31.8.12

La bolla


Un racconto relativamente recente, questa volta. Uscito nel 2007 nell'antologia Tutto il nero del Piemonte, edizioni Noubs, e pubblicato in compagnia, tra gli altri, di Danilo Arona, Fulvio Gatti, Elvezio Sciallis, Davide Mana, Silvia Treves e Alessandro Defilippi. 
Una storia nata da un breve momento di smarrimento nel parcheggio del Lingotto, molto prosaicamente mentre andavamo a fare la spesa. Buffo come possono nascere certe storie. L'antologia ebbe comunque una certa risonanza anche se, purtroppo, fu parzialmente danneggiata da un'impaginazione errata, con una «errata corrige» perlomeno sorprendente. D'altro canto chi non fa, non falla, anche nel campo degli editori.
Buona lettura.



Non era certo la prima volta, anzi. Era un vero e proprio rito, o qualcosa di simile.
Cadeva il giovedì sera, ore 20.00 circa.
Si sa come vanno queste cose: la spesa di casa tende a sintonizzarsi su un ben preciso giorno della settimana e, a parte qualche esigenza particolare o qualche articolo che va fuori sintonia finendo il martedì o il mercoledì, il novanta per cento di ciò che viene a mancare in un firgorifero italiano medio può essere rifornito con un'unica spedizione.
Era uno dei segreti della vita casalinga che, sposato da un lustro scarso, avevo appreso con la pratica.
Non mi dispiaceva e avevo preso l'abitudine di fare tutto da solo: parcheggio, spesa telecomandata con lista precompilata da spuntare e qualche piccola infrazione alla rigidità del mandato acquistando qualche prodotto fuori lista. Lavoravamo tutti e due e la casa era un regalo dei facoltosi suoceri, quindi non avevamo problemi a concederci qualche infrazione del budget previsto per la gestione casalinga.
Non era praticamente mai una spesa gravosa, la nostra. Non avendo figli e avendo spostato parecchio in là nel tempo il momento «giusto» per averne, era sufficiente mettere insieme qualcosa – in genere di precotto, precucinato e pronto-in-cinque-minuti – per una coppia di D.I.N.K. che comunque almeno una volta o due alla settimana andavano a cena fuori.
Proprio quella sera doveva esserci qualcosa di speciale. Forse l’esibizione di un comico di moda o, più probabilmente, la prima di qualche film lungamente atteso. O, magari, la concomitanza di due eventi immancabili. Il risultato era che anche il parcheggio sotterraneo riservato al supermercato era completamente pieno. Dopo una breve perlustrazione scesi al secondo piano interrato. Non mi piaceva guidare in quel labirinto di colonne, frecce, cartelli e rampe troppo strette. Avevo timore di toccare qualche gradino o qualche muretto che sfuggivano al campo dello specchietto, senza contare la possibilità che il piede scivolasse dalla frizione proprio durante una curva in discesa.
Non mi piacevano le luci al sodio del parcheggio sotterraneo che creavano ombre arancio incrociate, sovrapposte e sfuggenti che confondevano il profilo di marciapiedi e alteravano la percezione della profondità.
Al secondo piano interrato la situazione non era migliore. Auto ovunque, ordinatamente schierate in una lunga fila senza soluzione di continuità. Non c'erano posti, neppure lontano dagli ascensori. Vagai per un po’ finendo con il percorrere i corridoi seguendo una direzione opposta a quella indicata dalle frecce – gialle, naturalmente – dipinte per terra. Il fatto che vi fosse pochissima animazione e nessun carrello in giro confermava la mia ipotesi che a riempire il parcheggio del supermercato fossero in primo luogo ritardari degli ipotetici eventi, travasati lì da altri parcheggi completi.
Cominciai a chiedermi se avevo sbagliato parcheggio. Mi fermai in mezzo al corridoio principale per controllare. Il simbolo del supermercato, un rombo verde che inscriveva la sigla della catena scritta in caratteri bonariamente tondeggianti era affisso ben alto sulla mia testa, a conferma che mi trovavo nel parcheggio giusto.
Bestemmiai ad alta voce con il finestrino aperto: in giro non si vedeva anima viva.
Che fare?
Ebbi la tentazione di rinunciare. La sera successiva ci sarebbe stata meno calca. Ma la sera successiva sarebbe stato un venerdì. Ci saremmo incontrati con Gilda e Miki, come capitava spesso il venerdì o avremmo comunque avuto qualche impegno preliminare al week-end. Impossibile. E il sabato… nemmeno a parlarne. La spesa del sabato è per i coatti.

Potevo abbandonare la macchina in qualche angolo morto. L’avevo già visto fare. Non era particolarmente pericoloso. La mia spesa era in genere veloce, si sarebbe trattata di una mezz'ora, non di più.
Già… già… ma se un furgone…
Automaticamente mi guardai intorno. Una paio di furgoni c'erano. Sicuramente avrebbero scelto di andarsene nell’esatto momento nel quale avessi abbandonato la macchina per infilarmi nell'ascensore. E si sarebbero messi a suonare con la bovina ostinazione di tutti i conducenti di furgone, richiamando l'attenzione dei custodi. Forse mi sarebbero venuti a chiamare, o forse… L'idea di raggiungere «la depositeria» all'altro capo della città, con la spesa al traino, per riscattare l'auto sequestrata mi parve semplicemente agghiacciante.
Non me n'ero mai accorto ma il parcheggio continuava. Esisteva un terzo piano interrato. Le frecce riportavano un bel «– 3» verde. Riaccesi e scesi ancora.

Dovessi giurare di averlo visto davvero quel «–3», soprattutto nelle mie attuali condizioni, non potrei. Può darsi che mi sia sbagliato, forse illuso.
Certo, giunto a questo punto debbo pensare si sia trattato di un'allucinazione. Non posso davvero credere che qualcuno… O forse il terzo piano sotterraneo esiste davvero, così come il quarto e… solo che si tratta di qualcosa di normale, ordinario. Luci al sodio, sentore di benzina e di gas di scarico, umidità e silenzio.

Nulla, nemmeno un angolo libero.
Battei un pugno sul volante con stizza, ripetendo la stessa bestemmia pronunciata non più di cinque minuti prima.
Ma era possibile? Era ragionevole?
Le luci in questa parte del parcheggio erano differenti. Tubi al neon sporcati dagli scarichi racchiusi in reti di metallo grigie come ragnatele. Avevano qualcosa di vecchio, quasi decrepito. Nessun faretto acceso sotto insegne che ripetevano il logo del supermercato. Macchie sul pavimento e sui muri, invece, il lontano suono di gocce e angoli profondamente immersi nell’ombra. Un posto per nulla piacevole. «Pulizia e modernità», doveva essere o essere stato il motto di quel supermercato o forse di altri, non ricordo. «Fresh & Clean», come cantava Tom Waits. Beh, ero dalla parte opposta dello spettro, immerso nell'odore vago ma nauseante di gomma combusta e nafta.
Percorsi il primo corridoio.
Pazientemente, all'inizio, poi sempre più incredulo.
La fila di auto ordinatamente parcheggiate non sembrava aver fine: un’interminabile distesa di capotte rese uniformemente grigie dalla luce incerta e debole. Accelerai. Il pavimento del sotterraneo era cambiato. Il cemento aveva lasciato il posto a un pavimento scheggiato e tormentato. Pozzanghere, crepe, frammenti di mattonelle color sangue di bue: li sentivo sotto le ruote, ma non osavo fermarmi.
Il terzo livello era deserto, in apparenza. A chi appartenevano tutte quelle auto grige abbandonate ad arrugginire sotto una luce lattiginosa? Non traevo nessuna conclusione, né facevo ipotesi. Ero scivolato nell'assurdo e percorrevo per quel mondo meccanico e crepuscolare aggrappato al volante della mia auto, l’unica ancora viva in un minaccioso e grottesco cimitero di veicoli dimenticati, in attesa di un segno del ritorno della realtà.
Procedevo ormai a una velocità piuttosto sostenuta, scandita dalla frequenza con la quale il riflesso dei neon si accendeva sul mio parabrezza. Se qualcuno fosse improvvisamente apparso tra un’auto e l’altra non sarei riuscito a frenare né a evitarlo. Ma non sarebbe accaduto: quel livello non faceva parte – anche se forse soltanto provvisoriamente – del nostro mondo. Con la coda dell’occhio seguivo il moto invariabile delle colonne e delle auto intorno a me. Un'ipotesi, anche più assurda di quelle che si erano formate nella mia mente da quando mi trovavo in quel luogo, aveva preso ad accompagnarmi e, pur essendone terrorizzato, ne ero anche attratto, affascinato. Forse il mio percorso non era realmente rettilineo come mi appariva. Forse stavo percorrendo una curva tanto ampia da risultare impercettibile, un arco infinito che mi avrebbe condotto in un altro luogo e in un altro tempo.
Mi prese un’eccitazione delirante, una sensazione di potenza e sicurezza che mi indussero a dimenticare che mi trovavo a bordo di un veicolo sospinto da una quantità finita di energia e di carburante e che se pure il mio percorso potenziale fosse stato infinito non lo ero io né lo era la mia auto.
Con la mente offuscata, probabilmente ipnotizzata dal ritmo regolare delle luci, delle auto e delle colonne, mi sollevai a sedere meglio, lanciai uno sguardo di sfida al buio inerte che si raccoglieva oltre l'ultima fila di neon accesi e accelerai ancora. Per la prima volta tentai davvero di comprendere la natura di quel luogo e capire che tipo di auto fossero raccolte in quell'assurdo e impossibile santuario dell’autoveicolo.

Le colonne a sezione quadrata era le stesse che formavano l’ossatura della titanica fabbrica anni Trenta dove erano stati sistemati un supermercato, una lunga serie di negozi, diversi cinema, un frammento di università, mostre, rassegne, fiere e molte altre cose. Ma non erano poche le aree tuttora chiuse e inaccessibili. Per esempio non era ancora possibile raggiungere la seconda rampa a vite che conduceva dal piano terreno alla pista posta sul tetto. L’avevo vista di sfuggita una mattina mentre vagavo annoiato in attesa che Luisa avesse terminato il suo shopping in compagnia di un’amica. La seconda rampa era appena oltre una porta antifuoco colorata di rosso lasciata sbadatamente aperta.
Colonne, pavimento, muri non erano stati riverniciati e la rampa, speculare a quella illuminata che scendeva nel mezzo del centro commerciale, aveva un aspetto lurido e trascurato ed era parzialmente immersa nell’oscurità. Rimasi qualche secondo a osservarla mentre per la mente mi passavano strani pensieri, probabilmente assurdi quanto il luogo nel quale mi trovo. In quel momento non ne ricordavo nessuno, soltanto la sensazione di una vita minerale, paziente e dimenticata, che resisteva allo scorrere del tempo. Ricordo che mi allontanai dalla porta rossa con una sottile sensazione di colpevolezza, come avessi osato spiare qualcosa che non era più fatto per essere visto da occhi umani.
Qualcosa di familiare ma che, nello scorrere degli anni, aveva sviluppato una natura profonda e inafferrabile. Qualcosa che era diventato inconoscibile pur potendo essere senza difficoltà riconosciuto.
Le auto.
Modelli familiari, auto che avevano fino a una trentina di anni prima avevano circolato per le nostre strade. Auto con un nome semplice e concreto. Un numero a tre cifre o a quattro. Le riconobbi ma non provai la sensazione di tenue nostalgia un po’ insulsa associata ai troppo facili revival. Quelle auto – cupe, graffiate, incrostate – non erano i veicoli addomesticati e ben tenuti di qualche collezionista. Da loro veniva una sensazione di gelo, di impassibile e livida solitudine quasi palpabili. Mi sforzai di guardare oltre le prime file, di riconoscere altri modelli. Dovetti forzare lo sguardo, persino rallentare mentre sentivo il cuore perdere colpi. Se fino a quel momento avrei anche potuto credere di essere chissà come finito in un deposito di vecchie auto assurdamente dimenticato nel profondo del sottosuolo della città, le forme i profili delle auto più lontane dai corridoi del sotterraneo mi convinsero definitivamente di essere finito Altrove, un altrove dal quale probabilmente non sarei più riuscito a ritornare.
Il disegno di un’auto soggiace a poche norme, facilmente definibili. Una logica «interna» dovuta all'esistenza di un motore, di un albero motore e quattro ruote, un abitacolo, un bagagliaio. Una logica «esterna» dovuta alla necessità di attraversare l'aria senza compromettere la stabilità né consumare troppo carburante.
Quelle auto, schierate alle spalle dei modelli più familiari, sembravano sfuggire in parte o del tutto a quelle poche norme. Abitacoli inesistenti o sporgenti nei modi più grotteschi, motori assurdamente complicati che sporgevano dai cofani come viscere espulse dal ventre, incrostati di morchia e di polvere, auto senza finestrini né parabrezza, cieche come larve disseccate, veicoli asimmetrici, sghembi e assurdi, con il più incredibile assortimento di ruote che avessi mai visto. Mostri, incubi, scherzi di una Madre Natura meccanica che nessuno poteva aver montato, assemblato, verniciato. Un museo infinito di possibilità meccaniche mai immaginate e mai nate, una galleria di orrori che non erano riusciti a materializzarsi sui tecnigrafi di nessun ingegnere ma che erano presenti nel gioco, ombre senza la cui esistenza possibile, sommersa e oscura, il nostro mondo, il mondo «normale», quotidiano, fatto a nostra immagine, non avrebbe mai potuto esistere.

Tornai ad accelerare e finalmente cominciai a cercare qualche segno del mondo dal quale provenivo. Una possibile via d'uscita, un passaggio. Se era stato possibile raggiungere quell'inframondo di occasioni perdute doveva essere altrettanto possibile ripescare il numero che mi avrebbe riportato nell'universo delle possibilità avvenute.
Almeno, questo è ciò di cui mi illudo.
Altre rampe scendevano verso ulteriori gradi di improbabilità. Verso un livello 4, 5, forse all’infinito. Luci sorgevano improvvisamente da quei passaggi, scorrevano sulle colonne e sui soffitti, probabilmente fanali impazziti di auto sempre più lontane dalla norme che sorreggono il nostro universo. Nell’aria, fredda e secca, l'unico rumore era il battito del motore della mia auto. Mi ritornava moltiplicato e amplificato dalle pareti e dalle auto immobili.

Non saprei dire quanta strada ho percorso alla ricerca di un passaggio per il nostro mondo. Il contachilometri inspiegabilmente si è bloccato. Sono ore e ore che guido senza interrompermi e senza mai rallentare o fermarmi. Ho il terrore di quello che potrebbe accadere se il motore si spegnesse o se fossi costretto a uscire dall'abitacolo della mia auto.
Appena sopra di me – soltanto qualche metro – il mondo di luci, plastica, odore di patate fritte, popcorn, caffé che ci è familiare continua la sua danza, ciecamente ignaro dei miliardi di possibili passati che ha lasciato dietro di sé.
Guido, continuo a guidare scrutando nella poca luce alla ricerca di un cartello con la scritta «–2». Non sono ancora troppo stanco, posso ancora sperare.
Se sarò costretto a fermarmi…
Finché sarò un passeggero di questo mondo, finché resterò in movimento, chiuso nella mia bolla di realtà, sarò soltanto un incidente trascurabile e perfettamente reversibile, un caso tra miliardi.
Ma devo continuare, non posso smettere. Questo mondo non deve accorgersi della mia esistenza.
Non potrò fermarmi.
Non posso fermarmi. 



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28.8.12

Ma i soldi, da dove vengono?


Ecco questo è un problema che mi accompagna da tempo, in maniera più stringente e ravvicinata da un paio d'anni a questa parte. 
I soldi, quelli che girano, quelli degli "speculatori" che "lucrano sui cambi di valuta" e "distruggono l'economia di un paese", da dove arrivano? Di chi sono?
Si tratta dei fondi assicurativi americani, quelli dei lavoratori dipendenti statunitensi che li affidano a una finanziaria sperando di averne in cambio un giorno una pensione? Negli States, al di fuori del Social Security, molto simile all'INPS italiano, esistono numerose società finanziarie che, sul modello dell'INA e di altre società d'assicurazione italiane, raccolgono fondi per restituirli in diverse forme al momento della pensione. 
Che il loro interesse sia fondamentale è lapalissiano. Se tu, in quanto fondo assicurativo, ricevi 1000 dollari/mese da centomila quadri e dirigenti industriali - i soggetti più interessati a una forma di pensione integrativa - ti trovi a disporre mensilmente di un totale di 100 milioni di dollari da amministrare, cercando di farli rendere al meglio.
Che questo significhi, talvolta, investimenti in titoli derivati come i CDO, dei quali ho parlato qui, e che questi abbiano suscitato e favorito la crisi in atto è un dato di fatto. E, particolare decisamente interessante, la condotta di alcune banche d'investimento non ha cessato di creare squilibri e problemi, come talvolta viene riportato sui giornali, anche se soltanto nelle pagine economiche.
Che "dietro" la crisi ci siano le finanziarie, legate a banche e a società di investimento, è - nuovamente - un'ovvietà della quale, tuttavia, siamo in molti a essere all'oscuro.
Ma la crisi ha significato, da metà 2008 in poi, una necessità disperata di contanti per molte istituzioni finanziarie che, in mancanza, rischiavano la bancarotta. Ed è a questo punto che emergono, non del tutto imprevedibilmente, i fondi del crimine internazionale. 
Il crimine internazionale - le Triadi, la Yakuza, la mafia russa, la N'drangheta eccetera - dispone di centinaia di miliardi di dollari che provengono dalle proprie attività: commercio di droga, prostituzione, usura, contrabbando, e ha la necessità vitale di riciclare il proprio denaro. 
Che cosa vi suggerisce? Cosa ne fareste voi del denaro, se, in qualità di colletto bianco della mafia, doveste investirlo perché renda?
È questo il tema dell'articolo uscito su La Repubblica del 27 agosto, a firma di Roberto Saviano. La crisi economica, ci spiega Saviano, favorisce la criminalità internazionale, rendendo più facile e più redditizio il riciclaggio del "denaro sporco".  E che le banche e in generale le istituzioni finanziarie siano mooolto meno fiscali nei confronti di fondi di provenienza non troppo limpida è piuttosto evidente:

«Le banche negli Stati Uniti sono usate per accogliere grandi quantità di capitali illeciti occultati nei miliardi di dollari che vengono trasferiti tra banca e banca ogni giorno», ha dichiarato il capo della Sezione Riciclaggio del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, Jennifer Shasky Calvery, a febbraio 2012 durante una seduta al congresso sul crimine organizzato

Racconta Saviano nel suo articolo, lasciandoci nella convinzione che la «lotta contro la droga» o quella contro la prostituzione o l'usura siano semplici slogan da parte di governi incapaci o riluttanti a colpire seriamente il crimine internazionale.
Già da qualche tempo si è assodato come l'eventuale e discussa liberalizzazione delle droghe costituirebbe un gravissimo danno a carico del sistema economico americano che letteralmente "vive" del denaro che la criminalità reimpiega nell'economia ufficiale. Ma dalla seconda metà del 2008 si è fatto un passo avanti.

[nel 2008]  Alcune banche si salvarono solo grazie a questi soldi. Gran parte dei 352 miliardi di dollari provenienti dal narcotraffico sono stati assorbiti dal sistema economico legale, perfettamente riciclati. 

Riferisce Saviano, citando il lavoro di due economisti colombiani, Alejandro Gaviria e Daniel Mejiia dell'Università di Bogotà. 
Ciò che rende davvero allarmante l'articolo di Saviano - anche se, da un certo punto di vista, assolutamente logico -  è la constatazione della graduale scomparsa del confine tra capitale "legale" e capitale "criminale". 

Le mafie sono ormai organizzazioni internazionali, globalizzate, agiscono ovunque. Parlano diverse lingue, stringono alleanze con gruppi oltreoceano, lavorano in joint-venture e fanno investimenti come qualsiasi multinazionale legale: non si può rispondere a colossi multinazionali con provvedimenti locali.

Ritorna alla mente un passaggio di Stato e Rivoluzione di Lenin dove l'autore sosteneva la sostanziale affinità dei due "generi" di capitale. Lo sfruttamento - della prostituzione o della manodopera - produce nel primo caso un reddito da schiavismo e nel secondo puro plusvalore, economicamente definibile. Ma è comunque complicato provare a separare evangelicamente il grano dal loglio, come è ancor più complicato cercare di placare la fame di denaro di certi pescicani. abituati a una gestione perfettamente anfibia tra la legalità e illegalità. 
La realtà è che il capitale criminale pesa sul futuro di noi tutti, determina il nostro avvenire, riduce le possibilità di una vita giusta e dignitosa ai nostri figli. 
Non ho nessuna soluzione da proporre. 
Posso soltanto chiedervi, come il protagonista de L'Invasione degli Ultracorpi, di «scrutare il cielo», perché ora lo sappiamo, loro sono tra noi.  


P.S.: segnalo l'uscita su La Repubblica di oggi, 28/8, di un breve intervento di Moises Naim che riprende e amplia i temi affrontati da Saviano.

26.8.12

Un po' di musica, ma non troppo seriamente

Peter Hammill

Nel 1991 Peter Hammill, ex-voce solista dei Van der Graaf Generator, pubblicò, dopo un lavoro di composizione e arrangiamento iniziato nel 1973, The fall of House of Usher, ispirato al racconto di Edgar Allan Poe. Sua fu la voce del protagonista, Roderick Usher, mentre le altre voci furono di Sarah Jane Morris (il coro, ovvero la voce narrante e la Casa), Lene Lovich (Madeline Usher), Andy Bell (Montresor, un nome ricavato da un altro racconto di Poe, dal momento che al narratore Poe non aveva dato nome) ed Herbert Grönemeyer, l'erborista, personaggio inventato da Hammill e dal librettista, Chris Judge Smith, ex-membro dei VDGG.
Un'opera di un paio d'ore, inevitabilmente un po' musicalmente ineguale e che non fu mai messa in scena integralmente. In alcune occasioni Hammill ne eseguì alcuni brani nel corso di  esecuzioni dal vivo, ma l'unico modo per ascoltare l'opera per intero rimane il CD uscito in due edizioni, una prima nel 1991 ed una seconda, riveduta e ampliata nel 1999.
...
Io ne posseggo un'edizione, nascosta da qualche parte in casa. Dal momento che quando ho progettato questo post non sono riuscito a trovarlo, non so se si tratta dell'edizione del '91 o di quella del '99, anche se sospetto, a giudicare dalle copertine, che si tratti della prima. 
Non posso onestamente dire che sia uno dei miei dischi preferiti di PH. Hammill, infatti, è un interprete e un musicista profondamente personale, lunare e talvolta straordinario, dotato di una voce più unica che rara, ma anche un «disgraziato» affetto da una passione malsana per i temi più ovvi, retorici e magnieloquenti del classico ottocentesco. Ho acquistato almeno una dozzina dei suoi CD incisi da solista con esiti decisamente altalenanti, con tre o quattro dischi che ascolto con una certa frequenza e altri che giacciono dimenticati e impolverati in uno dei contenitori di CD di casa. 
The Fall of the House of Usher rientra ahimé in buona parte nella seconda delle categorie, quella del classico-in minore-un po' troppo reboante, ma ha comunque alcuni brani almeno notevoli e l'interpretazione offerta dalle due voci femminili, Sarah Jane Morris e Lene Lovich è decisamente notevole. 
Il brano che presento, il 16, She is dead, è un curioso tango, un po' "appesantito" dagli archi che, ancora una volta, litigano con la chitarra elettrica, ma egregiamente eseguito dalla Morris, da Hammill e da Bell. Buon ascolto a tutti.


24.8.12

Come si chiamava il tecnico di Frank Sinatra?


Di nuovo un intervento molto breve, anche se tra non molto ritornerò con un vero post. 
Si tratta (di nuovo) di Silvia Treves e del suo libro, anzi e-book, «Cielo clemente», del quale parlai qui soltanto pochi giorni fa. 
Il libro è disponibile e può essere scaricato gratuitamente da tutti gli interessati presso il suo blog, Esercizi di dubbio.
Per il momento il testo è disponibile soltanto nel formato .epub ma entro pochi giorni uscirà anche in .pdf.
Sul valore del testo non mi pronuncio. Il fatto che abbia vinto un premio nazionale dovrebbe garantire in proposito. Sulla qualità dell'e-book, viceversa, sono il responsabile e spero davvero che il tutto funzioni... Io comunque ce l'ho messa tutta, parola del tecnico di Frank Sinatra.   


22.8.12

Qui succede un po' poco...


Vero, verissimo. Ma è un po' difficile riguardare - ovvero rivedere, riscrivere, correggere, rileggere, eliminare, aggiungere - romanzi trascurati e non terminati e contemporaneamente tenere aggiornato il proprio blog. 
Quindi temo che per un po' qui continuerà a succedere un po' pochino. 
Ma posso, se non altro, segnalare l'uscita della seconda parte del post dedicato alla memoria e al ricordo sul blog di Silvia Treves, Esercizi di dubbio
Se affermo, ed è la pura verità, che il post merita una lettura appassionata e interessata rischio di passare per il solito pirlotto che raccomanda amici e parenti, se taccio e non dico nulla passo per un cretinetti che ha capito meno della metà del testo ma non vuole farlo notare. Il che potrebbe essere assolutamente vero.
Dubbio amletico. 
Beh, in ogni caso consiglio di fare un salto sul blog. 
Male non può farvi.  


18.8.12

Varie, eventuali e future


Tra tutti i momenti nei quali avrei potuto decidere di tornare a Torino ho probabilmente scelto il peggiore. 
Ci sono 35°  all'ombra e non saprei dire - o, meglio non mi azzardo a immaginare - quanti ce ne sono in pieno sole. 
Fa un caldo bastardo, quello che è sufficiente per sudare anche semplicemente picchiettando su una tastiera. D'altro canto avevamo promesso di ritornare a casa per dare qualche lezione di guida alla figlia e per ascoltare il suo latino in vista dell'esame. Quindi eccoci qui. Mia moglie a impartire lezioni di guida (io, nonostante la mia non più verde età, non so guidare) e io ad ascoltare Cesare e scoprendo così quanto si è arrugginito il mio latino. 
Il tutto a 35° o di più.
Oggi ho terminato di impagine in e-book il testo di mia moglie, Cielo clemente, con il quale partecipò e vinse il premio Omelas, edizione 2001. Un'ottantina di pagine alle quali ho dedicato un certo numero di ore. So di affermare un'ovvietà, ma sono stato contento di farlo, più che altro perché Cielo clemente è un tipo di romanzo breve di sf non particolarmente comune.  Quando, a suo tempo, mia moglie mi espose a grandi linee il suo progetto, ricordo che non potei evitare di esporle le mia non poche perplessità. Il fatto che alla base del testo vi fosse uno spunto schiettamente biochimico mi lasciava non poco perplesso. Lei, giustamente, decise di ignorare i miei dubbi e lo scrisse. Bene fece, visto l'esito, e io dal canto mio prometto di pubblicizzarlo come merita non appena comparirà l'annuncio sul suo blog, Esercizi di dubbio.  
Quanto a me, beh, non ho ancora deciso cosa farmene di questi anni che mi aspettano. Troppo giovane per poter puntare alla pensione, troppo vecchio per trovare un lavoro purchessia, oltretutto in un settore che va male e ancora peggio andrà in futuro. 
Non ho ancora terminato le operazioni di chiusura relative alla mia ex-libreria. La prossima settimana dovrò passare all'INPS per chiedere loro che cosa ne hanno fatto della o delle raccomandate che dovevano ancora spedirmi e se hanno proprio intenzione di farmi incontrare con i signori di Equitalia o se posso pagare ciò che devo senza massacrarmi. 
La chiusura della libreria mi ha lasciato - ovviamente - senza il becco di un quattrino e prevedo di dover ancora pagare qualche migliaia di euro al commercialista e all'INPS più varie ed eventuali. Se qualcuno, comunque, pensa che non ho fatto un buon affare a fare il libraio per tutti questi anni gli darò ragione. Ha ragione, perbacco. Ma, dal momento che la vita era la mia - ed è la mia - sto bene qui, dalla parte del torto. 
Ho ancora la casa editrice, anche se la situazione non è proprio eccellente. La regione Piemonte non ha infatti, pare, intenzione di rinnovare il suo contributo a favore degli editori piemontesi. Un contributo piuttosto misero, via, ma che era stato deciso dalla precedente giunta e che quindi non ha motivo per restare in piedi. Meglio, molto meglio impiegarlo per offrire una pizza al Movimento per la Vita o per oganizzare un corso di piemontese per immigrati con permesso. Tipo quelli che sopravvivono come possono dalle parti di Saluzzo.
Ho ancora le mie capacità - dubbie, temo, ma non si sa mai - di scrivere. E mi impegnerò a scrivere, a terminare, ad aggiustare, a pubblicare. Farò uscire qualche altro e-book e lo metterò in vendita. A prezzi più che onesti, ovviamente, del tipo 1,99, 2,99 o 3,99 euro. 
Idem farò con i titoli esauriti della CS_libri. 
Insomma, l'autunno - che visto da qui sembra un curioso sogno - mi troverà «attivo e propositivo» come si dice in questi casi. 
Ultima cosa. Qualche mattina fa ho pensato che se avessi - o trovassi, o riuscissi a procurarmi in qualche modo - un paio di centomila euro ricomincerei da capo, cioé riaprirei una libreria. Nonostante la mia non più verde età.
Devo avere qualche rotella fuori posto. O, informaticamente, qualche collegamento dissaldato.


14.8.12

Sul cocuzzolo della montagna


Dallo scorso mercoledì sono - anzi siamo, contando anche mia moglie - qui in montagna, intorno ai 1300 metri d'altezza. 
Non è la prima estate che passo quassù, anzi a essere sincero, dev'essere più o meno dal 1990 che vengo almeno una settimana o due qui a Montoso, frazione di Bagnolo Piemonte. Qui abbiamo condotto dal '93 in avanti la nostra unica figlia che, sorprendentemente, non appena ha avuto età, occasione e compagnia si è fiondata quassù a camminare tra le cave e i mirtilli, gli strapiombi e i lamponi. 
Non avrei accettato scommesse in proposito. 
Mia figlia ha avuto qualche difficoltà da bambina nel rapporto con gli altri villeggianti della sua età. 
Nulla di che: soltanto qualche antipatia a pelle, dileggi più o meno evidenti, mormorii e commenti malevoli qualche volta dichiarati ad alta voce. Il tutto perché Morgana non è battezzata - né per la verità intende esserlo - ha la mamma ebrea, non va a messa la domenica e non sa a memoria le preghiere. Anzi, che non la sa nemmeno un po'. 
A 8-9 anni non è il massimo della vita, ammettiamolo. 
Eppure la passione per la montagna è stata più forte anche dell'idiozia di grandi e piccini. Mia figlia viene sù con il suo attuale "fidanzato" (tipo, compagno, amico: fate voi) cammina, gira, raccoglie frutta di bosco, prepara eccellenti marmellate. Nei suoi vagabondaggi cerca di spiare uccelli e altri vertebrati e esce persino quando piove, cosa che in montagna accade, ovviamente, con una certa frequenza. 
La casetta di montagna, di proprietà dei nonni, è diventato negli ultimi anni, una sorta di allenamento per lei alla vita in comune, ossia a una vita more uxorio, come dicevano e probabilmente dicono e scrivono tuttora gli appuntati e i brigadieri.  
Noi genitori, essendo due senzadio, un'appartente al popolo degli assassini del Salvatore più il suo livido complice, due ex-comunisti - e sull'ex non sono poi troppo sicuro - due radical-chic, due libertari panteisti e blasfemi, due disgraziati, due sciagurati, due... fate voi, non ci preoccupiamo minimamente della morale comune, con questo attirandoci, giustamente, la disapprovazione di alcuni tra i vicini di casa che deprecano - ma beninteso senza mai accennarne - la vita da fidanzatini di Peynet dei due giovani quando vengono quassù. 
Siamo in provincia di Cuneo, per chi non fosse piemontese, ovvero nella piccola Vandea regionale. Una delle poche città dove l'UDC - l'UDC, santo Giobbe, - ha vinto le ultime lezioni locali.  
Non sottovaluto la disapprovazione, comunque, non abbiamo visto per nulla qualche decina di film ambientati nella Bible Belt americana. La semplice, stupida antipatia, se condivisa può evolvere in un odio inatteso e assurdo. Evitiamo, perlomeno, di menare vanto per come siamo e come la pensiamo, limitandoci a una certa riservatezza, in fondo normale per due torinesi.   
In ogni caso, in cuor nostro noi genitori - che saremmo tutto ciò che scrivevo prima e anche di più - ce ne freghiamo allegramente e salutiamo la popolazione temporanea del luogo. Dopo agosto saranno ben pochi quelli che verrann0 e il luogo ritornerà metaforicamente nostro. 
Quando verremo sù, nei brevi giorni autunnali, noi e la montagna potremo tranquillamente ricominciare a darci del tu. E mia figlia, che ha trovato una propria lingua per comunicare, potrà fare altrettanto.


9.8.12

Me lo sconta?


Non avrei voluto tornarci sopra, ma leggendo interventi, dichiarazioni, lamentele, proteste e rampogne non posso fare a meno di ritornare sul tema dello sconto sui libri. 
Sono un ex-libraio. 
Un ex-libraio cooperatore, quindi per così dire "nato" per fare lo sconto sui libri. Del 15%, 10%, 20%, anche del 25% su titoli invenduti o del 50% su titoli non più in commercio. 
Ho fatto lo sconto per 37 anni di lavoro e non penso che sia stato lo sconto quello che mi ha fatto chiudere, sinceramente. Ciò che mi ha fatto chiudere, a essere onesto, è stata la diminuzione dei lettori, falcidiati da una crisi che non è ancora finita, e la scomparsa reale dei lettori sotto i trent'anni. 
Lo sconto, tuttavia, non è un diritto. 
E non è un gentile omaggio del libraio ai migliori lettori. 
Nonostante la legge Levi - della quale sono in molti a lamentarsi - che ha reso lo sconto un "dovere" per il libraio, è bene chiarire che lo sconto in molti casi è un sacrificio. Sacrificio, nel senso che i costi dell'esercizio sono pesanti, soprattutto per una piccola libreria che non può contare su uno sconto ragguardevole da parte dei distributori e degli editori, come non può contare su termini di pagamento sufficientemente lunghi da poter offrire una varietà accettabile di novità e di titoli di magazzino. In sostanza, tutte le volte che vi viene praticato lo sconto - in una libreria indipendente, ovviamente - l'«impresa libreria» rinuncia a una quota del proprio margine lordo.  Mi rendo conto perfettamente che non pochi dei miei ex-colleghi non meritano molta considerazione: sono antipatici, boriosi, incompetenti e sgarbati, ma il dato di fatto della diminuzione del margine lordo è del tutto reale. Ed è un elemento importante. 
Preferisco parlare di margine lordo, invece che di "guadagno", come si faceva alle elementari, perché acquistando un libro a 7 euro e rivendendolo a 10 si incassano 3 euro soltanto se si lavora da soli, con un tavolino pieghevole come bancone, senza denunciare l'incasso, senza collaboratori, senza assicurazione, senza essere arrivati con l'automobile e andando via a piedi, con una valigia a rotelle come magazzino. Nella realtà le librerie costano, i libri immagazzinati costano, l'erario nazionale e locale pretendono una quota non piccola dell'incasso, il personale - giustamente - costa, l'assicurazione costa, i trasporti da per la libreria costano. E le vostre spese viaggiano comunque, che voi incassiate o meno. 
Sicché, quando un cliente vi chiede: «Me lo sconta, un pochino?» può capitare di vedersi passare davanti tutti costi dovuti al trovarsi lì a vender libri e la prima risposta che viene è: «No, non posso».
Ma non si può, ovviamente. La libreria di catena girato l'angolo fa il 15% di sconto su tutto o quasi e quindi si fa almeno il 10%, o decisamente il 15% e che non se ne parli più. Nel mio caso, poi, essendo un libraio cooperatore, lo sconto ai soci è parte del contratto sociale sottoscritto e quindi è intoccabile. 
Poi, una volta lontano dal bancone, seduto davanti al pc, con sotto mano le fatture, le raccomandate, le richieste, i solleciti vien voglia di inseguire l'ignaro cliente e chiedergli indietro i 2,35 euro di sconto praticatogli.
Ma no, no, così non si fa. 
Solo che i 2,35 euro di sconto non significano soltanto rinunciare a una parte dei margini, ma anche rinunciare ad aquistare un titolo. Moltiplicato per 30-40 clienti al giorno significa essere costretti a ridurre l'offerta, ovvero dover spiegare al 41° cliente perché in libreria ci sono pochi libri di poesia. 
Il che è peggio, siamo onesti.  
Ci si ingegnerà, naturalmente, si cercherà di tenere soltanto il meglio. Il meglio del meglio. Il meglio del meglio del meglio. Non avendo molto tempo, tuttavia, per farsi un'idea personale. E dovendosi fidare delle sparate degli editori. 
No, nemmeno così funziona. 
È ciò che si definisce un serpente-che-si-morde-la-coda. Ovvero una perfida spirale.
Dalla quale si esce aumentando i clienti - che però in tempi di crisi tendono a diminuire e a tirare sul prezzo  -  o diminuendo lo sconto. 
Che non si può fare.  
O chiedendo uno sconto sul 40%, come le librerie di catena, al distributore. 
Come no. 
O chiudendo.


I clienti giovani. Gli under-thirties, dove sono finiti? 
Bella domanda. 
Ne conosco un bel po', avendo una figlia sui vent'anni. Sono bravi giovani, alcuni con entusiasmi letterari considerevoli o con passioni narrative inestirpabili. Non sono né meglio né peggio di chi è stato giovane negli anni '70 e '80. Ma ignorano le librerie. Al massimo pensano che abbiano a che fare con i libri scolastici (orrore!) o universitari (orrore bis!) o che siano esercizi per i ricchi.
In ogni caso non entrano. Anche perché, ansiosi come sono di vedere novità telefoniche o informatiche e abituati all'esistenza dei Centri Commerciali, dove tirano pomeriggio o sera, si infilano molto più volentieri in un esercizio dove i libri occupano un angoletto, tra pc, telefoni, TV, DVD, DVX, lettori MP3 e quant'altro di elettronico vi venga in mente. 
Una libreria è un posto silenzioso, al massimo animato da un po' di jazz o di classica e i giovani vogliono luoghi propri, dove si ritrovano tra loro e possono leggere/ascoltare/assistere/vedere. 
Oppure, e qui di nuovo gli amici di mia figlia mi aiutano, battono le bancarelle, alla ricerca di libri da 2-3 euro. 
O si procurano i libri a mezzo internet o li scaricano sui loro e-reader. 
Quindi niente giovani. 
Nulla di strano, anch'io a 17-18 anni, non potendo scaricare nulla da internet, evitavo le librerie e battevo le bancarelle.  
...
Sono le librerie, temo, ad aver fatto il proprio tempo.
Faccio una fatica impressionante a dirlo e a crederci, ma temo sia la verità. 
E tutto sommato penso sia un'uscita decorosa per la cultura. Nelle librerie di catena i buoni libri soffrono, oppressi da una quantità prodigiosa di bidoni letterari. I grandi editori sono alla ricerca di fatturato, non di lettori, e puntano su libri facili, forzatamente banali, necessariamente ovvi. Libri che entro sei mesi saranno dimenticati per lasciar posto ad altri non-libri, altrettanto easy.  
Avete mai visto qualcuno davvero soddisfatto per aver letto un libro da classifica? Ecco, avete capito. 
I buoni libri con ogni probabilità si stanno nascondendo fuori dalle grandi editrici. Sono - ancora sporchi, disordinati, non corretti, enfatici, ridondanti - pubblicati da autori sconosciuti, pronti a diventare, domani o dopodomani i libri che leggeremo. Sui nostri e-reader o anche, banalmente, su carta, stampati dalla nostra laser.
Comunque, se vi capita di entrare in una libreria indipendente, non siate troppo ansiosi di chiedere lo sconto. Pensate che, molto probabilmente, chi vi sta davanti sta facendo i tripli salti mortali per mantenere uno stock accettabile e, particolare davvero unico, che ha qualcosa di personale. 
E fare qualcosa di personale, di questi tempi, non ha prezzo.


7.8.12

Nel dubbio prendere tempo


Mi è capitato di scrivere, su queste pagine, che un blog è una forma di diario. Un diario particolare, ovviamente, nel quale non si racconta ciò che ti è capitato andando all'ufficio postale o far la spesa né si confessano le proprie indicibili passioni sessuali, ma si cerca di costruire un'immagine di sé che possa tiepidamente interessare il prossimo, si butta giù qualche appunto sulla situazione personale e si tenta qualche riflessione sulla situazione generale, avendo ben presente che l'insieme delle proprie conoscenze, fatti salvi casi particolari, non supera quella di un giornale della sera buttato giù da un apprendista. 
Poi si riferisce, per i pochi a cui può vagamente interessare, sul procedere delle proprie passioni e si socializzano le proprie conoscenze, nel mio caso qualche rudimento sull'arte di scrivere e qualche conoscenza sul mercato librario. Un po' di musica, qualche riflessione improvvisa, qualche riferimento ai blog altrui. Niente recensioni di libri, per quelle esiste già il blog di LN-LibriNuovi out-of-print con il quale collaboro da tempo.
Dai blog altrui c'è sempre qualcosa da imparare. 
Dal blog di Nick, per esempio, che pubblica un buffo e malinconico articolo su U.F.O. - attacco alla Terra, o da quello di Davide, con un interessante articolo sull'arte di scrivere in coppia o, ancora, da quello della Leggivendola, autrice - a mio parere, ovviamente - di un post discutibile sul tema dei libri e della loro commercializzazione. La cosa divertente, in questi casi, è che a leggere e talvolta a commentare gli interventi altrui si "perde" una quantità prodigiosa di tempo, tanto da dimenticare, confondere o annullare il desiderio di scrivere sul proprio. In fondo, ci si trova a ragionare, non avevo nulla di davvero serio e importante da scrivere. Meglio, molto meglio passare oltre e rimandare. In fondo rischio di ripetere cose  che ho già detto, non aggiungere nulla di nuovo, fingere di presentare come novità anche cose già dette e ridette. Magari parlando di ciò che si scrive. 
Ma forse qualcosina di nuovo si può trovare...
...
Una cosa capitata qualche giorno fa, stimolato da una riflessione di mia moglie: «In fondo sei strano, tu, a scrivere. Più di una volta hai iniziato un romanzo, ne hai scritto un bel pezzo e poi ti sei fermato, passando a un altro progetto.».
«Ma, ma... non è vero. Fammi un esempiò!»
«Beh, c'è X. Poi Y, che ne hai scritto per un paio d'anni. Il tuo primo romanzo, che non ci hai mai rimesso le mani. E Z, che cosa succede in Z? La protagonista - me la ricordo benissimo - mi piaceva e tu l'hai lasciata in mezzo al vuoto.E poi...»
«Basta così, grazie. È che non avevo tempo...»
Non mi ha risposto e si è limitata a guardarmi. Uno sguardo molto espressivo. 
Ho terminato la cena un po' turbato. 
Non mi ero reso conto di quante cose non terminate avessi. 
E se è quasi impossibile «piazzare» i romanzi finiti si può facilmente immaginare l'utilità di abbozzi di romanzi non terminati, al massimo con uno scheletro di sviluppo abbozzato e mai scritto. In qualche caso perduto in fondo a un cassetto.
Posso consolarmi pensando che, in fondo, non devo restituire l'acconto per l'opera non terminata a nessuno. Ma una consolazione piuttosto magra, a pensarci. 
Ma perché ho interrotto la scrittura? 
Beh, perché nessuno mi pagava per terminarla. 
Ovvio, no? 
Scrivendo un romanzo capita sempre un punto nel quale si devono «tirare le somme». Un punto nel quale si interrompe la scrittura libera e felice e si deve cominciare a lavorare seriamente.  Rivedere, rileggere, appianare le contraddizioni, eliminare o esaltare un personaggio, tagliare un brano e/o aggiungerne un pezzetto. Eliminare i «rami morti» e far fiorire i semplici abbozzi. 
Un lavoraccio infame, nulla da dire. 
Ma chi ha detto che quello dello scrittore  è un lavoro facile facile? Eliminare dal romanzo un personaggio perché non quadra bene con gli altri... chi non si sentirebbe un volgare killer eliminandolo senza lasciare traccia? 
...
Ho almeno tre romanzi non terminati, per un totale di un migliaio di cartelle. Un romanzo scritto ma che ha disperatamente bisogno di una revisione particolarmente affilata. Un romanzo finito, ma che non mi soddisfa. Qualche altro abbozzo che mi interessa, magari mi affascina, ma che...
Una quantità impressionante di lavoro, indubbiamente. 
Che dovrei sobbarcarmi per una possibile pubblicazione.
Mah. 
Il problema è che alla possibile pubblicazione ho smesso di credere da parecchio tempo. 
Per  ciò che scrivo, per come lo scrivo e per chi dovrebbe teoricamente pubblicarlo. 
Se mai capiterà, se deciderò che i miei testi meritano una possibilità ne discuterò con me stesso e con il mio rabbioso, indomabile superIo ed eventualmente li pubblicherò. 
In piccole tirature, ovviamente. O in e-book.
E, fatalmente, ne parlerò qui. 
In quanto ai romanzi non terminati, beh, quando avrò un momento comincerò da Z. Quello con la protagonista in mezzo al vuoto.
Sempre se riuscirò a ritrovare le bozze... 



5.8.12

Giusto cinque minuti


Lo so, avevo promesso che fino a settembre non avrei più pubblicato un post musicale, ma proprio ieri ho recuperato un album per me prezioso e non sono riuscito a frenare la voglia di condividerlo con i miei quattro lettori.
Tranquilli, sono giusto cinque minuti
...
I Gorillaz sono stati un'idea decisamente curiosa di Damon Albarn, leader dei Blur, e del disegnatore Jamie Hewett. Il risultato del loro lavoro è stato un meta-gruppo hip-hop di cartoon che hanno sostituito la consueta immagine del gruppo, e che sono apparentemente in grado di produrre una musica più che notevole. Ascoltando i Gorillaz è difficile resistere al dubbio - un po' cretino, d'accordo, ma divertente - che la musica sia realmente nata dai crani virtuali dei quattro personaggi: 2D, Murdoc, Noodle e Russel. Il che, ovviamente, apre la strada a tutti i possibili riferimenti incrociati tra il reale e il virtuale, l'autore nascosto e l'autore apparente, il mondo dei media e quello quotidiano. 
Dopo tutti questi faticosi pensieri, e dopo aver rivolto un pensiero reverente a buon Albarn, rimane la musica, che non è per niente niente male.

4.8.12

Per una mezz'ora che merita


Post di segnalazione, quindi breve e carico di malcelata invidia. 
Invito caldamente chi si trovasse a passare da queste parti a visitare il blog «Esercizi di dubbio», dove Silvia Treves ha pubblicato un post interamente dedicato alla memoria: come funziona, com'è organizzata, come si perde, come si condiziona e come si "rivende" in forma di narrazione. Un post lunghetto, è vero, ma paurosamente  interessante, al quale ho contribuito, ma unicamente in forma di "regolatore", nel senso che ho letto e riletto il testo, sistemato piccoli errori di battitura, lamentato qualche eccesso neurobiochimico, suggerito qualche riferimento filmico e prestato al soggetto il libro citato, La sindrome di Rasputin. Tutto il resto, commento sul libro compreso, è farina del suo sacco. 
Leggerlo - e con una certa attenzione - è dannatamente utile e insieme maledettamente frustrante. Provare per credere. 
...
Se non l'avessi sposata, comunque, cercherei di conoscerla.