3.3.11

Libri letti, alla rinfusa

Mi piacerebbe che i libri che leggo mi rimanessero in mente un po' di più.
Non nel senso di ricordare perfettamente frasi e descrizioni o di rammentare a menadito trama e intreccio, mi basterebbe ricordare con maggiore precisione e migliore acutezza le emozioni che i libri mi hanno creato.
Viceversa si tratta di una situazione piuttosto rara, regalatami da libri diversi per spunto, tema e intenzione - biografie, saggi, romanzi, pamphlet.
Sospetto che questo genere di ricordi sia appannaggio di una qualità intrinseca al libro, dovuta a una prerogativa che non ha molto a che vedere con le sue caratteristiche quanto piuttosto a qualcosa che ha a che fare al rapporto tra "me" e l'autore.
Un libro può colpirmi ed essere meglio ricordato se colgo un modo di accostare l'argomento che mi appartiene. Un tratto più netto che mi è familiare come potrebbe essere un approccio sottilmente divertito, un'ira sfumata in malinconia, un'ansia nel riflettere su se stesso e sulla propria esistenza. Non ho molta simpatia né riesco facilmente a ricordare i libri che - più o meno consciamente - mi appaiono come artefatti, nati per lusingare (e illudere) il lettore.
Dopo - e soltanto dopo - vengono altri elementi come la competenza specifica (nel caso di saggi), l'impianto della vicenda (se narrativa) o un'altra dozzina di elementi ritenuti importanti dal lettore.
Certo, gran parte dei libri pubblicati è fatto di un mix di astuzia e ingenuità, di calcolo e passione, di intenzione, premeditazione e casualità e ben pochi di essi risultano abbastanza definiti da poter essere ricordati, magari anche a lungo, ma ciò non toglie che sia possibile cogliere un gusto o un colore prevalente che rende più o meno gradita le lettura.
...
Permutation City di Greg Egan non è un libro nuovo.
Anzi.
Faceva parte della collana «Cyberpunkline», puri anni '90. L'editore è ShaKe, altro pezzo originale anni '90 - anche se tuttora operante sia pure a mezzo o un quarto di servizio.
Egan è autore con una pericolosa tendenza all'oscurità e non in un senso tolkeniano. L'oscurità di Egan è di natura puramente concettuale e deriva, temo, da un Q.I. che dev'essere più o meno i quadruplo del mio.
Ordinario australiano di matematica Egan non può evitare, anche se onestamente si sforza, di inserire qualche «teorema facilmente dimostrabile» nelle sue vicende e nelle sue descrizioni rendendo i suoi libri affascinanti ma anche mortali come un trattato di fisica stellare.
Tutto ciò è stato vero per Incandescence, pubblicato da Mondadori in Urania nel 2008, curioso racconto di formiche aliene e intelligenti che vivono su un pianeta satellite di un buco nero, ed è vero anche per Permutation, racconto di un'umanità futura - ma non troppo, dove alcuni individui particolarmente ricchi hanno avuto la possibilità di perpetuare se stessi in eterno in un universo virtuale che tuttavia, vista la necessità di potenza richiesta ai computer per ricreare un universo sensibile, comporta un ritardo rispetto alla vita reale di 1:16 Questo ovviamente comporta qualche problema imprevisto e almeno in parte imprevedibile, come la sostanziale impossibilità di chi si è riprodotto nella realtà virtuale di interagire con il mondo reale. La soluzione in apparenza più assurda (ma più affascinante) può essere quella di «separare» il mondo reale da quello virtuale, creando un complesso e definitivo metaverso destinato a durare più o meno in eterno. Ma anche questa soluzione si rivela ben presto carica di pericolosi risvolti.
Un romanzo ricco, potente e suggestivo, che non sembra aver sofferto della diffusa perdita di entusiasmo per la virtualità possibile. Basti pensare al malinconico destino di Second Life... Persino la proverbiale rigidità di Egan nel rappresentare i personaggi, sempre fatalmente schiacciati dalla magnipotenza dell'infodump, sembra meno nitida, lasciando che emergano caratteristiche personali e frammenti di una possibile storia personale.
Per rimanere nello stesso campo segnalo volentieri un'antologia uscita già da qualche mese e ormai temo sostanzialmente introvabile. Parlo di Pianeti dell'impossibile, Urania Mondadori Millemondi, curata da J. e K. Morrow, dove appaiono sedici racconti di autore europeo (continentale) scelti per conto della SFWA, l'Associazione degli scrittori di sf americana. Racconti di un livello più che discreto con alcuni acuti (il russo Lukjanenko, la finnica Siniselo, il tedesco Eschbach, il polacco Huberath, il danese Ribbeck) un capolavoro assoluto, Il pianeta muto della russa Elena Arsenieva - racconto dedicato a Efremov - e una segnalazione per il racconto di Evangelisti, autore che conosco molto poco (mai letto, lo ammetto) ma che se la cava più che bene con un racconto di ambientazione carceraria - Sepultura, come l'omonimo gruppo heavy metal - un po' gore nell'ambientazione ma di buona efficacia. Ahimé superflui i due racconti di autore francese. Non è xenofobia al contrario, ma semplice intolleranza, forse noia, per un modo di narrare sin troppo autocompiaciuto. Curiosa e memorabile una frase riportata nell'introduzione di Morrow che riporto volentieri: «Per un europeo cento chilometri sono tanta strada, per un americano cento anni sono tanto tempo...»
Cambio di registro e di paesaggio.
Rosa Matteucci, autrice di di Tutta mio padre, edito da Bompiani nel 2010, è una mia vecchia conoscenza, sia pure nei panni di «autore Adelphi». Assolutamente impagabile - da incontrollabile convulso di risa - Lourdes, un libro carico di un'ironia tanto intensa e gelidamente lunare da lasciare il lettore (felicemente) sconcertato. Principale difetto della Matteucci è la sua discontuinità, ovvero ciò che si può immaginare come la necessità di tirare il fiato tra un punngente ritratto o un allucinato quadro e l'altro. Matteucci - e questo può piacere o meno - dimostra un'attenzione scrupolosa fino all'eccesso nel tratteggiare caratteristiche e fissazioni di un personaggio o di un gruppo di personaggi, così deliziosamente pignola da finire per cancellare lo sfondo, uno sfondo che finisce spesso per scomparire completamente o diventare un fondale di cartone di interesse scarso per l'autore come per il lettore.
Spiegate queste poche cose su Rosa Matteucci posso affermare che questo suo Tutta mio padre è qualcosa di più e di diverso da un semplice e genialmente sarcastico racconto lungo. I rapporti tra una donna e suo padre sono difficili e di una complessità non facilmente risolvibile. E lo dico (anche) per esperienza personale (...). Il giudizio di una figlia verso il padre è, nel contempo, spietato e misericordioso, talvolta divertito o sarcastico, disperato o carico di rammarico, grandiosamente assurdo o rabbiosamente irridente. Tutti le facce di un cristallo così complesso che si riconoscono senza difficoltà nel libro della Matteucci, raccontate con gusto e intelligenza. Il suo io narrante - la figlia - racconta la storia del lento, fatale e maliconicamente spassoso crepuscolo della sua famiglia. C'è una sfumatura acida e amara nel suo narrare, un eccesso di confidenza che si volge in una rabbia oscura e mai dichiarata, un senso di delusione ormai acquietato ma non senza dolore, una considerazione fredda e scabra della propria attuale condizione. Un buon libro, senza dubbio, da leggere con attenzione, pronti a sorridere ma senza poter dimenticare la chiave amara del romanzo.
Due libri di storia, ora.
La resa di Roma di Giusto Traina (Editori Laterza) e La battaglia di Anghiari di Niccolò Capponi (Il Saggiatore).
Due libri dedicati a una battaglia fondamentale per la storia di quegli anni, la prima, avvenuta nel 53 a.C., che fermò l'avanzata di Roma in Oriente e la seconda che indirettamente fu la premessa necessaria alla nascita e alla fortuna del Rinascimento.
Almeno parzialmente deludente il primo mentre felicemente riuscito il secondo.
Il problema principale de La resa di Roma - come anche l'autore ammette in diversi momenti del suo libro - è la mancanza o la parzialità di fonti persiane coeve o successive a controbilanciare una storiografia romana ricca ma fatalmente parzialissima, non solo nel raccontare la battaglia e il suo esito ma anche nell'addossare a Marco Licinio Crasso la responsabilità di non aver saputo preparare la campagna, la cieca avidità già dimostrata nel saccheggio dei tesori della Siria e la sottovalutazione delle difficoltà connesse all'attacco a un popolo da secoli maestro di guerra.
Personalmente serbavo un ricordo vago ma sufficientemente netto del giudizio degli storici romani su Crasso: un ricco babbione, avido e sciocco, che superficialmente aveva condotto l'esercito romano a una grave sconfitta, un giudizio probabilmente ingeneroso che il libro di Traina è riuscito almeno in parte a modificare. Le esitazioni, i dubbi, i tentennamenti di Crasso in Siria, incerto se attaccare o meno i Parti sono state utilizzate nella pubblicista storica di autori come Livio, Plutarco, Cassio Dione per evidenziarne la sua vuota albagia e la sua rapacità soprattutto se contrapposta alla temibile potenza dell'Impero durante il quale essi scrivono, mentre a un esame più attento finiscono per emergere i motivi - tutt'altro che disprezzabili - della sua condotta. Non diverso il discorso per la sorte toccata alle spoglie mortali di Crasso che Livio dichiara indegnamente esposte alle intemperie e ai predatori, viceversa - probabilmente - semplicemente abbandonate agli animali necrofori secondo l'usanza zoroastriana.
Con tutto ciò - e questo non vuole minimamente essere un giudizio polemico - il libro di Traina spesso non è nulla di più di una buona esibizione di competenza bibliografica.
La battaglia di Anghiari è un ottimo esempio di come trovare un filo credibile , ragionevole e persino appassionante per presentare un evento militare non dei più importanti e sanguinosi – comunque ben lontano dalla tradizione voluta dal Machiavelli di «battaglia con un solo morto» – ma comunque decisamente importante nella situazione italiana della prima metà del 1400. Il ducato di Milano, guidato da Filippo Maria Visconti, era teso in quegli anni a raggiungere una situazione di predominio nell'Italia settentrionale e centrale, compito reso per nulla agevole dalla presenza di altre potenze italiane e straniere - La Serenissima, la Firenze prima comunale poi medicea, il Papato, l'Impero, il Regno di Napoli - altrettanto assorbite alla tutela dei propri interessi e in qualche caso, come nel caso di Venezia, all'espansione della propria area di influenza.
In un tempo di alleanze incerte e volubili, di capitani di ventura preoccupati in primo luogo della propria personale armata e in secondo luogo della possibilità di ritagliarsi un proprio personale principato, si muovono i personaggi di una complessa e contradditoria commedia dell'arte. In primo luogo l'acuto, infido, opportunista (e obeso) Duca Filippo Maria Visconti in compagnia dell'astuto Signore Lorenzo de'Medici e del suo nemico giurato, Rinaldo degli Albizzi, Papa Eugenio IV, il vescovo Giovanni Vitelleschi, l'imperatore Sigismondo del Lussemburgo, gli Aragone e gli Angiò, i Dogi Foscari e Mocenigo di Venezia e tutti i capitani - Enea Silvio Piccolomini, l'Attendolo, Il Gattamelata, Il Carmagnola, Braccio da Montone, solo per citarne alcuni - a movimentare un panorama politico e militare spesso incomprensibile per un lettore del XXI secolo. Meriti principali del libro: a) rendere comprensibile una situazione altrimenti complessa fino all'inafferrabilità, b) dare un significato a una battaglia «tra milanesi e fiorentini» che ai nostri giorni risulta qualcosa di assurdo, un evento improbabile che sta tra lo scontro da stadio e la baruffa condominiale, c) dare alla battaglia un significato risolutivo per lo sviluppo dell'arte fiorentina e dell'intero Rinascimento. Una lettura che consiglio volentieri, anche per la vivace prosa dell'autore.
Passando a tutt'altro veniamo a Divorzio all'islamica a Viale Marconi di Amara Lakhous, edizioni e/o. Un libro gradevole, divertente e sorprendente fin quasi al termine, con un finale davvero un po' troppo frettoloso. La vicenda narrata è quella di Christian Mazzari, siciliano di genitori tunisini nato a Mazara del Vallo e cresciuto in mezzo ai figli dei pescatori tunisini, capace di parlare l'arabo «come lingua madre» e dotato di un «fisionomia mediterranea». Collaboratore al tribunale di Palermo viene avvicinato da un ufficiale del SISMI che lo arruola per una missione antiterrorismo. Si tratta di tenere sotto controllo un gruppo di egiziani a Roma, sospettati di essere fiancheggiatori di Al Qaeda. Spacciandosi per un immigrato tunisino, Christian si infiltra nella comunità degli immigrati musulmani avendo così modo di raccontare ai lettori il loro stile di vita - o più correttamente di «sopravvivenza»- le abitudini, il modo di vedere se stessi e il loro lavoro, di immaginare il proprio futuro e di interagire con gli italiani e gli altri immigrati.
A fare da contrappunto al racconto di «Issa», pseudonimo scelto da Christian, il racconto di Safia - italianizzato in Sofia - parrucchiera abusiva e moglie di un immigrato egiziano molto ligio a una lettura particolarmente integralista del Corano. Fatalmente Issa e Sofia intorno ai tre quarti del romanzo entreranno in contatto e giungeranno (probabilmente) a coronare il loro sogno d'amore nell'ultima confusa parte del libro.
Romanzo che vien voglia di definire «più furbo che bello», Divorzio all'islamica è comunque una lettura che merita. Un po' per conoscere il modo di vedere la realtà quotidiana di milioni di immigrati musulmani, un po' per capire come loro ci vedono e ci giudicano. Può sembrare strano, ma consiglio a chi vorrà leggerlo di leggere prima di tutto il mediocre finale, ovvero le ultime 4-5 pagine. Dopodiché sarà decisamente piacevole leggerne il resto, senza fretta né ansie.
Ogni promessa di Andrea Bajani è un libro che non recensirò per alcuni buoni motivi. Primo tra tutti il fatto che conosco piuttosto bene l'autore (e finora siamo stati un buoni rapporti... ) e in secondo luogo perché mi sono impiantato ormai da mesi intorno a pagina cento e, nonostante numerosi tentativi, da lì non riesco a proseguire.
«Noia infame?»
Lo so, questa è la prima cosa che viene in mente leggendo di qualcuno che non riesce a finire un libro. Io stesso giungerei alla stessa conclusione se si parlasse di qualcos'altro. Ma non è una conclusione che posso sottoscrivere. Posso fare altre ipotesi. Che, per esempio, la trama del libro sia talmente fitta e sottile da scoraggiare un rapporto prolungato con esso. O che lo sguardo dell'autore sia una specie di succhiello che da ogni minimo gesto riesce a estrarre un mondo completo di emozioni, ricordi, visioni, tanto che un povero lettore sia chiamato costantemente - mentre procede con la lettura - a dover scalare montagne narrative via via più alte e sempre meno praticabili. O, ancora, che lo sguardo del lettore si perda costantemente nel tentare di mettere a fuoco vicende che hanno un andamento incostante, riflessivo, troppo denso. O, infine, che l'intero libro sia stato concepito e scritto da qualcuno che - non facendo parte della specie umana - avverta la costante necessità di rendere efficacemente non soltanto ogni gesto e ogni parola in scena ma anche ciò che ordinariamente non viene espresso né percepito.
In sostanza ho la sensazione di aver urtato in un libro che non sono riuscito - e presumibilmente non riuscirò mai - a far mio. Non escludo la possibilità di finirlo, naturalmente, ma per il momento sono fermo. Più o meno come un viaggiatore sulla Via della Seta davanti all'Oxo in piena primaverile. Immobile, anche se indubbiamente stupito.
Un salto laterale, ora, per un libro che si potrebbe, probabilmente, definire un Urban Fantasy. O un romanzo di fantascienza decisamente fuori squadra. Parlo de La torre del tempo di Sergej Lukjanenko, edizione originale russa 2005. Un uomo ritorna a casa dal lavoro e nel suo appartamento vive ora una donna a lui sconosciuta. Non solo: l'arredamento della casa è radicalmente mutato e nulla lascia intuire che quell'appartamento fino a poco prima sia stato suo. In breve tempo anche i suoi amici e persino i suoi genitori lo eliminano dalla propria vita, dimenticando e rimuovendo la sua esistenza e tutte le esperienze comuni che l'hanno riguardato. Quando la sua incredulità, la confusione e il suo terrore sono giunti al massimo si fa vivo un emissario di una sconosciuta potenza che gli propone di diventare un funzionale...
Un romanzo divertente e decisamente gradevole, capace di conciliare le piccole nevrosi quotidiane di un single trentenne con stupefacenti avventure pluridimensionali, senza dimenticare l'esistenza - una costante per un protagonista russo ex-sovietico - di bizzarre entità ultraburocratiche e metapolitiche che dominano i rapporti della nostra Terra con tutte le altre possibili Terre.
Romanzo in teoria rivolto a un pubblico di teen-ager (o così perlomeno ha deciso Mondadori per l'edizione italiana) ma in realtà ricco di riferimenti letterari che divertono non poco il lettore, soprattutto, ovviamente, se non eccessivamente giovane. Ma evidentemente la sf non dev'essere presentata come tale al lettore, pena il presunto clamoroso fiasco del libro e dell'autore. Meglio, piuttosto, presentarlo come romanzo giovanile, anche se con qualche passaggio sexy e ricco di citazioni letterarie...
Rimanendo nel campo del fantascientifico dell'est europeo lo stupendo La Voce del Padrone di Stanislaw Lem. Un romanzo scritto in prima da un geniale matematico che, tuttavia, pur avendo partecipato al Progetto, è costretto ad ammettere il sostanziale fallimento nel tentativo di comprensione dell'enigmatico messaggio giunto dalle stelle. Per giungere a questa conclusione - già preventivamente ammessa all'inizio della sua lunga confessione - il protagonista racconta dei numerosi e vani tentativi di giungere a un'interpretazione del messaggio alieno e degli assurdi e incomprensibili biofatti nati dall'interpretazione parziale di esso. Narra degli scienziati coinvolti nel Progetto, delle loro debolezze e meschinità come delle interminabili incomprensioni ed equivoci che li contrappongono. Racconta dei tentativi di creare nuove e temibili armi interpretando parti del messaggio e del maliconico fallimento del progetto. Ancora una volta, come accade in Solaris, l'intelligenza umana si mostra sostanzialmente impotente e incapace di comprendere le dimensioni, il senso e le intenzioni di altre creature.

...L'uomo è riuscito a staccarsi, a ricordare, a compatire gli altri, a immaginare gli stati d'animo e i sentimenti... cosa per fortuna non vera. In questi tentativi di pseudoimmedesimazione e di trasfert riusciamo a intravedere in modo vago e imperfetto solo noi stessi. [...] Siamo come lumache, attaccate ognuna alla propria foglia.

Caccia al Pianeta X di Govert Schilling, Springer editore è il racconto del lungo rapporto tra i planetologi e la fascia dei pianetini ultranettuniani, che ha avuto come sua più recente conseguenza il declassamento del pianeta Plutone - in compagnia del suo satellite Caronte - da pianeta maggiore del Sistema Solare a pianetino in compagnia di Eris, Quaoar, Sedna, Santa e altri 150 piccoli pianeti della Fascia di Kujper, limite estremo del sistema. Interessante notare che il brusco - secondo alcuni brutale - declassamento di Plutone nasce in ultima analisi dalla ricerca di un pianeta extranettuniano (il pianeta X) che potesse spiegare le perturbazioni orbitale dell'ultimo dei maggiori pianeti solari. La ricerca del pianeta X e in secondo luogo della stella Nemesi, possibile responsabile della serie di estinzioni di massa che hanno segnato la storia della Terra, è il filo rosso che unisce la lunga e vivace serie di ritratti di planetologi via via allineati nel libro. Come accade molto spesso nei libri di argomento scientifico il volume si chiude rimandando al futuro eventuali conclusioni. La ricerca di nuovi pianeti - sia extrasolari che solari - è tuttora in pieno svolgimento e nuove scoperte sono possibili letteralmente ogni giorno.
Ancora tre libri. Cercherò di essere più veloce.
Quando Dio morì di Nicola Somenzi è uno dei romanzi scelti nell'ambito del progetto Alga.
Buono, anzi ottimo, l'attacco – una vasta area dell'Europa e dell'Asia è coperta da uno strato di nubi che coprono costantemente il cielo – e una vicenda che cresce gradualmente aumentando il peso dei nodi da sciogliere. Alla fine, com'è inevitabile, lo scioglimento si rivela debole e cervellotico, dando a tutta la vicenda una coloritura innaturale e sottilmente assurda. Ma tanto di cappello all'autore per essere riuscito a farsi leggere o leggiucchiare fino alla fine. Da notare lo stile curioso del racconto che può piacere o meno - a me non è piaciuto, ma io sono un pallosissimo e un po' formale lettore di fantastico - ma che impone al lettore una maggiore vicinanza con il protagonista, anzi un'inattesa confidenza. Uno stile che appare mediato dal linguaggio dei messaggi on line o dei blog più disinvolti e autodiretti. Personalmente sono convinto che la lingua sincopata e i modi rapidi siano perfetti per una comunicazione veloce e per presentare se stessi in modo informale, ho - viceversa - qualche grosso dubbio sulla riuscita in campo narativo. Ma rimango disponibile a discuterne.
Meriterebbe probabilmente più spazio I salici ciechi e la donna addormentata di Murakami Haruki. Tanto più trattandosi di un'antologia. Ma siamo alla fine dello spazio (ragionevole) di un post e qualche taglio è necessario.
«Sì, ma perché proprio a Murakami?»
Mah, probabilmente perché questa antologia mi è parsa un po' (troppo) diseguale e non del tutto riuscita. Vagamente ricucita come un collected paper messo insieme nonostante l'autore sia ancora vivo. Un'antologia è una strana creatura. Basta un racconto non del tutto riuscito per proiettare un'ombra su tutto il lavoro, lasciando un'impressione di incompiuto, di goffo. O forse dovrei semplicemente dire che il Murakami breve di alcuni di questi racconti mi è apparso talvolta inuguale, incerto, vago. In ogni caso ho talvolta avvertito la distanza profonda di Norwegian Wood o de L'uccello che girava le viti del mondo. Posso sbagliarmi, ovviamente, e di non pochi di questi racconti potrei dirmi soddisfatto. Probabile che avrei dovuto, semplicemente, leggerne pochi alla volta e non infilarmene ventiquattro in poco tempo. In ogni caso questa non è né vuole essere una recensione. Al massimo un breve consiglio: non leggete Murakami affrettatamente!
La balena del cielo di Luca Masali non è esattamente una novità. Pubblicato nel 2008 da Sironi l'ho letto tempo fa ma dimenticandomi di inserirlo tra i libri recensibili.
Sono tre racconti di lunghezza decrescente, ambientato il primo sul lago di Garda, nel 1927, il secondo a fianco di Nobile sul dirigibile Italia nel 1928, il terzo a Guernica nell'aprile del 1937. Protagonista ancora una volta il capitano triestino Matteo Campini, ex-aviatore dell'Imperial-regia aeronautica austriaca divenuto italiano soltanto alla fine della Prima Guerra Mondiale. L'antologia è anche la terza e ultima parte delle gesta del capitano Campini. Curioso tipo di fantastico, quello di Masali, accortamente ritagliato nelle pagine meno note di storie peraltro famose. Delle vicende dei suoi personaggi, vissuti nella prima metà del secolo scorso, non rimane - non casualmente - nessuna traccia. Una storia «irregolare», curiosamente simile ma qualitativamente molto superiore a certi episodi di x-files, perfetta per personaggi abbozzati con cura e humour. Una produzione non abbondante, quella di Masali, e per certi versi assai poco italiana. Un pregio, visti i tempi che corrono.
...
Fine, ringrazio di cuore tutti coloro che hanno letto questa interminabile sbobba fino all'ultima riga. Non sarà l'ultima volta che abuserò della vostra pazienza, presentandovi libri anche non più disponibili o scarsamente reperibili. D'altro canto, non sono qui per vendere, come probabilmente si sarà capito...

Gordon R. Dickson, una riflessione

Mi attende un nuovo appuntamento con il prox LN, ovvero con i libri letti in questi mesi.
Una pila di rispettabili dimensioni qui sullo scaffale accanto alla scrivania.
E non ci sono tutti.
Ci sono anche i libri riletti, recuperati nella casa di vacanza e letti con un misto di rimpianto, curiosità e diffidenza.
Queste poche note sono dedicate a un autore che più o meno quarant'anni fa ha avuto un certo peso nella mia formazione e che ho recentemente riletto.
Gordon R. Dickson.
Scomparso nel 2001, vincitore di tre premi Hugo con due romanzi e un racconto.
Un autore ritenuto di destra, una collocazione perfettamente confermata alla rilettura del suo ciclo dei Dorsai. I Dorsai sono combattenti nati. Di origine, si intuisce, scozzese. Cresciuti su pianeti freddi e poco popolati. Vogliono rappresentare, nel vasto panorama dell'universo futuro, la razza umana più profonda e sincera, gente in grado di resistere agli inganni e alle lusinghe di una società complessa e raffinata.
Il ciclo del Dorsai ha relativamente poco di fantascientifico nella descrizione dei diversi mondi. E la guerra è narrata con frasi e modi che richiamano immediatamente la Corea, il Vietnam o le Ardenne dell'ultima guerra mondiale. Le astuzie dei Dorsai non appaiono particolarmente geniali o originali - a uno sguardo più attento e meditato, e i raffinati disegni dei politici hanno qualcosa di un po' meccanico. Inevitabile scuotere la testa con un mezzo sorriso.
L'umanità si è divisa e separata secondo le proprie diverse caratteristiche di temperamento e capacità. I mistici, i religiosi, i tecnologici, gli economici, i militari. Ognuno con il proprio pianeta, unito o separato dagli altri dal tipo di controllo condotto sulla mano d'opera. Puoi essere venduto a un altro pianeta senza possibilità di discuterne o essere ceduto secondo la tua disponibilità e i tuoi interessi.
Il modo di trattare il personale specializzato - scienziati, guerrieri, ingegneri, bibliotecari o preti - determina la posizione politica del pianeta nell'universo umano. «Comunista», se è il pianeta a decidere per te, oppure «liberale». Inevitabile constatare ora, anno 2011, tutta la banale semplificazione di questo modello di società futura.
Ma che cosa diavolo mi piaceva allora, a sedici-diciassette anni?
Non è stato facile capirlo ma lentamente ho avuto la sensazione di capire che cosa mi motivava allora e che, probabilmente, tuttora lo fa. Non è tanto la simpatia per il pensiero di destra - anche se debbo ammettere che a sedici anni ero ferocemente anticomunista - ma la sensazione di aver afferrato uno dei tanti fili che spiegano (forse) la nostra esistenza su questo pianeta. Il senso di un Destino - sia pure meno rigido e schematico di quello postulato dal buon Dickson, autore tra l'altro purtroppo ormai semidimenticato - che rende ognuno di noi, povero o ricco, intelligente o ottuso, unico e inconfondibile.
Curiosamente una delle radici del mio pensiero e della mia visione del mondo successiva.
La convinzione profonda che sia possibile arrivare a un mondo dove « da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo le proprie necessità».
Un passaggio curioso, lo ammetto. Da Gordon Dickson a Vladimir Ilic Ulyanov detto Lenin, ma tutto sommato possibile. Al centro la dialettica tra l'umano e la società, una dialettica - ovvero una separazione e uno scontro - che è al centro (inaspettatamente) anche dell'opera di Dickson. Un autore sinceramente laico, giova ricordarlo, che tuttavia non aborre il pensiero mistico, tanto da giungere a immaginare i pianeti Amici dove Dio è immanente, onnipresente (e invadente) e che, pur sconfitti, non scompariranno dal panorama dei mondi umani. A confemare che anche la religione più fondamentalista ha un senso, un colore e uno scopo nell'esistenza umana. Non necessariamente positivo, ma reale.
Una fantascienza un po' infantile e un po' goffa, siamo d'accordo, ma carica di un'ansia d'espressione e di comunicazione che non è facile trovare in ambito letterario.
Mi riconcilio con me stesso, in fondo.
Non ero un fesso fascista, allora, ma semplicemente un fesso avido di nozioni, idee e riflessioni.
Più o meno ciò che sono tuttora.



2.3.11

Libri letti. Anche solo uno per volta...

La crisi.
Una semplice parola che coinvolge la vita e il destino di miliardi di persone.
Basti pensare a ciò che è accaduto e che accade nel Nordafrica. A una crisi che ha già masticato uno stato come la California e altri stati americani. Ma anche l'Islanda, la Grecia, l'Irlanda, e l'Ungheria, solo per citare i casi più noti e discussi. In tutto ciò l'Italia risulta non pervenuta. Pur vantando il rapporto tra PIL e il debito nazionale al terzo posto tra i paesi del mondo continuiamo a sentire il ministro dell'economia del governo Berlusconi ripetere che non c'è motivo per preoccuparsi. Il dubbio è che il deficit sia stato «nascosto sotto il tappeto», pronto a emergere sotto il primo governo post-berlusconiano.
Questa crisi ha sostanzialmente sbriciolato l'UE, dividendola tra paesi d'acciaio come la Germania o la Francia e P.I.G.S:, ovvero Portogallo, Irlanda (o Italia, secondo alcuni), Grecia e Spagna. Sempre più lontana ogni prospettiva di unità politica, l'UE si è ridotta a una fabbrica di norme e direttive cervellotiche, assurde o francamente discutibili.
Che cosa sia stata, sia o sarà la crisi che ha colpito il mondo non è affatto chiaro. Dai quotidiani, in qualche modo schierati nell'universo politico-economico e troppo spesso non sufficiente informati sui temi trattati, risulta sostanzialmente impossibile farsi un'idea sia pure insufficiente e provvisoria della situazione economica mondiale. Sicché non rimane altro da fare che affrontare il tema sulle pagine di un libro.
Personalmente sono sostanzialmente un ignorante in materia economica, anche se - perlomeno - non schierato in prima persona a difesa di un fondo pensionistico o di qualche piccola speculazione. Sono un poveretto, in sostanza, di formazione scientifica, appena appena in possesso di qualche rudimento di dottrina economica marxiana e di qualche disperso elemento di politica economica.
Il libro che ho scelto per tentare di informarmi è pubblicato dalla Feltrinelli. Il titolo (poco incoraggiante) è La crisi non è finita e gli autori sono Nouriel Roubini e Stephen Mihm. Trattasi di due docenti universitari americani. Il primo - di origine turca - è rimasto famoso per aver previsto questa crisi in un suo intervento del 2006 davanti al FMI. Inutile dire che all'epoca non fu preso molto sul serio, anche se adesso «è riconosciuto come uno degli economisti più autorevoli del mondo».
Tesi essenziale di Mr. Roubini (faccio una certa fatica a non scrivere «Houdini») è che «I disastri economici non siano "cigni neri": eventi unici e imprevedibili, privi di cause specifiche. Al contrario, i cataclismi finanziari sono antichi quanto il capitalismo stesso e si possono prevedere».
La crisi, in sostanza, non ha molto di inatteso o di imprevedibile. Nata, in apparenza, dal crollo delle società che operavano nel settore finanziario dei sui mutui edilizi, ha ben presto coinvolto finanziarie e banche negli USA e in Europa. La crisi di finanziarie e banche ha fatalmente coinvolto le banche centrali che sono intervenute a sostenerle aumentando il debito pubblico dei paesi coinvolti e in qualche caso - come in Islanda - giungendo a una sostanziale situazione di bancarotta.
Era necessario e inevitabile intervenire a difendere le Banche e la finanziarie?
A meno di non essere dei sostenitori convinti di Schumpeter e della scuola viennese converremo tutti che - sia pure a malincuore - era necessario sostenere le banche perché la crisi non evolvesse verso ulteriori e intollerabili sviluppi.
Ma a parte l'intervento statale è stato fatto qualcosa per evitare di ritornare ben presto a nuove crisi? Si sono tagliate le unghie alle banche d'investimento rapaci che hanno largamente contribuito alla crisi con i propri strumenti finanziari dai nomi impronunciabili, acronimi di una serie di parole di dubbio significato. I CDO - collateralized debt obligations - nati dai cervelli di Wall Street, che Roubini definisce come:

«Il prodotto di un gioco di prestigio: si prendeva un mucchio di mutui subprime di rating BBB [da wikipedia: "Un mutuo subprime è, per definizione, un mutuo concesso ad un soggetto che non poteva avere accesso ad un tasso più favorevole nel mercato del credito"], incerti e rischiosi, li si impacchettava in un titolo garantito dai mutui ipotecari, sempre di rating BBB, che veniva suddiviso in tranche; a quella di tipo senior [categoria di titoli di reddito più basso ma in apparenza privo di rischi] si dava quindi un rating AAA. Con questo processo si trasformavano rifiuti tossici in titoli placcati in oro, nonostante il fatto che il pool di mutui sottostanti fosse rischioso esattamente come prima».

Ed è grazie a questo genere di «prodigi» e della loro (prevedibilissima) crisi che si è giunti ad avere una quantità impressionante - e fuori dalla realtà - di liquido circolante del quale, inevitabilmente, il mondo finanziario è stato chiamato chiamato a rispondere.
Un fenomeno, quello delle «bolle» finanziarie, che si è presentato diverse volte nel corso della storia del capitalismo, come Roubini riassume all'inizio del suo libro. Dalla seicentesca «mania dei tulipani» che scosse il neonato capitalismo, alla vicenda del XVIII secolo della compagnia francese del Mississipi, alla «bolla» del Perù (inizio dell'800) che colpì le banche inglesi, alla crisi del 1873, basata sulla speculazione sulle ferrovie americane, fino alla famigerata crisi del 1929 negli USA.
Tratto comune di tutte queste crisi il gonfiarsi a un livello eccessivo e assurdo il valore di un bene (dai bulbi di tulipano alle azioni fino ai CDO e simili dell'ultima crisi) fino a quando tale valore non raggiunge il suo massimo per poi schiantarsi miseramente insieme ai beni di tutti coloro che avevano creduto che «questa volta è diversa dalle precedenti».
Uno dei principali problemi creati da quest'ultima crisi e dalla reazione delle principali economie mondiali è, non a caso, l'esborso che i governi mondiali e quello americano in primis hanno dovuto sostenere per sorreggere il proprio sistema creditizio. Un esborso che quasi mai ha previsto un intervento parallelo sulle banche d'affari e sulle società finanziarie che possono tranquillamente la propria attività con CDO e derivati finanziari d'ogni genere, sostenuti da un sistema di agenzie di rating (Standard & Poor's, Moody's e Fitch) che ha più volte mostrato la propria parzialità di giudizio, particolarmente nei confronti di coloro che erano chiamati a controllare - e che risultavano, nel contempo, finanziatori della loro attività. Non solo, anche il sistema di retribuzione del management - assolutamente assurdo nella sua smodata ed eccessiva dimensione - non ha subito le drastiche riduzioni che in molti avrebbero ritenuto adeguate al momento e alla situazione, anche perché un management che guadagna da qualsiasi manovra finanziaria non risulta il soggetto migliore a guidare un'azienda, se non altro perché troppo evidentemente parte in causa.
Giova anche, comunque, ricordare - come Roubini puntigliosamente fa - lo stato particolare del dollaro americano come valuta di scambio, parzialmente slegata dalla semplice circolazione interna americana. Questo significa che gli USA possono giungere a livelli di debito pubblico impensabili per altri paesi e che potrebbero aumentare la circolazione mondiale di dollari senza correre rischi immediati. Il problema principale, in questo caso - esattamente ciò che sta avvenendo - è il riprendersi dell'inflazione che, unita alla crisi economica in corso, viene a creare ciò che gli economisti chiama «Stagflazione», ovvero l'accoppiata solo apparentemente autocontradditoria di inflazione e depressione. Un rischio tutt'altro che improbabile.

«I creditori esteri degli USA [Cina, Russia, Giappone e il blocco di paesi esportatori di petrolio] non resterebbero passivi di fronte a una brusca riduzione del valore reale delle attività denominate in dollari. [...] Il disfarsi in fretta e furia della valuta statunitense, potrebbe provocare un crollo del dollaro, un'impennata dei tassi di interesse a lungo termine e una grave depressione.»

A complicare ulteriormente il quadro si aggiunge il problema di una globalizzazione che, nelle sue modalità più evidenti, colpisce e continua a colpire la forza lavoro dell'occidente, spostando - come sappiamo - lavoro, impianti e lavorazioni in paesi con un costo pro capite del lavoro nettamente più basso.

«Sfortunatamente mentre la finanza si è globalizzata, la sua regolamentazione rimane una questione nazionale. Tutto questo non fa che accrescere la probabilità di crisi future che potrebbero assumere proporzioni globali

Giungere a una regolazione sovranazionale della globalizzazione, graduale sostituzione della valuta internazione di scambio, un controllo più attento ed efficace della finanza: queste sono solo alcuni dei rimedi proposti da Roubini per sventare la possibilità - o la probabilità - di un'ulteriore crisi.
Non ho né la competenza né la preparazione per entrare nel merito delle proposte di Roubini. Sono comunque certo che per comprendere almeno qualcosa della crisi (tuttora in atto) il suo volume sia utile. Forse addirittura indispensabile. Che la crisi in atto non abbia nulla di «straordinario» è un dubbio che mi ha accompagnato negli ultimi mesi. Che le affermazioni ottimistiche di Greenspan, governatore della Federal Reserve, non fossero altro che tentativi di vendere al mondo pietose buglie era un dubbio per me impossibile da sconfiggere.
Ciò che propone Roubini, in breve, è la necessità di imporre un passo indietro al capitalismo rapace di questi anni, capace di arricchire sempre più pochi individui a danno di un numero esorbitante di NIP come il sottoscritto.
Quanto basta per apprezzare il suo lavoro.




10.2.11

ALIA, finalmente


Ne ho parlato soltanto ieri.
E oggi è arrivata la prima parte della tiratura.
Parlo di ALIA storie, l'ultimo nato della grande famiglia - 6 rampolli, direi - nata dall'Arcipelago del Fantastico.
Sono ovviamente molto contento di aver potuto partecipare anche a questo, anche se pubblicamente mi scuso con alcuni eccellenti autori delle precedenti edizioni che questa volta non abbiamo disturbato per la partecipazione all'antologia. Parlo, in particolare, di Vittorio Catani, di Elvezio Sciallis, Danilo Arona, Alessandro Defilippi, Mario Giorgi, Riccardo Valla, Alberto Cola e tutti gli altri, dei quali non ci siamo dimenticati, giuro. Semplicemente la nascita di questo ALIA non è stato affatto facile né liscia. Non entro nei particolari per non annoiare nessuno, ma abbiamo dovuto rinunciare a diversi autori italiani perché a lungo incerti non solo sulle dimensioni dell'antologia ma anche sulla sua possibile esistenza.
Il fatto che sia nata non è, in sostanza, una banalità ma una specie di miracolo.
...
Questa ALIA esce in volume unico. Di 366 pagine, peraltro.
22 autori provenienti da molti diversi angoli del mondo: 7 italiani, 6 giapponesi, 3 cinesi, 3 di Singapore, 1 americano, 1 spagnolo. E 9 disegnatori, capaci di cogliere der Innere Geist di un racconto con pochi tratti.
Di seguito l'indice:

  • p. 3 Sulla distesa d'acqua di Alice Arisugawa (Giappone)
  • 17 La tomba di Qiufan Chen (Cina)
  • 27 Ultimi giorni di Dave Chua (Singapore)
  • 39 Il soffio lontano del vento di Massimo Citi (Italia)
  • 53 La fine del mondo di Fei Dao (Cina)
  • 59 Senza parole di Fulvio Gatti (Italia)
  • 69 Il regno dorato di Reiko Hikawa (Giappone)
  • 7 Resurgam di Consolata Lanza (Italia)
  • 101 DB di Fabio Lastrucci (Italia)
  • 111 La Fenice di Lucia Gonzales Lavado (Spagna)
  • 127 Pianeta rosso di Davide Mana (Italia)
  • 153 La casa della lespedeza rossa di Yûko Matsumoto (Giappone)
  • 161 La città eterna di Haitian Pan (Cina)
  • 173 Ghosts di Alvin Pang (Singapore)
  • 179 Volo di gru di Benjamin Rosenbaum (USA)
  • 207 Le stravaganti vacanze estive di una maga e di una volpe
  • di Massimo Soumaré (Italia)
  • 237 Invisibile di Tôya Tachihara (Giappone)
  • 263 La ciotola della vuota dimenticanza di Fumio Takano (Giappone)
  • 295 Brilla brilla, lumicino di Mei Ching Tan (Singapore)
  • 299 Lo scout di Silvia Treves (Italia)
  • 331 I bambini del lago di Cyril Wong (Singapore)
  • 339 Primo amore di Arimi Yazaki (Giappone)
Beh, un buon lavoro, ammettetelo.
In vendita a 19,50 euro che non è poco, lo so, ma che fa 5 cent a pagina. Meno dell'ultimo Camilleri che fa 6 eurocentesimi a pagina.
Chi volesse chiedere info o ordinare una copia del libro può scrivere a ordini@aliaracconti.info.
Sinceramente, ne vale la pena.

9.2.11

Un paio di cose che accadono (o che sono accadute)




È un momentaccio, davvero.
Non so se qualcuno ha continuato a visitare questo sfigatissimo blog, ultimamente, se l'ha fatto ha tutta la mia ammirazione e, nel contempo, tutte le mi scuse.
Ma, come dicevo, è un pessimo momento. Oltre che una situazione che, per eufemismo, definirei delicata per quanto riguarda la libreria, si è annunciata la revisione da parte dell'Ispettorato al Lavoro. Nulla di grave in sé, tranne che SI DEVONO aggiornare tutti i libri sociali della cooperativa, un lavoraccio infame in tutto simile all'organizzazione di una spedizione al polo.
Inoltre ho deciso di partecipare al prossimo concorso dell'editore Alga (del quale riporto qui il bando) con un romanzo che non avevo più riletto da qualche lustro... e che, naturalmente, DEVO rileggere e rivedere velocemente entro la fine del mese.
Infine presto - tipo tra un paio di giorni - esce il nuovo volume di ALIA (qui potete vedere la pagina provvisoria del sito di ALIA dedicata al nuovo volume) con tutti i possibili lavori connessi tipo consegnare le copie omaggio agli autori, avvisare i lettori affezionati, consegnare le copie al distributore ecc. ecc.
D'altro canto il mondo continua nonostante tutto a girare e gli amici organizzano ottime cose. Quindi sono ben felice di comunicare che il prox mercoledì 16/2 presso la Feltrinelli di P.zza C.L.N. ci sarà la presentazione del nuovo libro di Franco Pezzini e Angelica Tintore, «Peter & Chris, i Dioscuri della notte». Ho già partecipato a una presentazione di Franco e posso garantire che le sue presentazioni sono interessantissime, vivaci, divertenti e hanno l'enorme pregio di indurvi a leggere o rileggere libri sconosciuti o dimenticati e a visionare film. Insomma a farvi venire voglia di vivere e leggere. Un pregio non piccolo, soprattutto di questi tempi. Personalmente, comunque, cercherò di partecipare. Se poi non ci riuscissi... beh, ho già spiegato perché. E comunque sarò felicissimo di replicare la presentazione del libro presso la CS appena possibile. Per chi non è riuscito a partecipare alla prima e per chi è rimasto con qualche domanda da fare agli autori.
Ultimissima cosa. È appena uscito il nuovo libro di Alex Defilippi, amico di lunga data. Non esprimo alcun giudizio sul libro - lo devo ancora leggere - ma il minimo è segnalare la sua esistenza e augurare buona fortuna ad Alex.
Per quanto riguarda i miei sedici manzoniani lettori... tenete duro. Ritornerò.




1.12.10

LN numero 10.3


È uscito ieri il nuovo numero di LN, il terzo o - leggendo il retro - il quinto numero di quest'anno. Leggendo il retro perché sia il numero 10.2 che il 10.3 risultano numeri doppi.
Ma perché doppi?
Per un curioso fenomeno che, parlando in stile legge di Murphy, si potrebbe definire: «Legge di accumulazione di Email», che recita: «Le dimensioni del nuovo numero crescono proporzionalmente al ritardo nell'uscita», ovvero, ipoteticamente un LN annuale sarebbe di 7-800 pagine, un LN biennale di 2.000, un LN secolare... beh, un'opera di qualche centinaio di volumi per un totale ipotizzabile di 200-300.000.000 di pagine.
Certo, l'attualità delle recensioni risulterebbe compromessa ma la loro quantità sarebbe davvero impressionante : )
Ma, cercando di rimanere seri, si può dire che il vecchio LN in formato 15x19 aveva più o meno 120-130 pagine che corrispondono nel nuovo LN 17x24 a circa 90 pagine.
Questo numero ne conta 158. il 2.10 ne contava 170...
Quindi numero doppio.
In quanto al contenuto... non è facile, né agevole, né raccomandabile, né - in definitiva - consigliabile scegliere determinati articoli, schede o racconti da suggerire ai lettori. C'è una cosa che si chiama «gusto personale» che predilige certi stili o certi approcci ma che è e resta del tutto personale e quindi parzialissimo. Posso dire che, personalmente, ho particolarmente gradito l'articolo di Mario Prisco e quello di Franco Pezzini, le recensioni di S_3ves, il buffo testo di Gordiano Lupi, a cavallo tra il racconto e la recensione, e il racconto di Vittorio Catani, ma si ragiona di sfumature e di pallini personali e nulla più.
In generale, come ho scritto agli abbonati:
«Siamo in ritardo, è vero, ma siamo davvero orgogliosi del numero appena pubblicato».
Orgogliosi, la parola giusta.


27.11.10

Piramidi e ziggurat

Ci sono poche cose più piacevoli per me di un sabato mattina passato in libreria.
Curioso, eh?
Si tratta, probabilmente, della dimostrazione che non ho ancora perso entusiasmo per il mio lavoro.
Che non è poi così scontato. Siamo al secondo anno di seguito in perdita - senza scherzi - e non so bene se sarò ancora qui tra un anno. Ma non lo dico per richiedere aiuti, compassione e possibili contributi. Non è una situazione soltanto mia, ma abbastanza generale, parlando di librai e librerie. Sono a una distanza piuttosto pericolosa dalle nuove, meravigliose librerie di catena tipo la Feltrinelli Express sistemata nell'atrio di Porta Nuova, distante da me al massimo un chilometrozzo malcontato. La libreria dove puoi trovare, penso, più o meno il quadruplo dei libri che ho disponibili qui. Anche se, immagino, non il quadruplo dei titoli. Forse il doppio o una volta e mezzo.
«Perché le librerie di catena sono molto più attente nel selezionare i titoli», dice il mio feltrinelliano superIo.
«Perché se scegliessi i libri soltanto sulla base della loro piatta probabilità di vendita sarei circondato di libri dei quali, onestamente, me ne fregherebbe meno di zero», risponde il mio modesto e scalcinato Ego, per niente normalizzato.
Quindi il sabato mattina arrivo in libreria contento di ritrovare oltre i libri che hanno qualche probabilità di vendita anche quelli per i quali la vendita è soltanto possibile. Libri inutili, temo.
Una distinzione non tanto piccola, questa.
Un libro inutile può essere un capolavoro assoluto e indiscutibile, ma che non è nato nella famiglia giusta. O è nato nella famiglia giusta - Mondadori, Garzanti, Einaudi, Feltrinelli - ma è stato dimenticato, trascurato, vilipeso e schiacciato dalla produzione «seria», ovvero dal mass-market.
Gli orfanelli, sia di malafamiglia, cioé pubblicati da editori poveracci, che di famiglia bene, si possono fiutare senza difficoltà. Hanno il nome dell'autore scritto più piccolo del titolo. per cominciare. Hanno rovesci di copertina che non gridano al miracolo, non tirano in ballo Tolstoi, Flaubert o Crichton, Stivenking e Accapilovecraft. Raccontano modestamente la trama e lasciano intuire una certa possibile o probabile originalità. Hanno copertine dai colori freddi, immagini delicate, font attenti. O copertine ipnoticamente colorate, curiose, stridenti o elusive.
Sono questi i libri che mi affascinano il sabato mattina. In quella oretta libera prima che si facciano vivi i primi clienti. Libri non immancabilmente destinati al dimenticatoio e alla resa a 90 gg. ma che cercano un lettore. Qualche volta può trattarsi di un fiasco, naturalmente, ma in genere si tratta perlomeno di un buon tentativo, di un modo un po' diverso di presentare fatti e personaggi. Sono i libri che mi danno la voglia di continuare a fare questo mestiere, nonostante il momento.
Qualche esempio?
Tre, presi praticamente a caso, Roberto Pazzi, La città volante, Corbo Editore; Jim Crace, Tutto ciò che abbiamo amato, Guanda editore; Paul Collins, Al paese dei libri, Adelphi. Ma sono soltanto tre possibili esempi su migliaia e migliaia che escono tutti gli anni.
Non è un discorso troppo serio, il mio.
Non è una curiosa critica paradossale e non intende suggerire subluminalmente titoli per il Natale.
Semplicemente cerca di spiegare e di spiegarmi perché mai a cinquantacinque anni continuo a vedere i libri come li vedevo a otto anni.
Senza una risposta ragionevole.
Quell'ora di solitudine in libreria la dedico a scegliere alcuni di quei libri, a esporli meglio, a rendere loro un minimo di giustizia. Li dispongo in modo tale che passino sott'occhio ai lettori prima o insieme agli Wilbussmith, ai Brunovvespa, ai Kenfollet, agli Ecoumberti. È possibile che lo sguardo dei lettori li salti tranquillamente - come in effetti accade (quasi) sempre - ma qualche rara volta capita che qualcuno li guardi, li prenda in mano.
Magari che giunga a chiedere informazioni.
A comprarli.
Se fossi circondato di probabili o di sicuri besseller non mi divertirei. Lavorare in una libreria sarebbe una'inutile corvée. Non è per questo che ho iniziato.
«Ma vuoi mica divertirti? Stai lavorando, checcapperi!» Sibila il mio temibile superIo.
Come sempre ha ragione.
D'altro canto, se cercassi di comprare e vendere soltanto besseller non durerei molto, carissimo superIo. Perché accidenti la gente dovrebbe venire fin qui a cercare ciò che può trovare senza fatica in un qualsiasi librificio? Ciò che incombe in artistiche ziggurat e pericolose piramidi librarie come alla Feltrinetti Village di 8 Gallery. Cinquanta vetrine e dieci titoli esposti in sessanta-settante copie ognuno: Brunovvespa ecc. come se piovesse.
Il mio ego sogghigna.
Il temibile superIo ha bisogno almeno di una mezzoretta per elaborare una risposta.
Giusto il tempo per dare un'occhiata in giro.




18.11.10

Giorni di pioggia




Uno dice: «ma per che che cosa mai ha aperto un blog? Per fare che cosa? Per dire che cosa?»
Vero.
Un blog è un diario in pubblico. E quando mai in un diario si parla di libri, lettori, case editrici eccetera? O di libri già scritti o da scrivere?
In un diario si parla di dispiaceri e di gioie. Di soddisfazioni o di dolori. Al limite si parla del tempo, in senso meteorologico. Di cose avvenute o di cose che debbono accadere.
Beh, questa volta farò così. Disserterò di eventi e fenomeni che mi riguardano da vicino.
Parlando di ciò che mi è accaduto e che merita almeno un accenno in questo diario in pubblico, parlerò del mio nuovo cane, ovvero del cane nuovo di mia figlia.
Un affare alto più o meno venti centimetri al garrese, di sesso femminile e quasi del tutto nero - escluse le punte delle zampette, bianche, e una macchia candida sul petto - ancora piuttosto timido ma parecchio curioso e del tutto incapace di sporcare dove le viene indicato.
Il padrone di un cucciolo si riconosce da lontano perché armato di scottex, glassex, alcool, detergenti assortiti per il pavimento di casa - ridotto in uno stato pietoso - e di fazzoletti di carta e sacchetti a perdere per le passeggiate. Passeggiate che debbono calcolarsi sulle funzioni fisiologiche del cane. Quindi ogni 3-4 ore (di giorno). Da notare che generalmente il mio cucciolo, anzi il cucciolo di mia figlia, tiene strenuamente tutto ciò che dovrebbe mollare per depositarlo poi in libreria o in casa. Se sgridato - cosa che avviene sistematicamente, siamo una famiglia prussiana, noialtri - si appollottola in un fagotto fuligginoso con due occhioni che diventano grandi il doppio per risvegliare l'istinto parentale di noialtri scimmioni. Basta dirgli «vabbé, lasciamo correre» perché la trucida ricominci a saltare a mordere i libri alloggiati nei piani bassi della libreria di casa. In casa ha già danneggiato in maniera irreparabile una «Storia della letteratura italiana», vol. IV, UTET editore, e in libreria ha già tentato di deteriorare l'ultimo libro di Umberto Eco. Fortunatamente non c'è riuscita, anche perché non saprei come curare un'aerofagia canina da ingestione. Libri, ma non solo. Praticamente tutto ciò che di incustodito si trovi alla sua altezza diventa sua preda. Mirra (questo è il nome alfieriano appioppatogli da mia figlia), colpevolmente da me degradata a Mira con una «r» sola - ma nome astronomico, a pensarci bene - possiede alcuni oggetti che dovrebbero indurla a rodare i denti senza combinare casini in giro. 5 dinosauri di colori assortiti, un verde, uno arancione, uno giallo, uno viola con spaghino per farglielo penzolare davanti e uno blue. Da notare che i cani i colori li vedono poco.
Un pezzo di una scaffalatura plastica di colore giallo. Nessuno tiene a sapere da dove viene.
Una bottiglietta di minerale vuota.
Due confezioni plastiche che appartennero eoni fa a due pellicole kodak.
Un orsetto di peluche con braccia e gambe fatte con uno spago ritorto.
Un mappamondo (senza asta) di gomma piena che salta esageratamente e che induce il cane a saltare altrettanto esageratamente ma con minor fortuna.
Le mie pantofole e quelle di mia figlia. Abusivamente.
Una chow-chow di tre anni del padrone del negozio accanto al mio.
Il preferito a casa è l'orsetto di peluche.
In libreria è il chow-chow. Grande, grossa e scatenata come lei.
Il cane piace ai clienti della libreria. Almeno a quelli giovani e simpatici.
Ai corrieri che portano libri, agli omoni che ritirano la carta, alle immigrate che puliscono i gradini delle case, che la salutano con frasi e parole che Mir(r)a non capisce. Ancora meno io. Però lei, almeno, scodinzola.
Ma piace anche ai passeggeri dell'autobus che prendo per andare a lavorare.
Alle signore anziane che incontro per strada.
Alle signore più giovani.
Ma soprattutto piace alle ragazze, più o meno carine. Piace da impazzire.
Ho capito che a vent'anni avrei dovuto girare con un cagnino invece che con la mia faccia troppo seria.
Avevo una gatta, prima.
E prima ancora un'altra gatta.
Dio, che signore che erano.
Adesso ho un catastrofico cane (in condominio).
Un curioso apprendistato al mestiere di nonno.



8.11.10

Non leggere




Quali e quanti siano i lettori in Italia più o meno lo sappiamo.
I lettori - di almeno un libro all'anno - sono il 45% della popolazione italiana.
A questi vanno aggiunti un 9-10% della popolazione che nel corso dell'anno hanno «letto» o consultato una guida turistica o un libro di cucina, di falegnameria, di orticoltura oppure hanno letto ciò che loro stessi per primi non considerano un libro. Un «Giallo Mondadori», un «Harlequin» o un «Urania» acquistati in edicola o al supermercato. Curiosa distinzione, questa, evidentemente acquisita anche dal lettore che si declassa e semplice semi-lettore se legge Ellroy o Vinge. Comunque, con variazioni intorno al 2-3% in rapporto agli anni, il numero di lettori in Italia raggiunge il 55%.
Ma proviamo a scavare un pochino, ciò che il libro che sto leggendo in questi giorni - Giovanni Solimine, L'Italia che legge Laterza, 2010 - permette di fare, non solo, ma anche creando e incrociando i possibili percorsi.
L'Italia, purtroppo, è tutto fuorché unita. Parlando unicamente dei lettori in senso statistico, ovvero il famoso 45% di lettori, la loro percentuale è poco sopra il 50% al Nord, sotto il 50% al centro e meno del 40% al Sud e nelle isole, con l'eccezione della Sardegna, al 49,6%.
Non solo, si legge di più nei centri urbani che in provincia. Si legge di più se si è donna (51,6% contro il 38,2% dei maschietti), si legge di più se si è giovani e, infine, si legge di più se:
- Si utilizza il computer
- Si leggono i giornali
- Si ascolta la radio
- Si praticano altre attività culturali come andare al Cinema, a Teatro, alle mostre e nei musei...
e...
- ...Si guarda la TV (anche se non per più di tre ore al giorno).
Si legge poco o niente, viceversa, se l'unico consumo culturale praticato è la TV.
Non perché la TV è oggettivamente nemica della lettura, come detto, ma perché non si è in grado di fruire di altri media più o meno culturali.
I tanto vituperati adolescenti «sempre appiccicati al computer» leggono libri (esclusi gli scolastici) per più del 60%, con una quota che, se generalizzata ci spedirebbe dalle parti dei paesi culturalmente sviluppati, mentre se fosse soltanto per i cinquantenni dirigenti, professionisti o imprenditori staremmo comodamente sotto il 50%...
Ma è possibile?
È ragionevole?
No, evidentemente.
I laureati italiani leggono (molto) meno dei loro colleghi tedeschi o inglesi. «Negli anni successivi all'iscrizione all'albo o all'avvio dell'attività lavorativa, i professionisti cominciano a leggere sempre meno», spiega Solimine. Il motivo? Non immediatamente facile capirlo: la carenza e la povertà delle attività di formazione degli adulti e di aggiornamento professionale.
Come dire che se non si è «obbligati» o indotti a leggere si tende a farlo sempre meno.
In Italia gli imprenditori non investono in formazione: «Solo il 32% delle imprese italiane organizza interventi di formazione in itinere e ci collochiamo per questo al terzultimo posto in Europa, subito (e brillantemente, N.d.R.) prima di Grecia e Bulgaria, ma dietro a Ungheria, Polonia, Romania, Portogallo, Irlanda...»
E questo è soltanto una delle assonanze tra i dati disponibili.
Come il fatto che gli italiani sono in coda alle classifiche europee per quanto riguarda gli acquisti pro capite di libri, sono in coda per l'utilizzo delle biblioteche - i cui stanziamenti sono drasticamente diminuiti negli ultimi anni, in coda nella lettura di testi professionali...
«Alle nostre spalle troviamo solo pochi paesi dell'area meridionale del continente (Grecia, Malta, Portogallo) o molto poveri come Romania e Bulgaria. […] [In più] I dati disponibili sono spesso disomogenei. Per esempio in Italia è considerato «lettore forte» chi legge 12 libri all'anno, mentre in Francia questa qualifica viene attribuita a chi ne legge almeno 20»
Germania e Gran Bretagna ci superano di un 20% (un 65% di lettori).
La Francia di una decina di punti, e si tratta di un paese paragonabile al nostro per numero di abitanti e reddito pro capite.
E, tanto per cancellare eventuali illusioni, è opportuno ricordare che la lettura di libri in formato elettronico - kindle ecc. - totalizza un 5% del fatturato librario americano - che calcolando il prezzo di partenza più basso si può considerare un 10% del totale dei libri venduti - mentre in Italia siamo ai... prefissi telefonici: 0,2-0,3% del mercato.
CHE FARE?
Bella domanda.
Si può cominciare con l'affermare che NESSUNO dei governi degli ultimi 20 anni ha fatto qualcosa per la lettura in Italia. Qualcosa di più è stato fatto a livello di amministrazioni locali, ma non è difficile immaginare che con gli interventi del ministro Tremonti anche quel poco verrà interrotto.
Viceversa servono incentivi alla formazione per adulti, iniziative di sostegno alle biblioteche, una legge sul libro che difenda il sistema di piccole e medie librerie sparse sul territorio nazionale e l'occasione e la possibilità di aprirne in tanti centri attualmente privi di librerie - tenendo conto che la diffusione della lettura viaggia parallelamente alla presenza sul territorio di punti vendita - programmi televisivi in fasce di alto ascolto dedicati ai libri e alla lettura, nuovi sceneggiati televisivi autoprodotti ispirati a saggi storici e a romanzi, biblioteche scolastiche presenti ed affidate a soggetti competenti, iniziative di sostegno alle lettura rivolte ai deboli e medi lettori - un po' sul modello del libro di Salgari a suo tempo regalato dall'amministrazione comunale di Mantova, scuole comunali di educazione alla lettura... E poi mille e mille altre idee che vengono e verranno in mente con il procedere delle iniziative...
La lettura è fondamentale per lo sviluppo di un paese. La lettura, ovvero la cultura.
Senza investimenti in cultura non è difficile immaginare quale sarà il futuro di questo paese.
Senza cultura si è indifesi ed esposti a tutte le mode più futili e idiote, ovviamente, ma soprattutto si è indifesi nei confronti delle bugie di qualsiasi governo che faccia della menzogna la propria condotta quotidiana.
È il caso di fare esempi?
Senza cultura, senza letture le parole perdono il loro significato, si sfaldano, suonano vuote e senza senso, grigie e oscure. Si ha la sensazione di essere tagliati fuori, di non riuscire a comprendere ciò che si muove. Si diventa diffidenti ma senza speranze, confusamente spaventati e aggressivi, vinti senza combattere.
Lasciarci ignoranti è un'attività che occupa profondamente diverse persone.
Non sarebbe il caso di lasciarle senza lavoro?