27.11.14

Il libro sessuato


Un articolo uscito oggi su «La Repubblica» mette in crisi la mia visione della lettura. Da un'indagine su 40.000 persone - 20.000 femmine e 20.000 maschi, tutti forti lettori - condotta del sito «Goodreads», è emerso un dato non tanto inatteso di per sé quanto inatteso in queste dimensioni: «il novanta per certo dei libri più letti dagli uomini sono stati scritti da uomini. E 45 dei 50 libri più letti dalle donne sono stati scritti da donne.»
Ohibò. 
Controllo i sei libri che vegetano sulla mia scrivania in attesa di essere smistati. Quattro su sei sono stati scritti da uomini. Ma di quelli che ho sul comodino bel 8 su 8 sono stati scritti da uomini. E gli ultimi due sull'e-reader sono anch'essi scritti da uomini. Come dire, 14 su 16, se non è il 90% poco ci manca. 
«Bah, saranno tutti di fantascienza. Le scrittrici son poche».
No, di sf ce ne sono 4, dei quali uno scritto da una donna. Per il resto saggi e narrativa mainstream. E in ogni caso sei del paleozoico, quanto a visione della fantascienza.
Una volta rintuzzato il mio SuperIo, vado a controllare sul comodino di mia moglie, fuori per lavoro: anche qui sedici libri, tanto per riuscire a fare un confronto che tenga: 13 scritti da uomini, 2 scritti da donne e uno scritto a quattro mani da un uomo e una donna.
Il confronto con mia moglie mi ha soltanto scombussolato le idee. 
Che mia moglie sia, nonostante l'apparente evidenza, un uomo?   
No, calma. Ragioniamo. 
Provo con mia figlia, 22 anni, nessuna preclusione verso i generi e una laurea in lettere in arrivo. Gli ultimi sedici libri. Tredici scritti da uomini e tre da donne. La guardo con sospetto: che sia anch'ella un uomo travestito?
No, non è possibile.
Nell'articolo viene citato un libro di Carrére sul nazionalbolscevico Limonov, «Lei non leggerebbe mai la storia di un fasciocomunista scorretto sotto ogni punto di vista...». Non ho letto la biografia di Limonov (anche se non nego che mi sarebbe piaciuto) ma ho comunque la sensazione di averla vista, in casa. Poi la trovo, avvolta in carta da giornale, sullo scaffale di mia moglie. Lei l'ha letto. Lei ha fatto commenti positivi sul libro a margine, a matita. Lei, a questo punto è oggettivamente un maschio.


...
C'è qualcosa che non va in questo ragionamento, evidentemente. 
O qualcosa che non va nel rilevamento di Goodreads. 
O nell'articolo di Gabriele Romagnoli, peraltro scrittore non eccelso. 
O nelle donne di casa.    
Lasciando perdere l'ultimo inquietante interrogativo, posso ricordare che se consideravo normale una certa preferenza di alcune donne per scrittrici donne (Isabel Allende, Laura Esquivel, Jeanette Winterson, Toni Morrison, Marcela Serrano e via per altre dieci righe) ricordo nello stesso modo la passione di alcune di loro per scrittori come Wilbur Smith, Ken Follett, Clive Cussler, Stephen King, Ian McEwan, Cormac McCarty ecc. ecc., tutti autori tipicamente maschili. 
Diciamo che i loro gusti erano più sul fifty-fifty che plebiscitariamente schierati.  
«Lavoravi in una libreria scientifica, è normale».
Ma non solo, anche libreria di quartiere. Con la pettinatrice della zona - che prenderò come modello di forte lettrice anche se con un modesto bagaglio culturale -, appassionata di Isabel Allende come di altre autrici di storie sentimentali, ma altrettanto appassionata di Stephen King e di altri autori di horror. 
No, ho qualche dubbio sul sondaggio condotto da Goodreads. Dubbi nella formulazione dei quesiti - come sono stati raccolti i dati? Si trattava di un questionario aperto o è stato utilizzato un formulario con nomi degli autori preinseriti? È stato condotto on line? È stato selezionato un campione ben preciso o coloro che passavano sul sito potevano esprimersi come credevano? La scelta era aperta o limitata, che so, ai libri degli ultimi sei mesi? -, oltreché dubbi sono come la "notizia" è stata presentata. 
Anche perché un risultato tanto netto: 90% per entrambe i sessi di preferenze per gli autori del proprio sesso suona, a pensarci bene, quantomeno singolare. Come dire: "Tutti i bambini amano kinder, ce lo dice la statistica". Bah, è possibile, ma non giurerei che tutti i bambini amino kinder nello stesso modo. 
E "tutti i bambini" suona un po' troppo come pubblicità. 
Comunque consiglio a tutti di perdere due minuti a controllare gli ultimi sedici libri letti. Potreste sempre scoprire di essere un maschilista vostro malgrado, benché nati femmine. 
O di aver sposato un maschietto senza esservene accorti.



24.11.14

Assenze giustificate


È da qualche tempo che non posto più sul blog. Non tanto, poco meno di una settimana, ma insomma, dopo le vacanze e altri problemi avevo abituato i miei quattro lettori a un minimo di presenza e non si scompare così da un giorno all'altro. 
E poi, perché?
I motivi sono stati più d'uno. Ospiti in casa, per cominciare, l'uso esclusivo del PC da parte di mia moglie, incastrata da un impegno di lavoro indifferibile, altri impegni in rete e nella vita d'ogni giorno. Ho letto un po' di più, infilando nelle letture L'ultima colonia di John Scalzi (discreto ma nulla di più), alcuni dei racconti di fantascienza di Primo Levi nel libro Tutti i racconti - sì, Primo Levi è stato un eccellente autore di sf ed è curioso che di questa "seconda vita" di Primo Levi sia stata dimenticata da molta critica, come se uno nella vita potesse essere soltanto un sopravvissuto ai lager - e ho iniziato Pashazade di John Courtenay Grimwood, pubblicato dalla ottime edizioni zona42. 
E poi la scrittura. 
Ho passato alcune serate a lavorare al nuovo racconto, felice come un ragazzino che ha marinato la scuola per andare al mare. 
La mia storia è arrivata a 9.500 parole e 54.000 caratteri.  
Di questo passo dovrei riuscire a finire il racconto - che a questo punto va verso le dimensioni della novella o del romanzo breve - entro l'anno, lasciandomi (detto per inciso) con il problema di che cosa pubblicare sul prossimo ALIA.
Ma anche questo è un problema secondario, tutto sommato. La realtà è che mi sto affezionando ai personaggi, al pianeta e a tutta la vicenda. Può capitare? Sì, può e, in un certo senso, deve capitare, o perlomeno deve accadere a me. Trovarsi a interrogarsi: «Ma poi Tizio come fa a uscire da quella situazione? E Caio? Sopravviverà a quell'incontro? E come farà?», mentre si compra il pane o in coda al mercato è il respiro profondo della narrativa, il vero motivo per il quale si perde tempo (e non poco) ad allineare parole su uno schermo. Sentire i propri personaggi non meno vivi di persone reali esistenti nella realtà: altrettanto perplessi, sorpresi, confusi, disperati, arrabbiati, ironici o delusi. Trasporre la propria personale biografia in narrazione, rivisitare le proprie manie, le proprie fissazioni, i propri pareri, le proprie convinzioni sforzandosi di vederle "dall'esterno", come parte di un comportamento altrui, più o meno accettabile. Un esercizio salutare e una curiosa scienza sperimentale applicata ad un solo soggetto, ovvero lo scrivente. 
Lo so, lo so. Esistono altre norme e altre leggi dello scrivere, altrettanto importanti - o almeno così dicono. 

Cerca di scrivere almeno una cartella al giorno! 
- Certo. Se riesco ad arrivare al comp...
Prediligi il discorso diretto all'indiretto! 
- Come no. 
Show, don't tell!
- All right.
Non seppellire il lettore sotto quintali di nozioni!
- Chi io?No, non lo farò.

...Ma fa in modo che il lettore si renda conto della situazione in cui si trovano i personaggi!
- Va bene. Come no.
Non creare bozzetti ma personaggi reali!
- Non ci proverò, giurin giuretto. 
Fa in modo che i tuoi personaggi abbiano un passato!
- E un futuro no? 
Attento alle ellissi e non esagerare con le inferenze!
- Eeeh? Mmmmhhh, senz'altro. 
E le metonimie, ricordati delle metonimie!
- Prego?
Sì, dai che lo sai... È quella cosa che Cechov lascia un fucile a pagina 10 e ...
- ... e un perfido Klingon gli spara a pagina 52? 
Lasciamo perdere. Devi aprire la scena davanti al lettore!
- Ammesso di trovarne...
E l'incipit. Cura con attenzione l'incipit!
- Lo scrivo sempre per ultimo, l'incipit, così non mi sbaglio. 
Attento al rapporto tra fabula e intreccio. 
- Me ne preoccupo costantemente.
E non confondere la suspence con la sorpresa!
- Spero non mi capiti mai. 
...
Ecco, scrivere è anche dimenticare tutte queste nozioni. Non nel senso che non le si conosce, ma nel senso che le si hanno nelle mani e si può anche decidere consciamente di ignorarle. Personalmente ho bellamente ignorato l'insopportabile «Show, don't tell»[*] per rendere l'accaduto parte del monologo interiore del mio protagonista. Se non vi piacciono i monologhi interiori, beh, non faccio per voi. 




[*] Non ho nulla contro la frase succitata che, anzi, ho più volte utilizzato. Ciò che non sopporto, viceversa, è l'uso autoriale invalso nelle scuole di scrittura creatina (come le definì a suo tempo Filippo La Porta) dove lo "show don't tell" è divenuto un comandamento sullo stile di "ricordati di santificare le feste" e "non desiderare la donna d'altri". Bisogna essere liberi, per scrivere. E per pensare.  
 
 
    


18.11.14

L'ingenuità della rete


L'Ingenuità della rete è il titolo di un saggio pubblicato in edizione originale nel 2011 da Evgeny Morozov [The dark Side of Internet Freedom] e tradotto e pubblicato in Italia dalle edizioni Codice nel corso dello stesso anno.
Un libro curioso, se non altro perché uno dei pochi che osa avanzare più che qualche dubbio sull'intrinseca carica libertaria di internet e dei social network, una retorica liberazionista sulla quale - da non dimenticare - è stata costruito il successo di formazioni politiche quale i 5 stelle.
Morozov, bielorusso, giornalista e geopolitico, fa parte della Open Net Initiative, associazione che difende la libertà di espressione a mezzo Internet e collabora con il "Wall Street Journal", "The Economist", "Washington Post" e "Financial Times": una breve nota biografica per dimostrare come l'autore del libro non sia esattamente un vecchio e arruginito professore che detesta internet continuando a preferirgli la carta stampata e le radio a galena. 
Il libro si apre con i disordini avvenuti in Iran all'indomani delle elezioni presidenziali. Una crisi complessa: 

...La società iraniana, combattuta tra le forze conflittuali del populismo, del conservatorismo e della modernità, stava affrontando la sua crisi politica più seria dopo la rivoluzione del 1979...

ma che in Occidente apparve ben presto come il primo esempio di come internet stesse attivamente lavorando per la democrazia:

The Revolution Will Be Twittered fu il primo di una serie di post pubblicati sul suo blog da Andrew Sullivan dell'"Atlantic" poche ore dopo l'inizio delle proteste [...] In un post successivo Sullivan ha definito Twitter come «lo strumento cruciale per l'organizzazione della resistenza in Iran», ma non si è disturbato a citare nessuna prova che potesse supportare tale affermazione.

Da come finirono le cose qualche mese più tardi, con la sostanziale evaporazione di una situazione pre-rivoluzionaria virtuale peraltro mai avvenuta,  emerse chiaramente come il ruolo di Tweet e di internet in generale sia stato largamente sopravvalutato ma che sia perfettamente in linea con la «Dottrina Google», così come si è venuta definendo nel tempo:

«Ci stiamo dirigendo verso un mondo fondamentalmente democratico» [perché] «non puoi lasciare la gente nell'arretratezza una volta che abbia avuto accesso ad Internet».

Uno degli aspetti più interessanti del panorama ideologico che ha accompagnato e sostenuto la «Dottrina Google» è stato il suo collocarsi a destra nel panorama politico americano:

Allo stato attuale la Dottrina Google deve meno all'avvento di Twitter e dei social network che all'inebriante senso di superiorità provato da molti occidentali nel 1989, quando dalla sera alla mattina è crollato il sistema sovietico. 

E la situazione a Teheran in quelle ore e in quei giorni poteva richiamare alla mente la rivoluzione pacifica del 1989, ma si trattava di una semplice illusione che i giornali occidentali favorivano, esaltando i tweet iraniani senza voler controllare se essi provenissero realmente dall'Iran e non, piuttosto, da iraniani che vivevano all'estero. 
La realtà era ovviamente diversa, visto che la "rivoluzione", non guidata da una direzione politica organizzata è presto ritornata negli argini lasciando dietro di sé un quadro politico compromesso, dove il regime iraniano ha presto iniziato a perseguitare i singoli oppositori locali, sfruttando la possibilità di individuarli attaverso i provider. 


Sono qui, in sostanza, i problemi irrisolti del cyber-utopismo presentati e sottolineati da Morozov nel corso del suo saggio. 
Il primo è l'essere una tecnologia essenzialmente americana, anzi, californiana, e come tale ritenuta dall'Iran - come dalla Cina, dalla Russia, dalla Bielorussia  e dagli altri regimi autoritari esistenti nel mondo - una minaccia straniera alla quale reagire facendo appello al nazionalismo e al localismo.
Il secondo il suo essere facilmente tracciabile da qualsiasi governo che non si faccia troppi problemi di rispetto della privacy. 
Il terzo quello di permettere ai sostenitori del governo in carica - sia foraggiati dai servizi locali che felicemente consenzienti - di intervenire a sostenerne la politica, confondendo e mentendo, creando una cortina fumogena virtuale sostanzialmente impenetrabile a chi opera su internet in quel paese. 
Il quarto di essere comunque una tecnologia ricattabile, dispersa sul piano territoriale ma perfettamente normalizzabile per un governo deciso a stroncare qualunque voce d'opposizione, basti pensare alla situazione cinese. Come se non bastasse né Twitter né Facebook né Google sono enti di beneficenza o centri di sovversione e le loro politiche tendono ad adeguarsi ai diktat dei governi in carica, soprattutto se, come è il caso della Cina, il mercato ha dimensioni incalcolabili. 
In sostanza prima di affannarci a cantare le magnifiche sorti e progressive di internet e dei social network Morozov ci invita a tenere presente la situazione politica ed economica interna di un paese dal governo autoritario, l'esistenza e il grado di organizzazione di un'opposizione reale, i rapporti con gli altri stati e gli equilibri internazionali, in pratica proprio quella "politica" che il nuovo media sembrava aver mandato magicamente in soffitta per sempre. 
«Non esistono pasti gratis» è una frase proverbiale americana, di uso comune nella termodinamica nonché in economia, ma sembra particolarmente adatta anche per rappresentare le illusioni nate dal cyber-utopia alla quale ci siamo intossicati anche noi [*]. 

I rischi connessi a una accessibilità sempre possibile per qualunque soggetto fa sorgere altri problemi, dei quali non pochi hanno a che fare proprio con la difesa della democrazia e di rapporti sociali accettabili. Come scrive Morozov: 

Non sottovalutiamo mai il potere di Twitter e di Photoshop nelle mani di persone mosse dal pregiudizio [...] La promozione della libertà di internet deve includere misure per alleggerire gli effetti collaterali dell'aumento di interconnettività [...] il fatto che varie forze antidemocratiche, compresi estremisti, nazionalisti e vecchi gerarchi, si siano trovate improvvisamente a disposizione una nuova piattaforma per mobilitare e diffondere il loro verbo suggerisce che il consolidamento della democrazia possa diventare più difficile, anche più facile. 


Internet non è uno strumento automatico di sviluppo della democrazia, così come non lo sono stati il telegrafo, la radio, la televisione, il fax o la fotocopiatrice, anche se tutti questi strumenti sono stati presentati come la soluzione a tutti i problemi di comunicazione e di libertà personale dell'umanità dell'epoca. Illudersi che un problema politico possa essere risolto da una soluzione tecnologica fa parte di una visione della realtà da Steve Jobs ubriaco. Morozov ci ricorda - e va ringraziato per questo - che l'unico modo per cambiare le cose è quello di partecipare. Come in una vecchia canzone di Giorgio Gaber. 

[*] Non ho intenzione di esprimermi sulla situazione politica italiana, ma la convinzione che internet potesse incarnare una forma di democrazia assembleare costantemente costituita per scegliere e decidere è stato uno degli elementi di forte convinzione del Movimento 5 Stelle, forte quanto le intemerate ricche di insulti di un ex-comico di nome Beppe Grillo. All'atto pratico le decisioni sono state prese da un numero compreso tra i diecimila e le trentamila tra persone, avatar, individui plurimi e nickname, senza alcun controllo nè alcuna garanzia reale di democrazia. 
Via, è troppo facile barare via internet e raccontare ai bimbi che qui si fa democrazia...

 

   

12.11.14

Parlando ancora di fantascienza, ovvero il fulmine sotto il bicchiere


È uscito soltanto ieri un articolo sul sito de Il futuro è tornato, intitolato «La fantascienza italiana è morta».
Titolo impegnativo, oltre che allarmante.
O forse non troppo allarmante di per sé - in fondo gli appassionati di sf in Italia sono pochi (un numero quasi pari a quello degli autori) - e soprattutto perché gridare alla morte di un genere dato più volte per morto non fa più notizia. 
La sf in Italia è nata gracile, anche se non così tanto come si potrebbe supporre (cfr. "I fantasmi di Capuana e i viaggi nel tempo di Salgari" articolo a suo tempo uscito su LN-LibriNuovi), anche se comunque meno vitale e vivace del fantastico in generale, nonostante tutto ben presidiato da nome come Calvino o Buzzati. La sf in quanto tale era un genere poco frequentato da un popolo scarsamente dotato di interessi e di competenza scientifica. Un popolo cresciuto nell'ignoranza (non è un insulto, semplicemente una constatazione), timorato di Dio o, nell'ipotesi migliore, fan del realismo socialista in chiave locale [*], fino all'attuale panorama italico post-tutto in allarmante calo di presenze intellettualmente attive, dove prevale lo sfascio di ogni visione storica e fa scuola la lectio magistralis di Giulio Tremonti («Con la cultura non si mangia»), una dichiarazione paradossale ma che nemmeno il governo in carica si è preoccupato di smentire nei fatti. 
Ma sulla situazione della sf italiana ritorneremo presto. 
Nel resto del mondo, soprattutto negli USA, come va la sf? 
Beh, a giudicare ciò che ne scrive Jonathan Lethem su Minima & Moralia, il blog di Minimum Fax, ha i suoi problemi, vampirizzata dal cinema, confusa nel mare magno di una produzione fantastica contemporanea tanto esorbitante quanto spesso priva di originalità e col rischio di automarginalizzarsi rivendicando una propria purezza originaria [**].


...
Ma se ci fermiamo per un attimo a riflettere dobbiamo ammettere che la fantascienza è divenuta un elemento costante della percezione della realtà tanto da comparire in elementi sparsi del linguaggio di ogni giorno («È fantascientifico», «un'illuminazione da fantascienza», «un clima da fantascienza» ecc. ecc.), una fantascienza spesso ridotta a rappresentare una spettacolarizzazione del reale ma che finisce per inglobare qualunque percezione di una realtà inattesa e tecnologicamente impressionante.  Il nostro mondo è divenuto, per molti versi, un mondo da fantascienza, sia per quello che riguarda il clima (con tutte le distopie immaginate e immaginarie che questo si porta dietro), che per la diffusione dei robot - non così evidente a uno sguardo superficiale ma con numeri costantemente in crescita - che per l'uso di biotecnologie e la nascita degli OGM - e qui un po' di sf distopica sarebbe raccomandabile -, la nascita delle stampati 3D o lo sviluppo di missioni spaziali automatizzate. 
Un vero e proprio fulmine sotto il bicchiere.
Teoricamente ci sarebbe un terreno molto poco sfruttato aperto per noi tutti, autori e scrittori di sf, italiani e stranieri.
Senonché l'auri sacra fames finisce per decidere per tutti. Una volta dato per defunto il cinema italiano, (e meriterebbe discutere a lungo su come sia potuto accadere e se, come credo, non vi siano già in azione nuovi gruppi di artisti), rimane soltanto la letteratura, dove le tirature troppo basse finiscono per essere la regola che determina il livello di produzione. Un livello fatalmente basso, dove i nuovi autori rischiano di non vedere mai la luce e dove i maggiori editori ignorano la sf preferendole la famigerata Fantasy paratolkeniana o i vampiri sentimentali alla Meyer. I titoli che escono - pochi e spesso camuffati da thriller - sono appannaggio di editori marginali. Esiste, è vero, una «rivista» di fantascienza, «Urania» ma i vincoli posti dalla paginazione, da una diffusione esclusivamente a mezzo edicola e da un pubblico eccessivamente "tradizionalista"[***], la rendono incapace a fungere da startup di un possibile cambiamento, questo nonostante il premio Urania, dove le regole storiche della testata ostacolano l'affermazione di autori meno convenzionali. 

E siamo così ritornati alla sf made in Italy e alla sua presunta morte. Possiamo cominciare col dire che in un paese dove i lettori sono il 40% scarso della popolazione e dove i libri sono un bene rinunciabile per antonomasia non è facile far sopravvivere un genere, oltretutto penalizzato dalla necessità di un minimo di competenza scientifiche per essere apprezzato. Se a questo si aggiunge la conoscenza pressoché nulla degli insegnanti di italiano in tema di sf, un programma di storia della letteratura che all'Università arriva a Pasolini e Gadda ignorando serenamente la narrativa fantastica, la convinzione di sapore crociano che le scienze umane siano il centro esclusivo della formazione e una lunga tradizione di amata incompetenza verso qualsiasi strumento tecnologico, direi che non abbiamo motivo di stupirci per la crisi interminabile della fantascienza. A rendere le cose anche più complicate la problematica competenza scientifica di molti tra gli autori di sf italiani, cresciuti nella convinzione che esistesse una "via italiana alla sf", ovvero un percorso narrativo che potesse esimersi dalle scienze, privilegiando il racconto del profumo dei fiori a una conoscenza anche approssimativa della fisiologia vegetale. 
Il risultato è stato, in non pochi casi, una narrativa povera di stimoli scientifici come di spunti narrativi, ovvero una malinconica esposizione di pittori della domenica.
Certo, i buoni autori di sf non sono mancati nemmeno qui in Italia, a cominciare con Lino Aldani, Franco Enna, Inìsero Cremaschi, continuando con Livio Horrah, Vittorio Catani, Vittorio Curtoni per giungere a Francesco Troccoli, Valerio Evangelisti e Claudio Asciuti [****], ma spesso - sia pure con le dovute eccezioni - si tratta di autori di nicchia, non abbastanza noti al di fuori del piccolo mondo della sf nazionale.
Oltre questi nomi e pochi altri ci si imbarca nel mondo dell'autoeditoria e dei piccoli e piccolissimi editori dove presumibilmente si annidano gli autori del futuro, ma che è maledettamente difficile riconoscere. Ed è qui che si avverte decisamente l'insufficienza - in primo luogo economica e in secondo organizzativa - di un'editoria professionalmente attiva e vivace sia nel campo dei libri cartacei che degli e-book.
Ma la fantascienza in Italia è morta?
No, non credo. Ho tre libri - non racconti, romanzi - che dormono dentro questo pc in attesa di essere letti, provenienti da autori meritevoli ma poco noti [A.M.m.P.N.] e mi arrivano con una certa frequenza avvisi di nuovi testi disponibili o in preparazione da parte di autori della stessa categoria di AMPN o anche di autori già comunque pubblicati: «C'è disordine sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente», diceva un presidente cinese che non è educato ricordare.
Ciò che mi preoccupa non è tanto la scomparsa della sf - che è nata insieme al concetto di progresso e di cambiamento, ovvero la nozione di un tempo futuro diverso dal presente e dal passato - quanto la scomparsa della lingua italiana dall'orizzonte della creazione narrativa, sia mainstream che di genere.  Ho paura della scomparsa dei libri, in qualsiasi forma, di un nuovo medioevo che avanza. 
Dell'ignoranza che avanza in questo paese.
Ho paura di Salvini, di Grillo e anche di Renzi. 
Ho paura di chi ritiene i libri un bene secondario. 
E non è una paura da poco. 




[*] Eppure molti tra i più convinti appassionati di sf negli anni '60 e '70 furono iscritti o ex-iscritti al PCI. Evidentemente l'essere fuori linea in campo narrativo non era considerato un grosso impedimento. 

[**] Può essere di qualche consolazione  per i fan appassionati (e grafomani) di sf italiana scoprire che altrove il rapporto con la sf può essere altrettanto esclusivo, ovvero, citando Lethem «Con il suo amore incondizionato per il proprio strato di paccottiglia [la sf]  è tanto sentimentale nei propri confronti quanto una combriccola di vecchi amici o una famiglia».

[***] Teoricamente parlare di "tradizionalismo" in area fantascientifica ha qualcosa di intrinsecamente ridicolo, ma si tratta nel nostro caso di lettori relativamente anziani e legati a una sf non impegnata sia nei temi che nello stile. Autori che preferiscono Alfred Eblin Van Vogt o Isaac Asimov a M. John Harrison o Ted Chiang. 

[****] Per evitare inutili polemiche: gli autori citati sono letteralmente i primi che mi sono venuti in mente. Non volevo escludere volontariamente nessuno. 
E una nota come questa può dare un'idea di com'è il clima in certi circoli di appassionati

7.11.14

E-book e P-book

 
Nelle illustrazioni alcune opere presentata a Paratissima, rassegna dei nuovi autori in questi giorni a Torino.


È arrivata, dopo la Fiera del libro di Francoforte e la presentazione dei tragici dati relativi all'editoria italiana, una proposta da parte dell'AIE, ovvero l'associazione degli editori italiani: portare l'IVA degli e-book, attualmente del 22%, al 4%, ovvero il regime IVA dei libri cartacei o paper-book
D'istinto sono d'accordo. 
Amante della lettura come sono, mi sento visceralmente d'accordo con a proposta dell'AIE. Alle spalle c'è la situazione drammatica dell'editoria italiana, me ne rendo conto, che ha visto diminuire drasticamente le vendite già non troppo buone in condizioni normali; c'è la sostanziale debolezza di un settore commerciale librario negli ultimi anni cresciuto senza idee a lunga gittata e peraltro senza la minima attenzione da parte del potere politico; c'è la cecità - conseguente - di un mercato teso a sopravvivere giorno per giorno e che preferisce sistematicamente le confessione erotiche di un'atleta all'opera di un'artista senza santi in paradiso; che ha eliminato il commercio librario indipendente impedendo il varo di leggi adeguate a protezione del libro... devo continuare? Ho buone ragioni dovute al mio passato di libraio per non avere troppa simpatia per l'AIE, ciononostante sono d'accordo con la loro proposta. 
Solo che...
L'e-book ha una strana sostanza. È virtuale, innanzitutto, e non occupa posto in casa. È digitale e può essere letto esclusivamente su PC, e-reader, tablet o i-phone. Il che significa che in caso di blackout non serve a nulla. Vabbè. Un p-book una volta acquistato diviene interamente di mia proprietà - e vorrei vedere chi può venirmene a contestare il possesso - mentre un e-book è mio fino a un certo punto. O forse per nulla. C'è una discussione in corso sulla cedibilità o meno del testo a terzi, sull'esistenza o meno di una licenza d'uso - sul modello dei programmi per PC - dalla quale non è facile uscirne vivi. Ma leggendo un articolo pubblicato da Altroconsumo e dando una scorsa alla pagina di Franco Angeli (editore serio, una volta tanto) relativa ai loro e-book sono giunto alla conclusione più o meno definitiva che gli e-book posti in vendita dagli editori non diventano vostri - ovvero restano di proprietà degli editori in quanto coperti da copyright - sussistendo la possibilità di venire espropriati in caso di contestazioni, cosa peraltro già avvenuta. Il che pone gli e-book nella stessa categoria dei programmi per PC o dei videogiochi, sottoposti a IVA 22%. 
Kzz. Pardon, opperbacco.
In sostanza, quindi, avrebbero ragione i legislatori ad averli posti nella categoria software. 


Mmhhh, calma un attimo.
La somiglianza tra e-book e p-book secondo i sostenitori del progetto di equiparazione fiscale riguarderebbe esclusivamente i contenuti: 

«Gli obiettivi di quest’iniziativa tutta italiana sono di dimostrare che una storia è una storia, indipendentemente dal supporto di lettura» 

Un'osservazione tanto sacrosanta da sfiorare il lapalissiano, come si comprenderà. Unico problema è che se non si incide sulla struttura interna dell'e-book, sulle sue numerose servitù che lo rendono un «oggetto» non pienamente fruibile dall'acquirente diventa complicato proporre un cambio di regime IVA basato sostanzialmente sulle buone intenzioni. Già, perché è indiscutibile che i videogiochi sono altrettanti "prodotti dell'ingegno" che spesso vedono scrittori a stenderne i testi e che "una storia è una storia". 
Perché discriminare i videogiochi? 

Ecco, quando si affronta un problema che coinvolge un problema più grande e più complesso si deve forzatamente tentare di risolvere in primis questo. E partire dal dato che il problema degli e-book è un problema di sistema: un sistema di distribuzione che rende il libro un non-oggetto ma un servizio da noleggiare [*], sistema che riguarda il diritto degli autori sulle proprie opere [**], sistema che riguarda i contratti di noleggio degli e-book e della vendita degli e-reader ai lettori e le clausole vessatorie a loro danno. 


La realtà è che il libro elettronico ha un destino per il momento molto diverso da quello cartaceo. La sua natura è diversa prima di tutto da un punto di vista fiscale e secondariamente perché la presenza dell'editore rimane una costante non dichiarata [***]. È vero che il libro elettronico ha costi molto più bassi sia intrinseci che di distribuzione rispetto ai libri cartacei - ed è questa una differenza che si stenta a cogliere leggendo i listini degli editori - ma resta il fatto che il grado di libertà nei suoi confronti da parte di noi lettori è decisamente minore [****]. 
Non ho cambiato idea, sia chiaro. Qualunque iniziativa renda più capillare la distribuzione e la lettura di libri è sempre gradita, ma è meglio non coprirci gli occhi: il rapporto tra lettori, autori e editori è un rapporto in definitiva basato sulla reciproca fiducia e qui in buona fede ci sono solo autori e lettori. 
Il libro elettronico è un'opportunità, è chiaro, ma non risolverà il problema della lettura in Italia. 

 
[*] Il DRM è un ottimo esempio di pratica sgradevole che il lettore è obbligato a subire per poter leggere il proprio libro. Amazon l'ha tolto dai propri libri, ma il motivo fondamentale non è quello di fare un favore ai  lettori ma di rendere maggiormente invasiva le propria presenza sul mercato.

[**] I diritti degli autori sulle proprie opere sono al centro delle recenti polemiche sul Kindle Owner's Lending Library, ovvero sul prestito illimitato degli e-book da parte di Amazon dietro versamento di un canone mensile. Timeo Amazon etiam et dona ferentes.

[***] Tutto questo bel discorso non riguarda i titoli autoprodotti dagli autori che, candidamente, cedono (ovvero, cediamo) i loro prodotti nella speranza di essere letti. Qui l'abbassamento del regime IVA dovrebbe essere automatico, anche se il rischio è quello di risultare pateticamente inutile. 

[****] Non si tratta, ovviamente, della libertà di danneggiare o bruciare il libro come oggetto fisico, ma della possibilità di intervenire sul testo con annotazioni, note, osservazioni etc. etc., al rapporto fisico e affettivo che si crea con alcuni libri e la possibilità di veder scomparire tutto da un giorno all'altro dietro ordine di un qualsiasi passacarte di Amazon. 


4.11.14

1610, 1611...


Sono i numeri dei due ultimi Urania, regolarmente acquistati in edicola e regolarmente letti. Due numeri assolutamente speciali? No, non si tratta di romanzi particolari o particolarmente recenti. Il 1610, Uomini in rosso di John Scalzi è del 2012 ed è stato premio Hugo 2013 (wow!) ma il 1611 - Angelo meccanico di Richard Paul Russo - è del 1992 (22 anni fa), è la ristampa di un Urania del 1998 e non risultano altre attività dell'autore dopo il 2005, ovvero dopo la pubblicazione del romanzo Rosetta Codex [*].
Tuttavia i due Urania hanno perlomeno una peculiarità comune, ovvero rappresentano due interessanti metamorfosi della fantascienza, trasformata in qualcosa che fantascienza non è. 
Ma andiamo con ordine.
Uomini in rosso è sostanzialmente uno scherzo, una bravata, un esercizio di stile particolarmente divertente, un gioco di carte condotto a una velocità notevoe, ma NON È un romanzo di sf. È fantascientifica la cornice, lo spunto, il tempo della narrazione - un futuro dove le astronavi e i viaggi interstellari sono una pratica quotidiana - ma il tutto è essenzialmente una cornice per una vicenda che ha il sapore di una vaudeville. Dovete infatti sapere, voi che non avete frequentato con la dovuta solerzia Star Trek, che nelle prime serie era un classico, dovuto al caso o al malanimo del costumista, che i personaggi che indossavano una tutina rossa fossero destinati a morire nel corso della puntata. Provate un po' a pensare: di che colore era la tutina di Mr. Spock? "Azzurra", già. E quella del dottor McCoy? "Azzurra", idem, molto bene. E quella del capitano Kirk? "Mmmm, verdina?" Tombola! I pezzi grossi, quelli destinati a durare, come si vede, non indossano la maglietta rossa. È pur vero che l'addetta alla comunicazioni, Uhura, l'unica attrice di colore della prima serie, aveva anche lei una tutina rossa, ma si trattava di un puro caso che non aveva attinenza con la dura realtà della morte fatale e inevitabile degli altri rossovestiti.
Fatto si è che i membri dell'astrocorazzata Intrepid del romanzo scoprono che uno alla volta sono destinati a morire in circostanza grottesche, macabre e sanguinolente, sostanzialmente a causa della loro divisa rossa. Da qui parte lo spunto essenziale del romanzo che li porta a concludere che si trovano in un ramo temporale nato dall'infelice idea di uno sceneggiatore, e che il problema ora è quello di tornare indietro nel tempo per convincere il soggetto a rinunciare alla sua idea. 
Molto altro da spiegare non c'è. Il romanzo è veloce, ricco di dialoghi - che oscillano tra la sitcom raffinata e i modi stralunati di uno Jarry americano - sconclusionato ma non sgangherato e assolutamente privo di sense of wonder. Il buon Scalzi ha dichiarato di aver scritto il romanzo mentre era presidente del SFWA (Science Fiction & Fantasy Writers of America), carica peraltro tutt'altro che onorifica, costruendo qualcosa che è «Qualcosa di più della semplice parodia della fantascienza televisiva». Ed è vero, si tratta di uno spassoso esempio di metatesto [**] in ambito sf, un genere che ha rischiato spesso di essere troppo serio per permettersi giochi letterari. Certo, esiste il rischio nemmeno così piccolo di trovarlo stucchevole - rischio inevitabile utilizzando la cornice di una forma narrativa senza poterla animare - ma resistere alla sensazione di déjà vu può essere fecondo, soprattutto leggendo l'ultima parte del libro.
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Mmmmhhh, quanto spazio utilizzato per le tutine rosse. Cercherò di essere più stringato per il 1611.
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Angelo meccanico è un noir, con un'ambientazione vaga - surriscaldamento dell'atmosfera, ghetti di emarginati, enclave chiuse e pericolose -, una serie di personaggi adeguati: Sookie, una ragazzina sbandata, Tanner un ex-poliziotto con un passato impresentabile e un amore fallito alle spalle, un serial killer angelicamente metallurgico e un vero poliziotto, Carlucci, che indaga, collabora e quando necessario agisce. 
La vicenda scorre abbastanza liscia e senza eccessiva sorprese e giunge al suo ovvio termine come da manuale, con un intervento dell'FBI nel finale non esattamente gradito. Angelo meccanico è in realtà il primo di una serie di tre gialli ambientati in un mondo futuribile con Carlucci, il poliziotto, nei panni del protagonista. 
Novum? Sense of wonder? No, non se ne parla. Il mondo dell'angelo meccanico è la nostra Terra attuale, ingombra di rottami metallici e popolata da fabbriche abbandonate. Leggere Angelo meccanico è un'esperienza curiosa e sufficientemente divertente ma non ha nulla del brivido di razionale fantastico che può garantire un romanzo di sf. L'ambientazione sf-style finisce così per diventare un elemento del canone di una scrittura post-moderna, dove il noir è una versione alla moda del poliziesco tradizionale, gli emarginati sono "gli irregolari di Baker street" di sherlockiana memoria, ovvero gli irrinunciabili aiutanti, e il surriscaldamento ambientale diviene un elemento di sfondo tutto sommato banale, come il fango e la sporcizia nei bassifondi.
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Che altro aggiungere? Commentare le scelte dell'attuale Urania? No, non mi sembra il caso. Ne ho già parlato e non sembra il caso di ripetere cosa già dette. Tanto comunque non resisterò e comprerò anche il prossimo Urania, sperando che contenga fantascienza...  
 
 

[*] Nella presentazione di Urania all'autore viene indicato il Rosetta Codex come pubblicato nel 2005 e un romanzo successivo, Unto Leviathan, come pubblicato nel 2008. Il problema è che Unto Leviathan è il titolo dell'edizione "in the United Kingdom" di Rosetta Codex. Si tratterebbe, in apparenza, del medesimo libro, a meno che il nostro G.Lippi non ne sappia molto di più in proposito...  
[**] LING. Testo che contiene altri testi o che a essi allude.