31.1.13

Burn-out da blogger?


Ieri due post hanno richiamato la mia attenzione. Due post, l'uno di Davide Mana l'altro di Salomon Xeno, su temi diversi ma tutti e due mirati su un tema che, nel mio ruolo di blogger non posso ignorare. Se nel primo caso non è stato particolarmente complesso afferrare il tema affrontato – il fenomeno dell'esaurimento di idee e di voglia di intervenire che può cogliere un blogger – nel secondo ho dovuto leggere numerosi interventi per arrivare a farmi un'idea della materia del contendere e tuttora non sono ancora certo di aver capito davvero. La cosa davvero importante di entrambe, comunque, era il confronto in atto sulla figura del blogger e sulla funzione dello scrivere blog. Inevitabile riferire a me stesso i rilievi mossi e farmi qualche domanda. A che cosa serve un blog? Ha senso scrivere (quasi) ogni giorno? È normale arrivare a un punto di rottura? Ha senso "pubblicare" notizie, racconti, riflessioni su uno strumento tanto inevitabilmente narcisista? 
Ma proviamo ad andare in ordine. 
1) A che cosa serve un blog? 
Bella domanda, come si dice quando non si sa bene che cosa rispondere. Questo blog – fronte e retro – è nato nel 2004: una specie di strano regalo che ricevetti da Francesco Eandi del quale per molto tempo non seppi che farmene. Il mio primo post (ovviamente senza alcun commento) fu pubblicato nell'ottobre del 2004, Strano autunno tiepido, un post che testimonia abbondantemente che non sapevo bene che cosa dire. Poi probabilmente decisi che una delle funzioni possibili di un blog – una volta stabilito che non avrei mai avuto il tempo di farne uno strumento di informazione – era quello di pubblicare brani di narrativa e due mesi dopo pubblicai il mio primo racconto on line, L'ultimo giorno dell'invasione, racconto che rimase solo on line fino al gennnaio 2012. Nel frattempo, ovvero durante gli otto anni di intervallo, ho fatto del blog una sorta di diario pubblico, commentando notizie a casaccio e raccontando qualcosa del mio lavoro e delle mie avventure. Poche recensioni, nonostante il mio lavoro, le recensioni, infatti, sono sempre state una parte del mio lavoro e il blog, secondo me, era un puro divertimento. In questi anni ho funzionato decisamente a corrente alternata, lasciando spesso il blog solo & abbandonato (in tutto il 2006 ho scritto un [1] post in tutto) e pià raramente scrivendo qualcosa con una frequenza bisettimanale o trisettimanale. In linea di massimo è rimasto vero – e probabilmente lo resterà a lungo – che il blog è per me una forma di svago.


2) Ha senso scrivere ogni giorno? 
No. Sempre che non abbiate sempre qualcosa di nuovo e interessante da offrire, cosa che ad alcuni, ma soltanto ad alcuni, capita. Postando ogni giorno o giù di lì e sforzandosi di rimanere allegri & frizzanti si potrà in breve contare su un numero esagerato di lettori, lettori che però cambieranno velocemente aria quando attraversete un momento di stanchezza o di scarsa vena (o di improvvisa serietà). Lettori che in una percentuale variabile tra l'uno per mille o l'uno per diecimila saranno disponibili a seguire le vostre peripezie narrative o saggistiche, arrivando a spendere cifre comprese tra l'euro incompleto (0,99) fino a un massimo di 2,99 euro per potervi leggere. «Maledetti ingrati!» si potrebbe pensare, se non si fosse già abbondantemente vaccinati alla vita on line. Percentuali appena appena più guardabili si raggiungono offrendo alla libera lettura i proprii testi, questo indipendentemente dai possibili allori dei quali ci si può fregiare. Il problema, indipendentemente dal valore dei testi offerti, è semplicemente il tempo residuale con il quale ci si collega a internet, l'attesa un po' bambina di nuove e fantastiche avventure che induce a saltare o a rimandare a un altro indefinito momento il piacere della lettura. Quindi, perlomeno in apparenza, postare con cadenza quotidiana non serve a trovarsi dei lettori ma soltanto dei visitatori, «un solo pesciolino d'oro ogni centinaia di rapidi pesciolini d'argento.».
3) È normale arrivare a un punto di rottura? 
Ovvio, più che normale. Necessario, a pensarci bene. I lettori si perdono e si riguadagnano. Gli aficionados si scoraggiano, ma se ne troveranno altri, i lettori... beh, i lettori convinti si perdono ma mai completamente e una volta ritornati al proprio blog anche loro, poco alla volta, ritorneranno. Che mantenere un blog sia faticoso è indiscutibile, soprattutto se nel proprio blog si cerca di essere se non proprio affascinanti perlomeno interessanti, vari, non conformisti e si lavora ragionando su se stessi piuttosto che sul possibile pubblico. In questo senso scrivere un blog non è troppo diverso dal comporre narrativa. Se rimani te stesso troverai sempre qualcuno – anche se pochi – disponibile a leggerti, se ti sforzi di piacere troverai (e perderai) migliaia di lettori. Costruire un blog che divenga una voce rilevante non è affatto facile e assomiglia da morire a un lavoro vero. Mi basta l'esempio dell'ottimo blog di Massimo Maugeri, Letteraritudine, divenuto una voce di rilievo nel mondo letterario, uno spazio inevitabilmente collettivo e ricchissimo di interventi, interviste, riflessioni, recensioni, proposte, incontri, spazi video e radio e quant'altro vi venga in mente. Mettere in piedi un open-blog di questo genere è né più né meno un lavoro e non sono ammessi, in questo caso, burn-out.



4) Ha senso "pubblicare" notizie, racconti, riflessioni su uno strumento tanto inevitabilmente narcisista?
Il problema reale è se si desidera mettere "tra parentesi" la propria esistenza o se si desidera esaltarla. Nessuna delle due è una scelta condannabile a priori, sia chiaro. La differenza si coglie meglio immaginando il lettore X che accende il computer chiedendosi: «Cosa si dirà oggi sul blog di Y?» o in alternativa si chiede: «Che cosa dirà oggi Y?». Nel primo caso il nostro Y dovrà sforzarsi di scegliere accuratamente le notizie e suscitare una discussione interessante, nel secondo dovrà provvedere personalmente a fare il gioco delle tre carte. Nel primo caso il titolare del blog dovrà cercare di non eliminare interventi anche sferzanti, polemici o rabbiosi, nel secondo potrà eliminare chi gli pare, limitandosi a esercitare un minimo di buona educazione.
In entrambi i casi l'aspetto narcisistico del blog è assolutamente evidente e, come dicevo poco fa, non c'è nulla di male in questo. 
Interessante osservare che anche volendo intrattenere i visitatori con la propria produzione narrativa si può - o forse si deve - aderire a uno dei due possibili profili, quello dell'intrattenitore o quello del protagonista. Pericolosissimo rimanere in equilibrio tra le due condotte, fingendosi poco interessato alla gloria personale e al proprio - sia pur molto relativo - successo. I visitatori, e a maggior ragione i più attenti alla produzione narrativa tra loro, reagiranno moooolto male a queste manovre, sentendosi in qualche finiti in una trappola. Meglio essere molto chiari, a tale proposito, dichiarando fin dall'inizio la propria insana passione per la narrazione e, se lo si ritiene adeguato, presentandone alcuni frammenti, accettando con maggiore o minore garbo gli inevitabili strascichi, le polemiche, i rari apprezzamenti e persino il silenzio. Siamo on line da un po', sappiamo comportarci. Rimane aperto il problema del profilo giusto da utilizzare per un autore giovane, necessariamente impaziente di far conoscere al mondo il proprio talento, e per un autore con una certa esperienza sulle spalle, un po' più cosciente della qualità necessariamente relativa di una produzione che non è passata per le mani di un editor di fiducia.  
Ultima domanda, non scritta, ma alla quale mi piace rispondere. Sinceramente non penso che il relativo «successo» del proprio blog sia una chiave che può aprire tutte le porte o che può aprire le porte giuste. Può essere parte di un profilo professionale che si presenta al possibile editore, ma l'aver animato un concorso, un blog award o consimili o l'averlo addirittura vinto non credo possa cambiare le carte che si hanno in mano. In ogni caso le carte che contano le ha in mano l'editore, che deciderà punto per punto il modo di presentarvi al mondo e saprà come giudicare i vostri relativi successi.
Per quanto mi riguarda, tenendo conto della mia età, dei miei trascorsi, delle polemiche alle quali ho partecipato, dei miei modi poco urbani, delle mia intollerabili antipatie - quel che è peggio dichiarate ad alta voce e per iscritto - non conto sul mio blog. Anzi, dovrei ammettere di non contare su nulla. I miei visitatori, pochi o tanti, sanno di dovere prima o poi subire i miei accessi narrativi. 
In caso di intolleranza, ripassare un paio di giorni dopo.     

 

29.1.13

Storia di un'agonia, con un possibile lieto fine


Ne ho parlato in dicembre, in un articolo piuttosto deprimente, e ora, come promesso ci ritorno. Ieri alle 13.30, invece di pranzare, ci siamo ritrovati nella (temporanea) sede di Piemonte Libri, in via San Tommaso. Una decina di editori piemontesi - i delegati dal coordinamento dei 140 editori - per discutere del documento da portare in Regione e per avere qualche info sullo stato delle cose. La discussione del documento è stata breve, in un modo o nell'altro tutti quanti abbiamo dato un nostro contributo alla sua stesura – il mio è stata un generoso intervento sulla necessità della vendita on line di libri ed e-book, approvato all'unanimità –, e il problema era semplicemente quello di trovare qualcuno che si incaricasse di farlo pervenire agli altri editori. Si sono poi scelti i tre delegati all'incontro con la regione, tra i quali ovviamente sono stato infilato anch'io («In fondo abiti a Torino, no?») e la parte che riguardava il documento è terminata. Dopodiché abbiamo sentito le «nuove», che tanto nuove non sono. La Regione Piemonte non ha ancora pagato, nonostante le promesse, le tre persone che lavorano in libreria vedono avvicinarsi il giorno dell'inizio della disoccupazione, entro marzo al massimo i sigg.ri editori sono pregati di venirsi a prendere i loro libri e non c'è ancora un'alternativa decente, né in centro né in periferia. C'è stata una discussione piuttosto pletorica sulle possibili zone (Cit Turin? S. Paolo? Zona C.so S. Maurizio? La ex-Manifattura Tabacchi?), ma la realtà è che tutto è fermo. Aprire una libreria in questo momento assomiglia molto a ciò che mio padre definirebbe «un colpo di testa». Tanto più se si tratta di una libreria con soltanto libri degli editori piemontesi. C'è un po' di stanchezza, inutile nasconderlo, e un po' di scoramento. 

Il problema, a volerlo guardare da un punto di vista un po' meno parziale, è che la Regione Piemonte ha semplicemente finito i soldi – ovvero ha finito i soldi dedicati alla cultura – e le imprese editoriali piemontesi hanno le spalle troppo gracili (nonché, purtroppo, troppi contrasti tra loro) per sostenere il peso di un punto vendita nel centro cittadino.  
È un meccanismo piuttosto comune in una situazione di crisi: non hai i soldi per mantenere il tuo punto vendita quindi ci rinunci, quindi non hai i soldi per promuovere altrimenti le tue iniziative, quindi il tuo fatturato decresce, quindi non hai i soldi per nuovi libri... e da un quindi all'altro ti trovi a dover chiudere.
In un vecchio romanzo di fantascienza di un autore americano, curiosamente socialista, Effetto valanga di Mack Reynolds (1974) la crisi economica viene innescata da un uomo qualunque che decide di non cambiare la sua lavatrice. Negli anni '70 non esistevano ancora i derivati né le banche d'affari avevano tutto il potere - economico e politico - attuale, sicché la crisi immaginata da Reynolds ha qualcosa di curiosamente antico, ma ciò non toglie nulla alla giustezza dei meccanismi macroeconomici di fondo. Una crisi rimane tale finché non interviene direttamente lo Stato, con buona pace di tutti i liberali del mondo. Nel libro la crisi viene risolta passando una busta all'uomo che a suo tempo aveva rinunciato alla lavatrice, invitandolo a comprarla. Nella realtà risulta ovviamente impossibile ripescare il fattore scatenante, ma ciò non toglie che l'aiuto pubblico potrebbe essere indovinato, in questo momento. Non è questione di andare a piangere da papà Stato e chiedergli la paghetta, ma soltanto di utilizzare formule di sostegno all'imprenditoria. Rimandare le tasse alle imprese e lasciare ai cittadini un po' di denaro perché venga speso. «Sostenere la domanda», tanto per utilizzare una formula che piace ai nostri bocconiani. Una formuletta facile facile che Mr. Monti non ha applicato, anzi ha fatto l'esatto contrario. Secondo Vladimir Ilic Ul'janov, per gli amici Lenin, i meccanismi dello stato e dell'economia dovrebbero essere sottoposti al giudizio di una massaia, che potrebbe stabilire se una politica è o meno funzionale. Personalmente non credo che Monti e i suoi fantastici ministri avrebbero passato l'esame. Quanto agli amministratori della regione Piemonte... beh, speriamo durino il meno possibile e che a sostituirli ci sia qualcuno che non è andato alla Bocconi.

27.1.13

Curva nella mia sobrietà


Verso la fine degli anni '80 mi capitò di ascoltare per radio una voce femminile, bassa e vellutata, solitaria e intensa. Non aspettai, credo, più di una mezza giornata prima di acquistare il primo disco di questa curiosa artista, un'inglese di origine malese: Ancient heart. Eccellente, nulla di meno. 
Seguirono altri dischi, ma il mio cuore è ancora legato alla curiosa, inattesa sensazione di solitudine e di distacco che suscitò in me il mio primo incontro con lei, sensazione che non ho smesso di provare. 
Dal suo primo album un brano, Twist in mt sobriety, con un video davvero notevole. Buon ascolto.  

  
Oggi è anche il Giorno della Memoria. Partecipo a quanto viene giustamente ricordato in giro per la rete. Personalmente rimando a un mio post di un anno fa, Non dimenticare, comunque, al quale non potrei aggiungerei nulla. 

26.1.13

Rumore bianco

Un racconto relativamente recente - pubblicato su Fata Morgana 9, «Età, tempo, passaggi, oblio». La presentazione che scrissi allora era: «Massimo Citi, con frequenza non ancora allarmante, scrive racconti contorti e enigmatici come questo. Se qualcuno gli chiede: “cos'hai voluto dire?” balbetta qualcosa di oscuro e, appena possibile, si dà alla fuga. L'unica spiegazione è che certe storie vengono, ti attraversano e se ne vanno senza lasciare messaggi né recapiti. Probabilmente continuano a esistere da qualche parte». Una buon presentazione, direi, anche se infiltrata da un po' di baricconismo nella seconda parte. La realtà è che il titolo «Rumore bianco» mi perseguita da anni e anni e ho tentato di appiccicarlo a una mezza dozzina di racconti. Per il momento l'ho appiccicato a questo, ma se ne scrivo uno più adatto questo diventerà «Perdere la voce» o qualcosa del genere.Buona lettura



Il problema del nome è reale e non un fantasma dell’immaginazione medievale. Il Logos, il verbo, trasforma il caos in una serie di oggetti diversi e separati.
(P. K. Dick)

Ci sono solo i piccioni, ora.
Il tetto della fabbrica è una serie di archi color fegato. Non sono archi diritti, piani, tesi e rigidi tra un punto e l’altro dei due muri più lunghi, ma si inclinano come palpebre semichiuse, e hanno per occhi vetri scuri.
...
Una volta vendevano delle cartoline speciali in bianco e nero, qualche rara volta a colori. Poche auto in un piazzale e una fabbrica nuova, appena finita di costruire. C’era qualcuno che le spediva, mandava una cartolina dalla modernità, dalla felicità, dalla sicurezza, dal lavoro. Ne conservo alcune dentro un libro. Quei piazzali per sempre vuoti nella fotografia mi danno una sensazione di pena smarrita, come immaginare la gioia di una festa alla quale non sono stato invitato.
Viste dall’alto del mio quinto piano le onde calcificate della fabbrica mostrano ventri spezzati, frammenti di cristalli che spiovono dall’alto e sporgono dal basso come irregolari denti di squalo. I piccioni si fermano sulla cresta dei mattoni, infilati uno di seguito all’altro come i merli di un castello. Probabilmente ogni tanto volano all’interno. Mi piacerebbe essere un piccione. Da un po’ di tempo ho bisogno di spazio e la fabbrica abbandonata dev’essere piena di vuoto, spazio polveroso, senza più odore, spazio chiuso ma ampio. Un uccello che sfiora il soffitto di luce grigia e ragnatele e passa con le ali aperte accanto ai denti di cristallo sporco delle vetrate.
Ho spesso la tentazione di entrare, passare un pomeriggio sotto la protezione del suo silenzio definitivo. Quando lavoravano ancora (c’è una tettoia arrugginita, la immagino irta di una rastrelliera, carica di uncini per appendere le biciclette) non abitavo qui. Adesso mi basta calare la mia tenda verde a pacchetto che scende a scatti, singhiozzando, per poter dimenticare e concentrarmi su altro.
...
Concentrarmi sulla vicina di fronte – 35 anni, bionda tinta, una bambina ma nessun marito – che ogni sabato mattina sul pianerottolo discute con sua madre. Lei, la nonna, ha passato la notte con la bambina (la piccola ha un pigiama verde con pipistrelli viola e labbra brevi, stranamente colorite come se si desse il rossetto). La madre di trentacinque anni è stata via, ha dormito fuori e torna con il trucco dato malamente. La bambina la guarda dal basso, complice ma perplessa. La madre la prende in braccio frettolosa, in un gesto spezzato dall’esitazione. La nonna non lo fa vedere per via della bambina (che tra vent’anni comunque capirà) ma ha paura per sua figlia, divenuta adulta senza essere grande e che vola stretta e cieca come una falena intorno al lampadario. Ci sono già troppe ferite, la nonna non ha cuore di chiederle nulla.
Le guardo trattenendo il fiato: minuscole nella luce chiara che entra dal finestrone condominiale oppure pallide nel riflesso al neon. Misuro il loro minuto interminabile, prima che la porta mi salvi dal sapere troppo di loro.


Con mia moglie non se ne parlava, di lei, di loro.
Si aspettava prima di uscire, se erano sul pianerottolo. Si scivolava fuori a testa china, con un sorriso vuoto già pronto a un incontro casuale. Adesso che mia moglie è via – tre mesi, con i bambini e i genitori – posso ubriacarmi dell’imbarazzo che provo a spiarle.
Le spio perché non riesco a parlare. Perché quando, raramente, mi capita di incontrarle sento che le parole mi si ingolfano dentro, tutte ugualmente sciocche, tutte ugualmente sbagliate. Perché io suppongo molto della loro vita, riesco a immaginarla senza un filo di compassione.
...
Accendevo sempre la radio mentre facevo qualcosa in casa, come spolverare, rimettere a posto un cassetto, spostare i libri in biblioteca. E raramente mi capitava di fare davvero attenzione alle trasmissioni. Era un’abitudine presa nell’infanzia, come il caffelatte e le scarpe lasciate dietro la porta del bagno.
Come in tante altre mattine la radio era scivolata dal GR del mattino al notiziario regionale, al programma di oroscopi.
Seguiva un programma di telefonate in diretta. Rispondeva una psicologa, una voce garbata, accorata e noncurante come tante altre prima di lei.
Riconosco la sua voce. Leggermente rauca, già stanca. Posso immaginare la sigaretta accesa che tiene tra l’indice e il medio della mano sinistra. Si spinge indietro i capelli con il pollice e il mignolo della destra mentre tiene il telefono portatile tra il mento e la spalla.
Da qualche parte in casa dev’esserci anche la bambina. Come sempre fa finta di non ascoltare.
– Perché a un certo punto della vita manca qualcosa, capisce? Qualcosa.
– Diciamo un affetto?
– Una presenza. Meglio. Ma lei sta pensando a un uomo vero? A un marito?
– Io non sto pensando. La ascolto.
– Non sono gli uomini il mio problema.
(Ecco che sorride. Per radio non la possono vedere, ma sicuramente sorride. Nei suoi pensieri incantati c’è posto anche per il desiderio di essere ammirata da un pubblico lontano che non la conosce e la sua voce ha una nuova sfumatura, più conscia. La bambina, che ha sollevato il capo per guardarla, non si rende ancora conto di capire anche questo. Qualcun altro proverebbe disapprovazione o comprensione per loro. Io solo una curiosità essenziale, priva di emozioni).
– Certo, i tempi, le situazioni sono molto cambiate. Ma ha già pensato di chiamarlo?
– Non è questo il problema.
– Certo, ma ci ha pensato?
– Tante volte, glielo assicuro.
– Crede di trovarlo poco disponibile?
– Non credo di trovarlo. O magari dorme ancora, a quell’ora.
...
C’è qualcosa di tenacemente incoerente nelle loro frasi, un filo sotterraneo che per me è impossibile da afferrare. Provo ammirazione per la sua capacità di esporsi, di raccontarsi, compiere con leggerezza ciò che per me è sempre stato impossibile.
Chiudo il cassetto. Temo di saltare un passaggio, qualcosa di essenziale.
Mi costringo a un’assoluta immobilità, ridendo di me e del mio stupido impulso.
...
– E perché non lo chiama?
– Mi interrompo a metà. Mi appare anche nei sogni, è pallido, quasi non lo riconosco.
– È sgradevole.
– Sa, mi viene da accarezzarmi, toccarmi.
– È normale, è normale. Normale ma sgradevole.
– Mi tocco, mi fa male, non ho le mani pulite mentre lo faccio, qualche volta ho in mano un coltello. Tagliavo le fragole. Esce sangue o forse sono le fragole.
– È normale, normale ma sgradevole.
– Ma non è per me, è per la bambina. Si può impressionare.
– Certo, mi chiami ancora, le posso dare il numero del mio studio.
– Posso memorizzarlo sul portatile. Ha molte memorie, posso memorizzare fino a duecento numeri. Me l’hanno regalato.
– Certo. È bello. Scriva…
...
Sono certo di avere ascoltato con attenzione, di non aver perduto nemmeno una parola.
E allora perché ho la netta sensazione di non aver capito nulla? Non solo, perché ho la sensazione che il loro dialogo raccontasse qualcosa che io non potrò mai comprendere?


 Non è la prima volta che mi accade. Spesso ho la sensazione che manchino brani di frasi, parole, sillabe ai discorsi degli altri.
Probabilmente me ne sono accorto da anni, pur senza volerlo ammettere. E infatti da anni evito le conversazioni – ogni volta che mi è possibile – mi nascondo dietro formule ovvie, affermazioni recise e irrefutabili, riferimenti a terzi, citazioni. Mi sforzo di non mettere nulla, di mio. Mi risparmio, mi trattengo. Se tento di dare un colore, un senso a tutto ciò che ho detto in anni di vita e di conversazioni ho la sensazione che resti ben poco, bolle di sapone che lasciano un breve cerchio di umidità sul muro. E sono certo che tutti se ne siano accorti.
...
Ho in mente un’immagine, forse il ricordo di un sogno. Formiche brune che scivolano lente su un muro coperto di asfalto, freddo ma non ancora solidificato. Le formiche sollevano le zampe dall’asfalto che le trattiene, lentamente, ma non sono spaventate. Scuotono il capo, oscillano le antenne. Minuscole dense gocce di asfalto scivolano loro sul corpo. Le formiche volgono la testa, succhiano l’asfalto – forse non si tratta di asfalto, ma di qualcosa di denso e dolce – e riprendono a camminare. Tutto avviene con una lentezza snervante. Le formiche giungono al limite del muro e riprendono a salire. Il movimento – insistito, languido – non cessa mai.
...
Certi giorni ho la sensazione di essere l’unico a vedere il mondo in bianco e nero mentre tutti gli altri lo vedono colorato. Ho smesso di aspettare il ritorno della famiglia («Sarà meglio che facciamo un po’ di vita separata, noi», ha detto, «sarà meglio che tenga io i bambini», va bene va bene) e ho fatto in modo di dover uscire il meno possibile.
Ascolto. Collego alla radio le cuffie dello stereo – cuffie ottime che liberano un suono puro, perfetto – e virtualmente mi siedo accanto a chi trasmette.
Sono colpito da un’accidia bizzarra che non riesco a spiegare neppure a me stesso e che si prolunga. Ieri sono arrivato davanti al mare. Passavano poche auto, ancora meno pedoni. Il sole mi sembrava più inclinato, più lento. Di nuovo le formiche, di nuovo quella sensazione snervante di densità, quel languore che odora di bruciato e brulica di innumerevoli movimenti ripetuti, inutili. Le nuvole sospese sull’orizzonte non riuscivano a specchiarsi nel mare, non c’erano più ombre, alle mie spalle il vuoto, un vuoto incolore striato di pochi rumori metallici.
...
A casa ho infilato le cuffie. Rumore bianco. La frequenza è scivolata in una zona vuota. Potrei alzarmi nuovamente per ritrovare la sintonia. Non lo faccio, chiudo gli occhi e ascolto.
...
Non mi interrompo per mangiare. Solo per andare ad ascoltare qualche volta alla porta, sperando di cogliere qualcosa di lei. Tre generazioni di donne senza un solo uomo destinato a durare. Qualche volta la vedo. Stamattina aveva una specie di camicetta, un top di pizzo. Le lasciava scoperte le spalle e una sottile striscia del ventre, appena sopra i pantaloni dalla vita bassa. Non la spio per il desiderio (anche se i suoi capezzoli molto scuri mi hanno emozionato) ma perché non sono obbligato a parlare per lei. Stamattina molto presto ascoltavo la radio e pensavo: quando riprenderò a parlare ciò che riuscirò a produrre sarà solo rumore bianco.
...
Chissà dove va? Chissà con chi va?
Non posso fermarla, non voglio fermarla.
… Mi tocco, mi fa male, non ho le mani pulite mentre lo faccio…
Probabilmente con nessuno. Semplicemente si espone, si concede a lattine taglienti, frammenti di copertone, lamette usate, avanzi di cibo, sacchetti sfondati.
… qualche volta ho in mano un coltello. Tagliavo le fragole. Esce sangue o forse sono le fragole.
Dove va quando si allontana? Quando esce dall’orizzonte curvo e certo della mia osservazione?
...
Mi tolgo le cuffie. Il rumore bianco non mi abbandona.
...
Fuori dalla porta di casa – accuratamente serrata – oltre i muri sottili, odo la replica interminabile di suoni sempre uguali. Una voce nasale, un oggetto che cade, il rumore di una sedia trascinata. Mi sono reso conto che sono sempre gli stessi, ripetuti con una frequenza fissa.
In strada c’è una strana calma: niente motori, niente clacson. Come una domenica mattina di Natale, sotto la neve.
Con la schiena contro il muro, le braccia raccolte intorno alle ginocchia tengo gli occhi ben chiusi e mi affido interamente all’udito.
...
Stamattina sono arrivato sino alla finestra aperta e deliberatamente ho guardato solo verso l’alto: il cielo. Verde-azzurro era attraversato da un sottile ricamo dorato disegnato dalle curve sinuose delle nubi che nascondevano il sole: nubi azzurre, simili a enormi confetti o a matasse di zucchero filato all’anice.
Sul tetto della fabbrica i piccioni sono scomparsi, come non fossero mai esistiti. Chiudo le persiane lasciando vivere solo pochi fili di luce.



Provo il desiderio spasmodico di ridere: un prurito alla base del cervello che non avevo mai sentito prima. I profili degli oggetti in penombra sono sfumati, come in un disegno in bianco e nero bagnato e poi asciugato.
Faccio scattare il grilletto dell’affetto e dell’ansia, ma scatta a vuoto. La famiglia al mare è lontana, tranquilla. Foto di gruppo, senza dedica né didascalie. Sento il silenzio, dentro, e la voglia di ridere.
...
Da bambino… che cosa si ricorda di reale della propria infanzia? C’è il proprio ricordo, inerte, nebuloso e ci sono i ricordi degli altri, degli adulti che non sono affatto nebulosi ma definiti, netti, lucidi come compassi e si imprimono nella mente più dei propri, fino a sostituirli completamente. Quella volta che… allora hai dimostrato il tuo carattere… un caratterino… l’hai preso al volo… l’hai preso per la mano e… Come essere un uovo: nel piccolo, nel poco, c’era già scritto per intero il codice del futuro. Gli adulti che cercavano rassicurazioni, che volevano la prova, la testimonianza che qualcosa di loro sarebbe sopravvissuto.
Da bambino inventavo le parole. C’erano le parole dei grandi, solidamente ancorate a oggetti, stati d’animo, sensazioni. E poi c’erano le mie parole: volubili, instabili, che non si ripresentavano mai due volte nella stessa forma. Che non avevano mai un senso dichiarato, un corrispondente nella realtà. Le pronunciavo di nascosto, a bassa voce, prima di dormire o quando mia madre riposava e non poteva ascoltarmi. Ero assolutamente solo in quei momenti. E l’essere solo mi esaltava, mi faceva sentire unico. Unico come altri cinque miliardi di individui, ma allora non potevo saperlo.
...
Oggi è venuta a trovarmi. L’ho vista inquadrata nella porta accesa di una luce di cenere. Portava solo il suo top di pizzo e aveva capezzoli del colore del catrame. Gusci d’uovo attaccati all’interno delle cosce. Le formiche la seguivano. Ho sorriso anche mentre lei mi guardava. Non so come abbia fatto a entrare ma sono stato felice. Non mi ha chiesto di parlarle, non mi ha chiesto di risponderle. Potevo vederla anche senza aprire gli occhi. C’era un silenzio solido, denso che avrebbe potuto ingoiare ogni rumore. Onde lente che mi hanno gentilmente spostato, trascinato fuori dalla vita, liberato dalle parole. 


 
L’aria ferma ha un vago odore di chiesa. Legno umido e invecchiato, incenso bruciato centinaia di volte. Entra dalla finestra chiusa e si sovrappone al mio odore animale. O forse non entra e si è semplicemente sostituito al mio, un sentore prodotto da qualcosa che cambia qui dentro, qui proprio vicino a me. Mi sono mosso appena lo stretto indispensabile, in questi giorni. Non ho più parlato. Di tanto in tanto accendo la radio. Non cerco più frequenze abitate. Solo una, dove una voce senza sesso ride e ripete poche parole, fonemi idioti. Parla la propria lingua, anche lui, come facevo io. Probabilmente anche sua madre dorme. O forse è notte, e lui si sente finalmente solo.
...
La luce dietro le persiane ruota nel tempo. Quando un raggio di sole le attraversa guardo la polvere vagare, oscillare seguendo propri percorsi imprevedibili. Da qualche giorno i rumori sono cessati. Silenzio nel condominio e nelle strade. Adesso, a sentirlo, ho la sensazione che sia sempre stato così. Ho notato che le mie parole cominciano a spostarsi, a nascondersi. Scrivo a fatica, ritorno sulle righe e cancello, riscrivo. Oggi ho scritto innumerevoli volte «Imbuto», una delle prime parole che ho imparato. Vuol dire senz’altro qualcosa, ma non so che cosa. Cerco di non trascrivere ancora le finte parole che mi vengono in mente. Non ho più aperto bocca, non ho più pronunciato una sola sillaba a voce alta. Sono certo che le parole che non pronuncio, la comunicazione ridotta a zero, finiranno per disseccare la riserva di ricordi che mi cullo nella mente.
Libero di ricominciare da capo.
Non scende più acqua dai rubinetti. Ho riacceso la radio, ma non esistono più frequenze né trasmissioni, neppure una, solo un rumore bianco rimbombante.
Ho alzato il volume al massimo, comincio a riconoscere ritmi e cadenze in ciò che emerge dalle cuffie, ne intuisco un senso. Non riesco a immaginare quale sia.
...
Volo nell’aria polverosa della fabbrica, ne respiro gli odori, stratificati come lamine di pietra, sfioro il soffitto annidato di ragnatele, passo accanto alla luce torbida dei vetri retinati. Il mio sguardo esplora il silenzio, oltrepassa porte dalle cornici scheggiate. Non sento nessun desiderio di tornare al cielo, appartengo per intero a un’altra materia e le ali sono il ricordo di un sogno fatto da bambino.
Sono quieto, in pace. Ciò che della realtà riesce ad arrivare fino qui, fino ai miei sensi esaltati è stranamente lucido, essenziale. Puro, vorrei dire.
Cerco di dimenticare le parole.
...
Prima di imbuto ho imparato a scrivere mamma, ho imparato a dire mamma. Mamma. Scrivo ancora mamma per dimenticare. Facile. Troppo facile. Non costa fatica, mamma. Non fa fatica. Fatica. Mamma.
...
Fshhhhhhhhhhhh, rumore bianco. Bianco, camicia, luce. Suoni in strada. È ricominciato. Come quando si spostano mobili, grossi mobili. La luce oscilla, scompare, alle volte. Dovrei uscire, parlare. Scivolano via spariscono se ne vanno una per una senza salutare, senza il mio permesso scompaiono via via via via un vuoto dentro dentro sorrido sorrido labbra secche parlo dico mamma mamma mamma senza ancora riuscire a perderla
...
senza acqua quattro cinque giorni sono a sette ultimo giorno luce grigia e bianca luce breve rumori vicino sulle scale rumori si alzano come acqua alla mia porta sotto la mia porta adesso esco a cercare acqua poi parlo parlo dico e penso penso ancora penso ancora


25.1.13

M.A.d.u.L.p. 12. Librodinamica


Esistono costanti nel lavoro di libraio, come in ogni altri attività.
Più che costanti forse bisognerebbe definirle tormentoni, ovvero piccoli contrattempi che, inspiegabilmente, si ripetono con una regolarità che sembra non avere nulla di casuale.
Il caso è forse semplicemente l’incapacità di tenere contemporaneamente sotto controllo un numero altissimo di parametri. Oppure, più raffinatamente, l’epifenomeno di una serie frattale di eventi. O, ancora, la rappresentazione della volontà persecutoria di una divinità malevola.
Esemplifico.
A quanti è successo di giungere all’angolo della via dove transita il mezzo pubblico atteso e vederselo passare davanti? E qualcuno può affermare che tale evento è accaduto con la stessa frequenza con la quale lo stesso mezzo pubblico è giunto in pochi istanti alla fermata ed è stato possibile salirvi?
Nessuno tiene il conto delle manifestazioni della perfidia delle cose, eppure se qualcuno lo facesse il risultato sarebbe, io credo, inquietante.
La perfidia delle cose si presenta in libreria in forme peculiari, a dimostrazione dell’inesauribile fantasia del mondo materiale.
Per comodità di approccio, sul modello dei vari volumi delle Leggi di Murphy, mi atterrò a uno schema molto simile, denunciando la finta casualità del reale attraverso l’enunciazione di leggi facilmente verificabili.
Cominciamo dai clienti.

Legge di Hättanschweiler sulla complessità delle richieste:
«La complessità della richiesta è direttamente proporzionale al prolungarsi dell’orario di apertura».

Ovvero, se qualcuno ha in mente di sapere se è ancora in commercio l’opera prima di un poeta semidimenticato o gli scritti postumi di uno scienziato poco noto aspetterà le 18.55 (o le 19.25) per giungere in libreria.

Corollario di Comic Sans alla Legge di Hättenschweiler:
«Il volume cercato con maggior impegno sarà sempre esaurito e fuori commercio».
Commento di Verdana al corollario di Comic Sans:
«Tutti i volumi esauriti e fuori commercio risulteranno disponibili nella libreria concorrente e presso il sito internet del fornitore»
E qui mi fermo. Avete capito il senso del discorso, credo.




Continuiamo.

Legge di Tahoma sulla persistenza dei clienti:
«Dato un ultimo cliente, esiste sempre un cliente successivo»

Si tratta di colui che infilando obliquamente la testa sotto la serranda a metà chiede pletoricamente: «Siete già chiusi?».
«No, fingiamo», viene voglia di rispondere.

Corollario di Impact (necessariamente):
«Il cliente successivo all’ultimo non tornerà».

Probabilmente vive per un’ora al giorno, tra le 19.00 e le 20.00.
A nessun libraio è capitato, io credo, di incontrare un cliente successivo all’ultimo in pieno giorno.

Legge di Baskerville sulla quantità massima di clienti:
«Il numero di libri acquistati è inversamente proporzionale al numero di persone che entrano contemporaneamente in libreria».

Gli studenti (ma anche le famiglie) entrano in gruppi di 15-20 persone delle quali soltanto una ha il dono della parola. E lo utilizza per chiedere un’informazione («Quanto costa il libro di fisiologia peristaltica? / quanto costa il libro di geografia?»).
Segue uscita disordinata.
Se si tratta di famiglie il bambino più piccolo farà cadere una pila di libri, se di studenti a farlo sarà il più alto. Se si tratta di sole studentesse usciranno ridendo. Nessuno saprà mai perché.





Corollario di Windings:
«Il libro del quale viene richiesta collettivamente un’informazione sarà acquistato in un’altra libreria»
Eccezione di Serifa : «Il libro del quale viene richiesta collettivamente un’informazione non verrà mai acquistato».
Commento di Bodoni all’eccezione di Serifa: «Il libro del quale viene richiesta collettivamente un’informazione è esaurito e fuori commercio»
E si torna all’inizio. Un loop.

Legge di Courier sull’ultima copia:
«L’ultima copia (le ultime dieci o cento copie) di qualsiasi libro resterà/anno invenduta/e».

Ovvio, certo. Ma il difficile è capire quando fermarsi. Si tratta del trasferimento in ambito commerciale della legge di Murphy degli editori: «L’ultima ristampa rimarrà invenduta».
Qual è l’ultima ristampa?
Chi può dirlo?
Comunque è sempre vero che (legge di Albany):
«Il libro più richiesto al tempo t° è quello che è appena stato chiuso in una scatola per essere reso all’editore».
Corollario di Benguiat:
«Il libro richiesto sarà sempre nell’ultima scatola».
Commento di Nimrod al corollario di Benguiat:
«L’ultima scatola è tale indipendentemente dalla direzione e dalla posizione di tutte le altre»
Osservazione di Dolphin al commento di Nimrod:
«Il libro richiesto sarà sul fondo dell’ultima scatola».
Legge di Rockwell dell’infinita ripetizione:
«Se qualcuno vi chiede un altro libro della stessa resa lo farà soltanto quando avrete appena finito di richiudere tutte le scatole»
Paradosso di Garamond:«Il cliente del libro trovato in fondo all’ultima scatola ha dimenticato a casa il portafoglio».




E si può continuare senza problemi:

Legge di Bookman sulla ricomparsa dei libri:
«Il libro introvabile sarà trovato non appena il cliente è uscito dalla libreria».
Legge quadratica inversa di Arial sulla reperibilità dei libri:
«Più il cliente è suscettibile e importante meno è probabile che il libro richiesto venga trovato».
Ma è vero anche l’inverso (legge di Amaze):
«Il libro cercato dal cliente deluso da un’altra libreria sarà immediatamente disponibile presso la vostra».
Corollario di Gaze:
«Soltanto la prima volta».

Interessante notare che dato un numero «x» grande a piacere di librai tutti descriveranno gli stessi episodi e le stesse contrarietà, a conferma dell’intrinseca e pervicace perfidia della realtà.
Esiste infatti una triade di leggi – paragonabile a quella che governa la termodinamica – che chiunque faccia il mio lavoro sottoscriverà senza difficoltà:

Prima legge della librodinamica:
«La disponibilità in magazzino è inversamente proporzionale alla richiesta»

Seconda legge della librodinamica:
«Il rifornimento è sempre in ritardo»

Terza legge della librodinamica:
«La disponibilità è direttamente proporzionale all’obsolescenza»

Ovvero: più ne avete più vecchio sarà.
E qui si tocca un punto caratteristico delle librerie universitarie scientifiche come l'ex-CS.
Il libro di testo, infatti, non è tale per decreto divino, ma perché un soggetto (più o meno) qualificato – il docente – lo consiglia ai propri studenti. Il processo di scelta si chiama «adozione».
Ed è qui che la malevolenza del mondo trova la sua piena realizzazione.

Legge di Charlesworth:
«Dati N titoli possibili, il docente del corso più numeroso sceglierà il libro più difficilmente reperibile».
Ma, stanti le tre leggi della librodinamica, è evidente che se si realizza la legge di Charlesworth, a maggior ragione sarà valida la seconda legge della librodinamica.
Quindi: «Il rifornimento (del titolo a più difficile reperibilità) è sempre in ritardo».
Ne consegue che (corollario di Photoshop): «Il titolo universitario del corso più numeroso viene sempre fotocopiato».
Cosicché, dal momento che il titolo in ritardo resterà praticamente invenduto, rimarrà soddisfatta anche la terza legge della librodinamica. La fenomenologia è comprovata anche dal paradigma di Lydian: «Il titolo meno venduto non ha diritto di resa» e dal paradosso di Gill: «Le probabilità della conferma di un’adozione sono inversamente proporzionali alla giacenza del titolo nelle librerie».




Abbandono ora le fredde aule universitarie per ritornare al mondo dei lettori per puro gusto e piacere.
Avete notato, lettori, che il libro del quale è uscita la recensione più stimolante non è mai reperibile? Avrete pensato a un semplice disservizio, a un caso. Ebbene non è così. Si tratta di una regolarità sospetta che dovrebbe metterci sull’avviso e che può facilmente essere enunciata.

Legge di Kabel:
«La recensione più letta è sempre in anticipo sull’uscita del libro».
Quindi (corollario di Galant): «Un libro esce soltanto quando una recensione favorevole è stata dimenticata».
D’altro canto, in accordo con il paradosso di Typewriter: «Si riordinano soltanto i libri che nessuno cerca», è evidente che anche in questo caso si ritorna dritti dritti alla terza legge della librodinamica.
Senza pretendere di esaurire l’intera fenomenologia degli intoppi e incidenti che cospirano per impedire all’onesto lettore di incontrare l’agognato libro farò un ultimo esempio. La descrizione del libro.

Legge di Bremen sul colore delle copertine:
«Il colore che ricordate non è il colore dominante della copertina».
Estensione di Cataneo alla legge di Bremen:
«L’immagine di copertina che ricordate era un miraggio».
Legge di Chasm sulla parola chiave del titolo:
«La parola del titolo di cui siete assolutamente certi fa parte del titolo di un altro libro».
Corollario di Clarendon sul prezzo:
«Il prezzo che ricordate è sbagliato».
Paradosso di Bart:
«Se il colore, l’immagine, il titolo e il prezzo sono giusti il libro è appena terminato».

E via, a capofitto in balia delle famose tre leggi della librodinamica.
Insomma una situazione nella quale il lettore incontra il suo libro è molto meno usuale di quanto sembri. La realtà, probabilmente, è che possono avvenire quasi esclusivamente incontri fortuiti. Gli unici che un universo retto da leggi oscure e perverse può concedere.
Probabilmente per distrazione.
Potrei continuare a lungo enunciando ulteriori teoremi, leggi e ipotesi con i loro relativi corollari, paradossi, osservazioni e paradigmi ma credo che di aver già sufficientemente dimostrato la mia tesi.
A degna conclusione un’ultima legge, credo la più triste per un lettore appassionato come il sottoscritto e, credo, per chiunque stia leggendo questo articolo:

Teorema di Marigold:
«Il libro più bello che avete letto è divenuto irreperibile e non è più in commercio».
Ma non deprimetevi.
L’Osservazione di Albertus, infatti, si incarica di rimettere a posto le cose:
«Se lo ritroverete scoprirete che non era poi così bello».