettori non rimane che attendere l'uscita di Behemoth, ambientato nell'Impero Ottomano, per verificare lo sviluppo della situazione, storica e personale, di Alek e Deryn, oltre che quella di Nora Barlow, protagonista della trilogia, bioingegnere e nipote di Charles Darwin.
Passiamo a tutt'altro tema.
Un terzetto di libri che io non sono minimamente in grado di recensire, ma dei quali parlo volentieri per indurre qualcuno più preparato di me a leggerli e riflettere sulla situazione della cultura attuale in Italia.
I tre libri, editi tutti e tre da Laterza, sono: Alberto Asor Rosa, Il grande silenzio; Giulio Ferroni, Scritture a perdere e Tullio De Mauro, La cultura degli italiani. I primi due pubblicati nel 2010, il terzo pubblicato per la prima volta nel 2005 e recentemente ristampato. Ferroni e Asor Rosa sono docenti di Letteratura Italiana presso l'Università di Roma La Sapienza, mentre il più anziano De Mauro, noto linguista, è stato ministro della (pubblica) istruzione e ha diretto per nove anni la fondazione del comune di Roma «Mondo digitale», fin quando non gli sono state richieste le dimissioni dal sindaco Alemanno. Una vicenda molto laterale rispetto al libro qui presentato ma che merita comunque una piccola diversione.
Ritorniamo al punto.
Tema principale dei libri dei due letterati è lo stato della cultura e il ruolo degli intellettuali nell'Italia berlusconiana. Più mirato sulla produzione letteraria contemporanea il breve libro di Ferroni, più centrato sulla decadenza e la scomparsa del ceto intellettuale in Italia il libro-intervista di Asor Rosa. Come dicevo prima non sono minimamente in grado di esprimere qualcosa di adeguato in merito, posso soltanto consigliare i lettori di leggerli tutti e tre. Anche non di corsa, lasciando passare tempo tra una pagina e l'altra. Il libro di De Mauro perché è affascinante ripercorrere la gioventù e la maturità di uno degli inventori della scienza linguistica in Italia e «leggere» l'Italia e le sue istituzioni di formazione - scuola e università - nel corso degli anni narrate da un protagonista. Ovviamente su alcune cose si scoprirà di non essere d'accordo, ma riflettere su motivazioni e intenzioni di un ministro - e non di una demente sciagurata armata di enormi forbici - si rivelerà estremamente interessante. Non sarà facile dimenticare questa semplice, schietta riflessione sulla situazione attuale di scuola e università: La politica di costoro è dissennata [...] Non credo che possiamo riuscire a convincerli del danno che stanno facendo. Se non riusciamo a liberarci presto di costoro, i danni per la ricerca e l'università li pagheremo per decenni.
Più netto, rabbioso anche se a tratti un po' maliconicamente autoreferenziale il breve saggio di Ferroni. Una rapida rassegna sul panorama della letteratura italiana contemporanea, una narrativa «a perdere», destinata sì a crescere «una letteratura che si moltiplica e contemporaneamente arretra», ma assediata dalla «degradazione del linguaggio e della vita civile».
La rabbia sconfortata di Ferroni si scatena e insiste su alcuni apparenti «fenomeni» del narrare contemporaneo come l'ossessione per il «noir» o il successo di autori come Giordano, Scarpa, Mazzantini. Le recensioni di Ferroni ai loro libri hanno qualcosa di comicamente irato - anche se fatalmente un po' sterile - come le reazioni di un buon insegnante davanti a temi apparentemente ben scritti ma desolatamente vuoti e supponenti. A questi Ferroni contrappone «Qualche strada praticabile, dal racconto all'autofiction», ovvero la frequente (e crescente) disponibilità di antologie: «la forma "breve" del racconto [...] è oggi la più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell'esperienza» e i libri «atipici», come Gomorra di Saviano o La vita bassa di Arbasino.
La conclusione - inevitabile - di Ferroni è che: lo scrittore è qualcuno che appare, e il libro deve prima di tutto saper apparire; in piccolo la società letteraria finisce per riprodurre gli stessi meccanismi in atto nel mondo della politica: anche in essa, ormai [...] viene messo in primo piano chi ha più audience e vende di più.Ho lasciato per ultimo il libro di Alberto Asor Rosa perchè il più complesso e aggiornato - e forse quello a me più vicino - tra i tre presentati. Un appassionante saggio-intervista condotto magistralmente da Simonetta Fiori della redazione de «La Repubblica» in compagnia dell'ultrasettantenne Asor Rosa, immancabilmente polemico come è suo costume e tradizione. 170 pagine che ho letteralmente «divorato» in una sola mattinata di assenza di clienti (dato non nuovo a Torino, di questi tempi), apprendendo la lunga, complessa e tormentosa esperienza di Asor Rosa nella sinistra e poi nel PCI degli anni '60 e '70, inevitabilmente polemico (e rissoso) anche a distanza di anni e anni. Non è molto probabile che al termine della lettura Asor Rosa vi risulti simpatico. In apparenza troppo reciso e liquidatorio nei confronti di pensatori come Zygmunt Bauman o di politici come Achille Occhetto - solo per citarne due di una nutrita schiera - ma anche sincero, nitido e a suo modo audace, come raramente accade.
Tanto per dare un'idea dell'atmosfera del libro, riprendo qui parte della presentazione della Fiori:
(...) All'evoluzione istituzionale, etica, culturale del berlusconismo è dedicata una parte importante dell'intervista, tra la "morte dell'opinione pubblica" e le vulgate dei "nuovi reazionari", il trionfo dell'antintellettualismo e la sostanziale liquidazione della tradizione risorgimentale e resistenziale, l'indifferenza degli eterni "apoti" e il conformismo dei nicodemiti di sempre.
Due libri di narrativa, insoddisfacenti (per me), sia pure per diversi motivi.
L'ultimo libro di Zoran Zivkovic, è stato presentato al pubblico come "Nuovo Borges" (The New York Book Review), dotato della leggerezza di un Calvino (Publishers Weekly), autore di un avvincente thriller che ricorda alla lontana Il nome della rosa, (Nordwest Zeitung), proprio come nei racconti di Kafka (Time out).
Pur se innegabilmente intimorito da un simile fuoco di fila, non nasconderò a coloro che mi leggono che L'ultimo libro è un giallo molto modesto, con un finale pseudofantascientifico sinceramente grottesco e irritante. Narrato in prima persona da un ispettore ultraletterario, si avvale del contributo di un'ovvia libraia - con la quale l'ispettore avrà inevitabilmente una storia - e di alcuni figuranti, defunti compresi. Il nome della rosa può forse venire in mente per via della misteriosa setta di incappucciati che compare a due terzi del libro, ma la vicinanza con Borges è del tutto incomprensibile. Un vero, genuino bidone.
La fortezza della solitudine di Jonathan Lethem è un ottimo romanzo, non ne dubito nemmeno per un attimo. Ma 550 pagine scritte in corpo 10, con interlinea minima e margini disperatamente sottili sono veramente un po' troppo. Sono giunto a pagina 84 - equivalenti a circa 200 di un libro normale o a tre romanzi di Alessandro Baricco - e mi sono arreso.
Ho abbandonato Dylan Ebdus e la sua scassatissima e allucinata famiglia, il quadrilatero di strade dove si sforza di crescere, il ritmo lento, pensoso, onirico e nitido del libro di Lethem con la silenziosa e non infondata speranza di rivederci ancora. Ma per quest'estate basta così.
Passando alle letture di fantastico, delle quali parlerò necessariamente in breve, vista la lunghezza ormai insostenibile di questo post.
Comincerò con un libro che Fanucci offriva al prezzo straordinario di 5 euro per il primo mese dall'uscita. Si tratta di La legge del nove di Terry Goodkind. Potrei limitarmi a riprendere uno dei commenti venuti da parte di un cliente affezionato: «Un simile pacco potevano anche venderlo per 5 eurocentesimi», ma non lo farò. L'ho letto in una settimana. Decente più o meno fino a terzo della vicenda per poi precipitare in un ridicolo sabba di sesso e morte. Più o meno un morto ammazzato a pagina e un ritmo sbrigativo e affannato, come se l'autore avesse dovuto terminare il libro entro una ben precisa data per evitare di trovarsi i cattivi del libro davanti alla porta di casa. Ovviamente inesistenti i personaggi e sinceramente risibile il suo racconto della Terra alternativa, dove i telefonini - come tutto il resto - funzionano grazie a una non meglio specificata magia. Da dimenticare.
Breve nota: Terry Goodkind è l'autore del ciclo della Spada della Verità, ciclo che non ho mai letto (e che non leggerò mai), considerato con stima e considerazione da non pochi lettori di Fantasy. Quindi mi scuso per il trattamento inflitto a Goodkind e al suo romanzo, anche se sottolineo che un giudizio non troppo diverso (opera parassita di altre, con evidenti riferimenti - o debiti - nei confronti di Koontz e Donaldson) si può trovare in rete.
Meritevolissima di lettura l'antologia Controrealtà, a cura di David Hartwell e Kathryn Cramer, 26 racconti di, tra gli altri, Nancy Kress, Terry Bisson, Cory Doctorow, Gardner Dozois, Rudy Rucker, Joe Haldeman, Gregory Benford, Michael Swanwick, Ian MacLeod e Stephen Baxter. 462 pagine di sf pura, a dimostrazione che: 1) la sf è ben viva, 2) il racconto resta una forma di narrazione più che notevole.
Stella doppia 61 Cygni di Hal Clement non è una novità, in nessun possibile senso. Pubblicato nel 1953 negli USA e tradotto da Urania nel 1954 - e riproposto nella collezione Urania a luglio di quest'anno - è un rappresentante di un sf «dura» (ovvero ricca di riferimenti scientifici) amichevole e divertente. Il suo pianeta, un ovoide con tre volte la gravità terrestre all'equatore ma che giunge a un valore pari a settecento «g» ai poli, con per abitanti una sorta di intelligenti aragoste, è animato, in qualche caso spassoso, sempre divertente e istruttivo. Curiosa la scelta, non troppo comune in quegli anni, di affidare il punto di vista principale a un alieno, l'ottimo e brillante comandante Barlennan. Immagino non sia facile ritrovarlo ancora adesso, a settembre già iniziato, ma se vi capita non perdetelo.
Da segnalare, sia pure velocemente, 35 miglia a Birmingham di James Braziel, raffinatissimo e un po' (troppo) steinbekiano romanzo ambientato negli Stati Uniti del prossimo futuro, resi per buona parte praticamente invivibili dalla scomparsa dello strato di ozono. Lettura non esattamente agevole, incentrata sul rapporto irrisolto tra padre e figlio e con una trama piuttosto letargica. Non so se è il caso di consigliarvelo. Anche se... Ma su questo punto ritorneremo.
In questo momento sono impegnato nella lettura di due corposi libri. Uno è il Premio Hugo 2007, Vernon Vinge, con il romanzo Alla fine dell'arcobaleno, il secondo è Anathem di Neal Stephenson, edito da Rizzoli. Stephenson - autore di titoli come Snowcrash, Zodiac, L'era del diamante, Cryptonomicon - ci presenta un affascinante e barocco pianeta - Arbre - dove i rapporti tra scienza e tecnologia sono complessi e indiretti, dove la separazione tra saggi e mistici - gli avout -, che vivono in conventi (i «concenti») e l'umanità comune - i saecular - è reale e profonda. Un romanzo piuttosto complesso (per il momento, intorno a pagina cento, soltanto complicato) con i riferimenti storici, di costume e tradizione, filosofici ed etici che debbono essere afferrati e compresi controllando il formidabile corpus di note storico-linguistiche riportate nella cinquantina o giù di lì di pagine in calce al volume. Non sono sicurissimo di riuscire a terminare, né se riuscirò mai ad arrivare al secondo volume ma sono curiosamente convinto che il libro meriti tanta fatica.
In quanto al libro di Vernon Vinge... Beh, sono arrivato più o meno a metà e ho la sensazione di un libro un po' svitato, assurdo, senza capo né coda, confuso, frammentario, incerto tra un tono allegro e un po' surreale e quello di un thriller acido e freddo. Poi mi è capitato di leggere un interessante dibattito sulla pagina del blog di Urania, dove, per l'appunto si parlava del libro di Vinge e del fatto che l'edizione italiana sia uscita un po' ridotta rispetto a quella originale. Ipotesi che veniva poi confermata - in maniera brusca e urtante - da un intervento di Giuseppe Lippi, direttore di Urania. Per poter uscire in Urania - e poter rimanere nel numero di pagine previsto - i romanzi possono essere decurtati di un 15%, un taglio "non strutturale", ovvero che non riguarda vicende o personaggi, ma soltanto la forma del testo. Come dire che «Rispose agitato», diventa «Rispose» e «Osservò amaramente», si riduce a «Osservò».
Il motivo di questa scelta è che Mondadori vuole mantenere a tutti i costi basso (scusate l'involontario bisticcio di parole) il prezzo della rivista. Preferisco non esprimermi, anche se mi dico perfettamente d'accordo con Vincenzo Oliva nel commento riportato nel suo blog Allontaniamoci da Omelas. Ciò che afferma Iguanajo nel suo blog rende perfettamente il senso di ciò che avviene nel mondo mondadoriano. Credo anch'io che la politica di Mondadori nei confronti della SF rischi di essere suicida. Ma, ahimé, per i lettori italiani al di fuori di Urania rimane ben poco...
Conclusione: ho interrotto la lettura del libro di Vinge. Credo che se l'autore (che NON HA CONFERMATO l'accordo con Mondadori per il tagliuzzamento del suo libro) ha scelto di scrivere «Rispose agitato» e «Osservò amaramente» esista un motivo che ha a che vedere con la natura profonda della narrativa.
...
Per questa volta ho finito.
Finalmente.
Un post troppo lungo, lo so.
Aspetto i vostri commenti. O, meglio, le vostre osservazioni amare.


10.7.10

In pratica




Leggetevi con attenzione queste due pagine di autore anonimo.

La vita di Bianca

Era l'alba; la villa vicino al mare, alla periferia della città marinara, era tutta un trambusto; le luci mattutine erano chiarissime, quasi albine; un leggero strato di neve ricopriva la terra fino alla marina, i fiocchi danzavano una ridda di strani balli in vortici capricciosi. Sembrava un gioco di piccoli esseri fantasmagorici, in una allegorìa gioiosa senza fine. E fu allora che lei nacque, nel bianco candore dell'alba, e per questo Bianca la chiamò sua madre. Due cose influirono sulla sua vita: il segno zodiacale del Sagittario, che le darà sempre nuove attività e risorse, e il nome impostole dalla adorata mamma, che le porterà fortuna e continue aspirazioni. La madre era nobile, discendente da un marchesato della Boemia: colta, fine, bellissima e di squisita sensibilità. Il padre coltissimo, studioso assiduo, commediografo, scrittore e poeta. La piccola Bianca venne alla luce con un lungo acuto strillo di protesta. La sua vita era stata meravigliosa, certamente in conseguenza di tutti questi doni ereditari. Era portata per tutte le arti, ed ogni cosa bella le faceva vibrare le fibre più recondite. Cominciò a recitare nella compagnia paterna già da piccola. Adorava lo studio e il sapere in genere, ogni scienza le piaceva e la attraeva. Leggeva moltissimo. In seguito, assunse la regìa della compagnia paterna e la ritenne per anni: scrisse «Poesie a più voci» come lei chiamò, e fece con esse delle recite in molte città, dove adulti e ragazzi impersonavano: alberi, fiori , statue. Vinse parecchi premi culturali, regionali e nazionali. L'insegnamento era il suo lavoro base, amava stare con i ragazzi, trasmettere loro la sua cultura, il suo entusiasmo, tutta sua carica di vita. Scrisse diversi libri: un romanzo, due canzonieri, novelle, racconti e libri di saggistica. I suoi libri ebbero ottime critiche giornalistiche, la prima stesura di ognuno fu venduta in breve tempo, all'esaurimento. Dipinse e fece alcune mostre. Collaborò col padre che idolatrava, e tutta la sua vita fu colma di un'attività creativa, continuamente rinnovata. Com'è bella la vita, soleva dire e ogni cosa le piaceva immensamente. Non conobbe mai: né noia, né ozio. Le fu conferita l'Onorificenza di Cavaliere Della Repubblica, per tutti i suoi meriti e il suo lavoro; fu nominata Accademico dell'Accademia di Pontzen di Scienze ed Arti…

Non c'è bisogno che vi dica perché l'autore è anonimo. Vi basti sapere che il suo nome di battesimo è Albachiara, in modo da poter cogliere i riferimenti autobiografici.

Volevo creare personalmente alcuni piccoli mostri, ma poi per un caso mi sono trovato davanti un inverosimile libretto stampato a spese dell'autrice e ho scoperto che, come sempre, la realtà supera di gran lunga la fantasia.

Bene cosa c'è che non va nel brano di Albachiara?

Lasciamo perdere il tono ultracompiaciuto, lo snobismo demodé denunciato dai riferimenti, la convinzione ingenua che possano esistere personaggi del genere, la visione esclusiva e ineffabile della sensibilità artistica (un tristissimo autogol, non c'è che dire) e la convinzione che esista un destino, scritto nelle stelle o nelle trippe.

Siamo generosi e facciamo finta anche di non notare l'uso improprio o decisamente strampalato di aggettivi e verbi (i doni ereditari... l'allegoria giocosa e senza fine... l'Accademico dell'Accademia... la ritenne per anni... venduta all'esaurimento). Già che ci siamo tiriamo dritto anche davanti all'uso della punteggiatura. La punteggiatura è spesso un problema di sensibilità personale e quindi sì faccia finta di niente.

E la concordanza dei verbi?"
Già, vero. Virare dal passato remoto al futuro è un'operazione che strappa un ohibò anche al lettore più ottuso. Ma sorvoliamo.

La cosa più interessante è la scelta degli strumenti utilizzati per colpire il lettore.

Essenzialmente:

La ripetizione.

La scansione.

L'elencazione.


Strumenti importanti ed efficaci, come vedremo, ma qui utilizzati in maniera sciagurata.


La ripetizione

La ripetizione è uno strumento potentissimo per l'evocazione. Ma perché funzioni dev'essere discreta. Generalmente l'autore accorto dosa con attenzione l'effetto per aggirare l'attenzione del lettore, facendo scattare alcuni meccanismi inconsci. All'uopo vi rimando a Edgar Allan Poe, maestro dell'angoscia insinuante basata sulla ripetizione.

Incipit della “Caduta della Casa degli Usher"

Per un'intera buia, uggiosa e silenziosa giornata d'autunno, in cui le nuvole gravavano basse nei cieli, avevo attraversato da solo, a cavallo, un tratto di campagna insolitamente tetro; e mi ero trovato infine, quando già si addensavano le ombre della sera, in vista della malinconica Casa Usher. Non so come avvenne, ma, appena scorsi l'edificio,. un senso di insopportabile tristezza invase il mio spirito. Dico insopportabile, perché non era alleviato da alcuno di quei sentimenti quasi piacevoli, perché poetici, con cui lo spirito solitamente accoglie anche le più austere immagini naturali di desolazione e terrore. Contemplai la scena che avevo di fronte, la casa disadorna, lo spoglio paesaggio della tenuta, le squallide mura, le finestre come occhi vacui, i pochi rigogliosi falaschi, e i pochi bianchi tronchi di alberi infraciditi, con un'assoluta depressione d'animo che non posso paragonare propriamente ad altra sensazione terrena che al risveglio dell'oppiomane dai suoi sogni, al suo amaro ritorno alla vita di ogni giorno, all'orrenda caduta del velo. C'era una gelidezza, un affondamento, un'affezione del cuore. un'irredimibile oppressione del pensiero che nessuno stimolo dell'immaginazione avrebbe potuto stravolgere in qualcosa di sublime.


Forse per la sensibilità moderna un attacco tanto plateale risulta eccessivo, ma in fondo il lettore altro non chiede che di essere terrorizzato per benino e quindi attua, come dice U.Eco, una sospensione di giudizio nell'attesa di un bello spavento. Poe inanella in poche righe: «Buia, uggiosa, silenziosa.. nuvole gravavano basse... tetro... ombre della sera.., malinconica... desolazione e terrore... occhi vacui... orrenda caduta del velo... gelidezza... oppressione.» Ma non utilizza mai un sinonimo vero e proprio, si avvale di metafore, perifrasi, rimandi, formule letterarie e insinua nel vostro candido cuoricino almeno una parte dell'ansia del protagonista.

Cosa fa invece Albachiara?

Scrive: "Villa vicino al mare, alla periferia della città marinara." E, dopo un incipit tanto rassicurante - sia pure con ripetizione - , attacca col suo maledetto candore:

«chiarissime, quasi albine... neve... fiocchi.. bianco candore dell'alba (sic)... Boemia [come il cristallo, furbetta l'Albachiara]... la piccola Bianca»

Credo che questo eccesso di candore sia almeno in parte inconscio, (è questa la differenza fondamentale tra un dilettante e un professionista, l'essere consci del mezzo scrittura) e che la manovra narrativa di Albachiara risponda allo scopo di evocare nel lettore una sensazione di pulizia, pace interiore, gioia e felicità. Ma essendo i suoi strumenti primitivi e abboracciati non passa l'esame nel lettore accorto, reso già diffidente dal titolo.

Passiamo alla scansione.

I ritorni a capo.

Baricco ne fa un uso tecnicamente sapiente (anche se resta un impostore). Rileggetevi la paginetta di «Seta». In generale il dominio dei ritorni a capo è, per ovvi motivi, il dialogo. Per spezzare il discorso frequentemente dovete avere delle ottime ragioni: una scena molto movimentata, qualcosa di estremamente urgente da comunicare (cautela, il messaggio dev'essere urgente per tutti e non solo per voi), un intento burlesco o satirico (cfr. "Tre uomini in barca"), la mimesi o la parodia, il discorso indiretto/diretto (tornate a Salinger). Se nessuna di queste condizioni è vera il lettore può trarre due conclusioni:

1) L'autore vuole farmi fesso.

2) L'autore non ha voglia di lavorare e cerca di cavarsela con poche frasi a effetto.

Il caso 1 corrisponde alla perfezione al Baricco da Seta e ai suoi ritorni a capo da Capitan Spaventa.

Il caso 2 è invece quello di Albachiara, alla quale non frega un tubo raccontare della giovinezza e della maturità del suo personaggio. Infatti sbriga la sua vita in una facciata per arrivare infine alla sospirata senilità. I frequenti ritorni a capo in questo caso funzionano come i riassunti delle puntate precedenti letti a rotta di collo dalle annunciatrici RAI , quando c'erano ancora gli sceneggiati TV di Anton Giulio Maiano e di Sandro Bolchi. In casi come questi è meglio lasciar perdere e cominciare «in media re». Avrete tutto il tempo del romanzo per spiegare vita, gesta e glorie del vostro personaggio, sempre che ne valga la pena.

L'elencazione

Così elenca Stefano Benni da «Elianto»:

INVENTARIO DELLA VALIGIA CHE EBENEZER SNOBERUS SINFERRU PREPARO' PER IL VIAGGIO NEI MONDI ALTEREI.

Un costume d'angelo completo con parrucca e e ali di vera piuma di cigno.

Un dentifricio con spazzolino.

Un arricciacoda.

Una scatola di lucido per corna «Wild Deer».

Dodici preservativi.

Un pigiama.

Un altimetro.

Uno spaventacroccoli.

Una macchina fotografica e dodici rollini.

Un vocabolario diavolo-angelese e angel-diavolese.

Una motocicletta da cross.

Pinne.

Occhiali e boccaglio.

Un chilo e mezzo di brillantina alla menta.

Una cerbottana con frecce al curaro.

Cime tempestose di Emily Brontë.

Tre paia di mutande con buco caudale.

Toppe di caucciù per le ali.

Due mazzi di carte da poker.

Guanti da saldatore.

Metà della bravura di Benni consiste nella capacità di di costruire elenchi assurdi e insieme rivelatori. Benni di nasconde altrettante storie non raccontate, abitudini, passioni, gusti, interessi, sogni, rimpianti e probabilmente tutte le storie che non avrà mai il tempo per raccontare. Negli elenchi di Benni si riflette tutta la inconcepibile varietà e diversità del mondo. Gli autori surrealisti - André Breton, Boris Vian - avevano una vera passione per gli elenchi e ne costruivano, a cavallo tra prosa e poesia, di fenomenali, godendosi l'effetto straniante e irresistibile di accostare materiali e oggetti - astratti e concreti - non soltanto antitetici ma anche incongrui, assurdi e inattesi. Stendendo un elenco si può sperimentare l'ampiezza semantica del linguaggio e la potenza evocativa della parola. Insieme alla poesia e all'invenzione di nomi e luoghi - l'onomastica - è uno dei piaceri più genuini e meravigliosamente infantili del narrare.

Ritornando ad Albachiara, possiamo dedicare ancora un po' di attenzione ai suoi elenchi:

«Padre coltissimo, studioso assiduo, commediografo, scrittore e poeta... Alberi, fiori, statue... Premi culturali nazionali e regionali... Un romanzo, due canzonieri, novelle, racconti e libri di saggistica...»

L'elenco di Albachiara ha i tristi connotati di un inventario di beni pignorabili steso da un ufficiale giudiziario o, in alternativa, il tono impersonale di un messaggio personale pubblicato «vendo poco usato motorino 75 cc con marmitta al cromovanadio...»

E perché mai?

Essenzialmente perché Albachiara non ha nessun feeling con la lingua che utilizza. La sua prima preoccupazione è quella di stupire il lettore e suscitare ammirazione nei confronti dell'autrice, sforzandosi di riprodurre lo stile di una stagione letteraria tramontata (Liala, certo, ma anche il D'Annunzio più ovvio e dozzinale).

RIASSUMENDO

Ripetizione, scansione ed elencazione sono attrezzi fondamentali. Da utilizzare con attenzione e sensibilità, resistendo al desiderio di mostrare la ricchezza del proprio lessico e la propria finissima sensibilità...

*** attenzione ***

Il manuale - a volerlo chiamare così - continua a cura di Silvia Treves (abbiamo lavorato insieme nel seminario), nel suo blog Esercizi di Dubbio. Da non perdere il suo ricco contributo sul tema del dialogo! Leggerlo e piangere su ciò che avete scritto sarà tutt'uno... Non perdetelo per nulla al mondo!

26.6.10

Lovecraft e le minuterie


Siamo a una svolta.
Qui si parlerà dello stile, ovvero del particolare approccio alla scrittura che ognuno di voi/noi sceglie.
Quale lessico utilizzare e quanto debba essere rozzo o raffinato, ovvio o ricercato, banale o personale. È particolarmente curioso notare come la scelta di una stile, ovvero di un particolare lessico influisca profondamente - tanto da definire - il tipo di narrazione che condurrete.
O, nella peggiore delle ipotesi, che finirete per condurre.
Il conflitto tra forma e contenuto è del tutto virtuale, temo.
Ovvero immaginario.

L'orrido vacuo indicibile.


Avete presente come scrive Lovecraft?

Non fatemi aggiungere una sua pagina, cercate di ricordarvi il racconto che è stato presentato al seminario nel primo ciclo di incontri.

Il racconto dove c'è uno che scopre di essere un mostro dopo che tutti noi lettori abbiamo sofferto e patito con lui per l'orrida prigionia nella quale era ridotto.

Bella storia, costruita abilmente, ma non ricordate nulla dello stile? Forse un po' pesante, efficace, ma un po’ sovraccarico.

A cosa era dovuta la pesantezza?


Citati, l'avrete presente no?

Citati ha l'abitudine (lo si vede bene nell’unico romanzo che ha avuto finora il coraggio di scrivere) di utilizzare sempre ALMENO tre aggettivi per denotare anche il più miserando e inopinato sostantivo.

La sensazione data da una sua pagina è simile a quella di un Calzone al tonno, mozzarella. prosciutto, funghi. carciofini, acciughe, gorgonzola, dadi per brodo, ketchup e currie.

Troppo in troppo Poco spazio.


La sensazione che dà Lovecraft è diversa.

Essendo il solitario di Providence un geniale monomaniaco, teneva sempre sottomano una trentina di aggettivi (putrido, informe, orrido, vacuo, indicibile sono alcuni dei must) che disponeva con sapienza e amore lungo il percorso del lettore, (che accompagnava nel territorio dell'incubo valendosi di una lingua oscura e arcaicizzante) fino a estenuarlo.

Una pagina di Lovecraft funziona egregiamente perché quasi ipnotica (e rende male se letta ad alta voce).

Citati e Lovecrafi sono due esempi utilissimi a definire un altro aspetto dell'm (microstruttura): il vocabolario (ovvero il lessico).

Ne abbiamo parlato in lungo e in largo durante le sessioni dedicate ai generi. scoprendo spesso di avere idee piuttosto divergenti su come definire il lessico li un testo altrui.

Il fatto è che talvolta si rischiava di definire l'ampiezza della scelta lessicale in assoluto, piuttosto che in rapporto al tipo di brano. Saggiamente, abbiamo sempre finito per decidere che le scelte lessicali devono essere aderenti al genere scelto, e buonanotte.

E bene abbiamo fatto, ma dove e come, quali e quanti aggettivi, avverbi, congiunzioni utilizzare non abbiamo neppure provato a dirlo.

Bene, adesso è giunto il momento.


Minuterie


Minuterie indica le piccole parti in metallo deputate a tenere Insieme sia un paio di forbici che la corazzata Minnesota.

Senza minuterie le forbici non funzionano e la corazzata Minnesota va a fondo.

Sono minuterie cose come gli aggettivi, le congiunzioni, gli avverbi. Ma provate un po' a fame a meno?


- L'aggettivo possessivo.


Gino vide Pino sul lungomare Sfoggia va, gonfio come un tacchino, il suo parka.


Bene, di chi è il Parka?

Di Pino, apparentemente Bene, la frase seguente è:


Pino si avvicinò a grandi passi urlando: - Ridammi il mio parka, bestia! Possibile che ticchi sempre il naso nel mio armadio?


Se il parka in oggetto non è il tema del racconto come il cappotto di Gogol, il lettore sobbalzerà e probabilmente tornerà indietro a rileggersi la frase, eventualità da scongiurare. L'aggettivo possessivo è una gran brutta bestia. Vi invito a diffidarne e a utilizzano con parsimonia e attenzione. In taluni casi si potrà agevolmente sostituirlo con ”proprio", ma molto spesso le cose fileranno più lisce se rimanete sul vago. Se il parka di Pino diventa semplicemente "un bel parka”, vi eviterete un sacco di equivoci.


Punto: quasi tutto ciò che si può dire bene con dieci parole può essere detto molto meglio con cinque Si tratta di un paradosso solo apparente. Se fate attenzione buona parte di ciò che scrivete in prima stesura serve solo a voi per capire dove state andando, Un po’ un'impalcatura che al termine della costruzione va eliminata Bene, eliminatela. E' un lavoro snervante ma anche sorprendente (a patto di farlo con attenzione e un minimo di tempo davanti).


- Gli aggettivi specificativi.


Siamo nel mondo di Citati. Gli aggettivi specificativi danno colore, sostanza, forma, risonanza, splendore a ciò che scrivete.

Più ne utilizzate meglio è, o almeno così pare.


L 'uomo indossava un abito

L'uomo indossava un abito scuro

L 'uomo indossava un abito scuro, consumato dall'uso

L 'uomo indossava un abito scuro, opaco e consumato dall'uso


Siamo a tre aggettivi (due aggettivi e un participio passato. va bene, potete anche togliere "dall’uso", totale tre aggettivi tre)

Ma anche qui è un problema di sensibilità, di gusto e di equilibrio.


L 'uomo indossava un abito scuro, malandato, misero


Può fare altrettanto bene al caso vostro, ma tenete presente che siete pericolosamente vicini al sovraccarico di significati,


L uomo indossava un abito cupo, trasandato, miserabile


Cominciamo ad avvicinarci alla misura citatiana (e all'autocaricatura).


L'uomo si trascinava stancamente con il passo piegato, incerto, esitante dell'uomo provato da una vita avara, rude, impietosa. Indossava un abito tessuto di ombre logorate, miserando, penoso.


E qui siamo all'apoteosi citatiana. Non si tratta di una citazione ma un parodia (ma se avessi inserito una citazione non vi sareste accorti della differenza).

Solo i fighi bestiali scrivono così, rutilando di un intero vocabolario imparato a memoria.

Fatto sta che non è il numero o la raffinatezza degli aggettivi utilizzati a fare l'efficacia di una descrizione, ma la loro potenza iconica.


L’uomo indossava un abito scuro, anonimo e detestato.


Sono sempre tre aggettivi, ma raccontano la vita del personaggio, lo staccano dallo sfondo.

Non si è solo descritto l'aspetto del personaggio, ma anche delineato il suo approccio verso il mondo, fatto di rancore, di confuse ambizioni e di timori. La scelta del colore denota conformismo, e l'aggettivo anonimo contiene e implica logorio. povertà, consunzione.

Ultimissimo elemento. Aver inserito una congiunzione tra il secondo e il terzo aggettivo ha reso più leggera l’immagine, obbligandovi a fermarvi per una frazione di secondo.


- Complementi.


Disse in tono burbero.

Commenti con aria seccata

Osservò in tono pungente.

Sospirò con espressione esasperata


Disse burbero

Commentò seccato.

Osservò pungente

Sospirò esasperato.


Rileggete tutto quello che avete scritto in vita vostra e tutte le volte che trovate "In tono", “con espressione" ecc. ecc. ELIMINATELI. La vostra prosa ne guadagnerà enormemente.


- Le congiunzioni.


E/ed, 0/od, a/ad.

Baricco (ma anche Erri De Luca) sostengono la necessità di eliminare la D eufonica. Baricco (ma non De Luca) arriva a dire che si deve scrivere "stupido e ebete", "andare a appollaiarsi" ecc. ecc.

In realtà la cosa mi sembra di interesse alquanto limitato. Una volta tanto Baricco può anche avere ragione e posso concordare con lui che "ed edonista" evochi soprattutto l'immagine di un potente raffreddore, ma perdere più di un minuto a discuterne è già troppo.


- Gli avverbi.


Quelli che finiscono in -mente sono pericolosi.

Balzano all'occhio del lettore e anche se sono utili (lo spinse da parte violentemente, l'abbracciò affettuosamente) sono anche ingombranti. Molto spesso posso essere resi con un complemento (lo spinse da parte con violenza, l'abbracciò con affetto) o con una perifrasi.

Ricordate che il verbale di polizia o la pagina di cronaca nera sono sempre 'n agguato (... Si introduceva furtivamente nel locale disabitato dopo aver...). Due avverbi in -mente nella stessa frase danno spesso la stessa impressione che dà una valigia troppo piena, ovvero di un'imminente esplosione.


RICAPITOLIAMO:

L’aggettivo possessivo non è sempre necessario

L 'aggettivo specificativo deve specificare qualcosa sul personaggio e non sulla

cultura dell 'autore.

I complementi hanno da essere brevi

Gli avverbi in -mente devono essere numerati e pagare dazio


arrivederci alla prossima puntata!


23.6.10

L'ultimo, il primo e...


È uscito in questi giorni il nuovo LN, il numero 10.2, ovvero il numero 53, ovvero - dal momento che si tratta di un numero doppio - il 10.2.3 o il 53/54 o...
...Dunque.
C'è il nuovo LN.
Bello siccome un angelo. Nuovo di pacca, ricco di interventi, recensioni, narrativa...
Lo so somiglia molto a una pubblicità, ma non posso nascondere la legittima soddisfazione per un numero straordinario. Tanto più in un momento tutt'altro che facile per l'editore, cioé la CS.
Sia gloria a Marco Email che si è preso il mal di pancia di impaginare questo titanico numero doppio con risultati che bisogna proprio essere meschini per definirli appena men che magistrali.
Di nuovo odore di pubblicità, vero?
Beh, adesso mi limito a pubblicare l'indice e taccio.

MAPPE

Ristrutturazioni di Massimo Citi
Danzatori & Nomadi di Davide Mana
Gargoyle Books (intervista a P. De Crescenzo) di Gordiano Lupi
Il segnalibro Mancante di Piero Fabbri
Il principio Responsabilità di Maurizia Magro
Letture primaverili di Massimo Citi
Quattro passi in solitudine di Silvia Treves
Gli anni del «Corriere dei Ragazzi» di Gordiano Lupi
Spire d’Oriente, immaginario d’Occidente di Franco Pezzini
Adorabile Uragano di Mario Prisco

ISTANTANEE

Recensioni di Consolata Lanza, Enzo Baranelli, Gordiano Lupi, Silvia Treves, Luca Battisti, Massimo Soumarè, Piero Fabbri…

PAESAGGI

Primo amore di Consolata Lanza
Il Buio e la candela di Massimo Citi

Tutto qui. Chi volesse possederne una copia può scrivere a redazione@librinuovi.info o a cs_libri@fastwebnet.it.

Però, parlandoci tra noi, è proprio bello non trovate?

Ssshht, ebbasta!








16.6.10

Ruota di scorta / ruota di scarto


Ruota di scorta / ruota di scarto.

La base minima di una lingua intellegibile, che vi permetta di comunicare, anche non artisticamente, col prossimo, è la sua correttezza formale e la sua significatività.
Gente come Queneau e Perec (particolarmente quest'ultimo) hanno scoperto che la lingua è anche un sistema di convenzioni e di codici.
La narrativa, intesa come livello altamente significante di convenzione linguistica, è un vero labirinto di codici, una babele irta di leggi non dichiarate e di usi che si son fatti legge.
Conseguentemente hanno deciso di prendersi gioco della cosa.
Perec ha scritto alcuni esercizi deliranti come "Tentativo di esaurire un luogo parigino" e "La scomparsa" (lipogramma in e di trecento pagine) mentre Queneau ha scritto "Esercizi di stile", tutti brani nati con il preciso scopo di definire e denunciare alcune convenzioni della lingua scritta.
PUNTO: Se non li avete letti, leggeteli. A un certo punto della vita bisogna smetterla di essere scrittori e lettori ingenui.

Parrebbe che si sia lontani anni-luce dall'ispirazione (qualunque cosa sia, l'ispirazione). I due autori francesi hanno scritto a freddo, guidati, si direbbe, esclusivamente dall'emisfero sinistro. Pensate cosa dev'essere scrivere un intero romanzo senza fare uso di una delle vocali principali (la "e"), come in "La scomparsa" o declinare un evento banale in duecento e passa stili differenti, come in "Esercizi di stile".
Bisogna essere dei matematici fuori di cabina per scrivere simili testi, siamo d'accordo, e non credo che a nessuno di noi sia mai passato per la testa di fare una cosa del genere. Eppure, si tratta di testi preziosi.
La curiosità per la lingua, il gioco combinatorio, il neologismo, l'invenzione linguistica, il nonsenso, l'argot, gli ibridi di lingua e gergo, le deviazioni e rovesciamenti di senso (fino al paradosso di scorta/scarto del titolo) non sono solo giochini divertenti, ma testimoniano della vitalità di ciò che scrivete (quindi anche della vostra vitalità, curiosità e gusto dell'assurdo). Testimoniano dell'elasticità della lingua che utilizzate e, se non sono esclusivamente esercizi acrobatici, possono aiutarvi a spingere lo sguardo in direzioni inattese e sorprendenti.

Nota del GL
La lingua, rispetto alla matematica, è un sistema “aperto”, anche se formalizzato. Cosa intendo dire? Non lo so esattamente, ma mi sembra una differenza importante, che in un certo senso garantisca che i giochi linguistici non restino soltanto sterile enumerazione di combinazioni possibili.

Adesso leggetevi questo pezzetto di Queneau (tratto da "Zazie nel metrò") e meditate. Poi ci torneremo sopra.


Che si stan raccontando? - chiese Zazie mentre finiva di infilarsi i blucinz.
-Parlano troppo piano, - disse Marceline, con dolcezza, mentre teneva l'orecchio contro l'uscio della camera. - Non riesco a distinguere.
Mentiva con dolcezza, la Marceline, perché sentiva benissimo quel tale che cosi diceva: allora è così, è perché lei è una checca, che la madre le ha affidato la bambina? e Gabriel che rispondeva: ma se le dico che non è vero, certo, fo il mio numero vestito da donna in un naitclùb di culattoni ma non vuoi dir nulla, è per far ridere la gente, capisce, son tanto alto che se la fan sotto dalle risate, ma io, personalmente, non ce l'ho, quel vizietto, prova si è che ho moglie.
Zazie si guardava allo specchio, sbavando d'entusiasmo. In quanto a starle bene, nulla da dire, i blucinz le andavano benissimo. Si passò le mani sul culetto, modellato che non puoi desiderar di meglio, e sospirò profondamente, grandemente soddisfatta.
- Proprio non senti nulla? - chiese. - Nulla di nulla?
- No, - risponde con dolcezza Marceline. Sempre più mentendo, perché quello stava dicendo: «Non vuol dir nulla. Comunque non si può negare che la madre le ha affidato la piccola perché la considera una checca»; e a Gabriel era forza riconoscerlo: « Puoddàrsi, puoddàrsi », ammetteva.
- Come mi trovi? - disse Zazie. – Bello, no?

Beh, che ne dite?
Prima di tutto un'osservazione: l'autore riesce a rendere piuttosto bene la lingua parlata, non credete?
A mio parere Pennac - autore sicuramente piacevole e divertente - senza la lezione di Queneau non avrebbe ottenuto la velocità e l'efficacia del suo argot franco-maghrebino, né probabilmente sarebbe riuscito felicemente a costruire uno stile che fosse insieme paradossale e rivelatore.
Certe volte la lingua sembra vivere di vita propria, cogliere particolari che ne evocano altri, raccontare minuzie passate e presenti, sentire odori e suoni, mostrare vezzi, tic, emozioni e abitudini.
Rileggete le frasi di Gabriel (il travestito).
Non vi sembra di sentirlo parlare qui e ora? Non riuscireste a immaginarlo mentre parla del tempo, fa la spesa o l'amore?

James Baldwin, scrittore nero degli armi '50, diceva (cito a memoria):

Se provi a trascrivere un dialogo tale e quale non lo riconoscerai. La lingua scritta e la lingua parlata non sono la affatto la stessa cosa. Devi tradurre la lingua parlata, non copiarla, e questo é molto più difficile di quanto pensi. Ci sono le cose che non dici, i gesti, gli sguardi, le esitazioni, le frasi lasciate a metà. E poi l'accento, la cadenza, i silenzi, come in musica. Di fatto, devi scrivere due volte meglio e non una volta peggio, per riuscirci

Nota del GL
Un altro modo di dire la stessa cosa è questo, di ACHENG:
Solo quando la lingua parlata acquista credibilità in quanto lingua scritta può esistere una vera letteratura in lingua parlata.
Il che spiega perché lo skatz di Salinger è letteratura mentre i vezzi stucchevoli di Rossana Campo no.

La naivéte della lingua parlata è una balla colossale.
Ed è veramente interessante che a rendere egregiamente la lingua parlata sia proprio un autore come Queneau, capace di performance estremamente cerebrali.

PUNTO: enunciamo un paradosso (ma sì, dai, facciamolo!)
NON HA IMPORTANZA ciò che avete intenzione di dire, ma solo ciò che riuscite a dire. Sarebbe a dire che la massima semplicità, il maggior nitore, la purezza più cristallina la potete raggiungere se conoscete cento modi per dire la stessa cosa e da questi sapete estrarre l'essenziale.

Fate attenzione alla musicalità di quanto avete scritto. Bisogna avere orecchio (o comunque svilupparlo) per scrivere. Se una frase non vi suona del tutto convincente provate a rileggerla ad alta voce. Le sillabe hanno accenti e un suono ben distinto. Combinarne insieme una lunga serie somiglia molto al comporre. E quindi dovete badare a come suona il tutto, non preoccuparvi esclusivamente che il testo esprima appieno la vostra grande e superiore sensibilità.
Gli insegnanti di solfeggio jazz hanno l'abitudine di rendere taluni passaggi e accentature con l'uso di parole: tronche, sdrucciole eccetera (mo-bi-li-tà / mò-bi-li-ta). Non vi dico di solfeggiare il vostro testo, ma fate molta attenzione al suo ritmo complessivo. Se volete essere letti dovete avere ritmo (non velocità, ritmo!).

Baricco è un impostore, e adesso ve lo provo:

Benché suo padre avesse immaginato per lui un brillante avvenire nell'esercito, Hervé Joncour aveva finito per guadagnarsi da vivere con un mestiere insolito, cui non era estraneo, per singolare ironia, un tratto a tal punto amabile da tradire una vaga intonazione femminile.
Per vivere, Hervé Joncour comprava e vendeva bachi da seta.
Era il 1861. Flaubert stava scrivendo Salammbò, l’illuminazione elettrica era ancora un'ipotesi e Abramo Lincoln, dall'altra parte dell'Oceano, stava combattendo una guerra di cui non avrebbe mai visto la fine.
Hervé Joncour aveva 32 anni.
Comprava e vendeva.
Bachi da seta

(da Seta)

I rimandi a capo, le parole isolate hanno una propria risonanza arcana, esattamente come i bassi del pianoforte.
Avete mai sentito Rachmaninov?
È uno dei compositori più suggestivi ma anche più stucchevoli che siano apparsi in questo secolo.
La musicalità di Rachmaninov era per l'appunto basata su sonorità enfatiche, virtuosismi, automatismi drammatici.
Ecco, Baricco è tale e quale.
Non manca affatto di ritmo, ma prende in giro la gente valendosi delle sue capacita tecniche.
Si affida per intero al suo talento sonoro, ma, ahimé, non ha un beato cazzo di serio e importante da raccontare.

PER CONCLUDERE:

Leggetevi cosa ha scritto il grande pittore giapponese Hokusai.

Dall’età di sei anni ho sentito il desiderio di dipingere qualsiasi cosa vedessi attorno a me: dopo i cinquant’anni avevo già fatto un buon numero di opere ma non ero affatto contento del mio lavoro.
Solo adesso, all’età di settantatre anni, ho parzialmente capito la vera forma e il carattere di uccelli, pesci e piante. All’età di ottant’anni avrò certamente fatto ulteriori progressi: cosicché quando ne avrò novanta riuscirò a penetrare nella vera essenza delle cose.
A cent’anni raggiungerò un alto livello di perfezione e, all’età di centodieci ogni cosa che io creerò, ogni punto ed ogni linea che traccerò, saranno vita essi stessi.
Invito tutti quelli che allora mi conosceranno ad accertarsi della verità di queste mie parole.
Scritto all’età di settantatre anni da qualcuno un tempo conosciuto come Hokusai e oggi chiamato “un vecchio pazzo per il disegno”.

Non ho proprio nulI'altro da aggiungere.

RICAPITOLIAMO:

1) L 'Ispirazione è un invenzione di autori più o meno capaci (ma comunque non nullatenenti) per giustificare il proprio ozio. Balzac, che non era un cretino, si imponeva di scrivere una pagina al giorno, qualunque fosse il suo umore.
2) il ritmo di ciò che scrivete è essenziale. Può essere un Largo, un andante, una fuga o qualunque altra forma musicale vi venga in mente, ma un ritmo percepibile DEVE esserci.
E non pensate di cavarvela con la paratassi più singhiozzante, anche se lo fanno in troppi. Una paratassi troppo accentuata si fà leggere più velocemente ma non lascia tracce nel lettore.
3) La lingua parlata è lingua parlata e la lingua scritta è lingua scritta. Si può COSTRUIRE una felice traduzione dell'una nell'altra ma, come diceva Baldwin, dovete essere due volte meglio e non una volta peggio. Se non ve la sentite accontentatevi di una lingua convenzionale e "letteraria".
4) Esiste gente che perora la causa della lingua semplice e sincera, contrapponendola alla lingua letteraria: astrusa, cerebrale e falsa. Ecco un modo molto stupido di affrontare un problema reale. Di fatto, una lingua semplice (nel senso di povera) non è afflitto sincera. Se conoscete 300 parole (di cui 50 sinonimi attinenti alla copula) è molto difficile che riusciate a esprimere pienamente Perlomeno a parole) ciò che provate. La lingua povera nasconde invece di rivelare, confonde piuttosto che descrivere. Se per lingua semplice si vuole invece intendere la lingua letteraria di scrittori come Salinger o Baldwin non rimane che suggerire allo zebedeo in questione di provarci personalmente.