31.5.12

Perché hai znortato il gztstm del wysiwyg?



Sto provando a fare di un testo a suo tempo stampato, un e-book. 
«Facile», direte, «basta scaricare Calibre e passargli il testo e tatà, ecco pronto il vostro e-book».
Proprio così, infatti questo è stato il primo passo. 
Dopodiché ho provare a passare il testo su una libreria on line, LuLu.com. 
Per carità. Mancava soltanto una denuncia per maltrattamenti, ma il resto c'era. «Hai dimenticato wq / il tuo zgh è inadatto a zorglare il tzt / Non c'è corrispondenza tra il gruppo qwtzk e il la linea stwqk / Non riprovare mai più a sottoporci un simile pzpkzz». 
Bene, non lo faccio più. 
Ho cominciato a informarmi. 
Salta fuori un programma meraviglioso («anche se solo limitatamente wysiwyg» mi ammoniva un anonimo utilizzatore del programma), di nome «Sigil», assolutamente necessario per poter trattare i testi epub.
Mi pare  bello che un programma abbia persino un nome bergmaniano(1)  e mi affretto a scaricarlo. 
Ovviamente - o forse non tanto per uno come me - si tratta di un compilatore XHTML, proprio ciò che speravo di cuore di evitare.
Primi tentativi. Risultati indecenti. 
Nella Ragnarök della libreria ripesco un libro che sospetto mi possa servire, titolo: «HTML, XHTML e CCS». 
Comincio a capire che il modo pressochè delirante con il quale LuLu.com tratta gli e-book che gli vengono sottoposti prodotti da Calibre. Esiste persino una parola normale in italiano per definirla: «ridondante». Aprire un file trattato da Calibre e provare a capirne le regole è come tentare di trovare il locus attivo di un cromosoma balbuziente ripiegato nella quarta dimensione. 
Con tutto che i file trattati con Calibre sul mio e-reader vanno da dio... 
John Holbrook Vance


Una volta stabilita la sostanziale incompatibilità di carattere tra Calibre (che ha qualcosa di Vanceano(2), credo) e Sigil (il cavaliere vestito di nero che gioca a scacchi, ricordate?) ho cominciato a studiarmi il libro. Che è scritto in italiano, se non altro, ma organizzato in maniera non immediatamente (questo è ovviamente un eufemismo) comprensibile. 
Nel frattempo, convinto da un amico smanettone - che ha curato i due e-book che ho pubblicato - ho cominciato a lavorare sul testo scelto. Che poi sarebbe «Il perdono a dio», vincitore di un premio che mi ha fruttato la bellezza di 700 euro - di gran lunga il più grosso incasso procuratomi da tutto ciò che ho scritto. Preso il testo, passato in un formato diverso dal lotus wordpro nel quale era stato all'origine scritto - ovviamente non mi illudo che qualcuno tra i lettori conosca un programma del paleocene come quello - sono giunto infine ad avere il file «pulito», ovvero senza alcuna particolarità. Un file txt. 
Nulla, nulla, nulla di nulla... 
Sì, però le lettere accentate si usano, in italiano. Mentre un asso di picche sistemato al loro posto può creare delle difficoltà di lettura.
Telefonata, e-mail. 
Provo un altro programma. 
Alla fine trovo una soluzione ragionevole.  
E posso aprire Sigil. 
E qui comincia lo spasso. 
Sigil produce un «Brooot» ogni volta che dimentichi di chiudere qualsiasi cosa.
Il perdono a dio cambia almeno tre o forse quattro font, cambia giustificazione, ha rientri, salti, divisioni, corsivi... 
In preda alla disperazione decido che me ne frego e metto giù il testo così com'è, senza nessuna variazione. Tutto piatto, liscio, come un...
No, non si può. Come girare un corto a camera ferma.
Quindi in questo momento miracolosamente lasciato libero dai miei nemici creditori sono qui a far produrre «Broot» al pc. 
A constatare che il font non è cambiato. 
Che il font è cambiato in tutto il brano.
Che è saltata la giustificazione. 
Il rientro. 
«Brooot»
Un giorno o l'altro riuscirò a pubblicarlo, Il perdono a dio
Giuro. 

(1) Il settimo sigillo, ovviamente. Ma per alcuni poteva sembrare insultante inserirlo direttamente nel testo. 
(2) Alcuni tra i personaggi inventati dal leggendario Jack Vance avevano la caratteristica di chiacchierare a lungo senza apparente scopo. L'abilità di Vance consisteva non solo nel crearli ma anche nel dare una fredda e acuminata ragione anche ai loro sproloqui.


28.5.12

Un'idea scaduta ovvero storia di un nome

No, non è proprio la storia della libreria. 
La storia della libreria è innanzitutto la storia delle tante persone che l'hanno frequentata. Le tantissimi idee che l'hanno attraversata e resa vitale.
Per il momento non me la sento. Sono passati poco meno di due mesi dalla chiusura e non riesco ancora ad avere le idee abbastanza chiare in proposito.
Piuttosto ho deciso di affrontare, una alla volta, le riflessioni che via via appaiono, suscitate dalla chiusura e dalle osservazioni nate dalla sua storia. 
Questa volta mi dedicherò alla parte più ovvia del nome della mia vecchia libreria, la «c» di «cs», ovvero il suo essere una cooperativa.
...
  
Una cooperativa.
Un nome che, mi viene in mente in questo momento, è stato alla base della mitica «terza via» jugoslava, qualcosa che non fosse né impresa privata né impresa di stato. Un sogno con qualche fondamento, negli anni '60. Da ricordare quando capita, prima che il nome stesso di Jugoslavia vada perduto e di esso non rimanga in mente altro che le Foibe, Milosevic e poco più.
Un sogno che negli anni '70, quando la CS è nata, aveva ancora un senso. L'idea di fondare un'impresa con il numero di adesioni, piuttosto che con i numeri delle bancanote, sembrava possibile, verosimile, ragionevole.
E fortunatamente non era nemmeno un'idea così originale. Eravamo in molti, in tutta Italia, a covare lo stesso sogno. Negli anni '70 sono nate a decine e decine le coop universitarie, con nomi accomunati in genere da un «c» iniziale, seguita da un insieme di lettere più o meno eufoniche. Nomi come «Celid», «Clued», «Clup», «Cleup», «Clueb», nomi in parte ancora esistenti - anche se fatalmente cambiati -, in parte scomparsi senza lasciar memoria di sé.
All'inizio era comunque un'ottima idea. Con 5.000 lire, più o meno i 2 € e 50 eurocent attuali, si diveniva soci di una coop. Con tessera. La tessera dava diritto a sconti, convenzioni, facilitazioni ecc. Con la tessera in tasca si poteva leggere o studiare risparmiando più o meno un quinto del prezzo di copertina di un libro o fotocopiare a 50 lit. a fotocopia. 
Avere la tessera era un elemento di modesto vanto, «Io ho la tessera», si poteva dichiarare, «te lo prendo io quel libro» o «te la presto, se devi fotocopiare».
Per chi - come me - stava dall'altra parte, era snervante, ma anche in fondo divertente, trattare con editori o fornitori vari spendendo il nome di una coop piuttosto che un cognome più o meno famoso.  
All'epoca eravamo iscritti alla Lega delle Cooperative, filiazione più o meno diretta del P.C.I., e pagavamo una quota pari al 3 per mille del fatturato della cooperativa per le necessità di ordine statale-burocratico, come la gestione dei libri sociali.
E i rapporti tra le coop erano vivi e vitali.
Capitava di incontrarsi tra cooperatori universitari torinesi, milanesi, lombardi, veneti, napoletani, siciliani. Ed era divertente discutere in rapida successione di terrorismo come di condizioni di acquisto, di rapporti personali come di sconti compatibili con la sopravvivenza della coop. 
Mentre a Torino sfilavano i 40.000 stringevamo rapporti, costruivamo un consorzio, il Coneditor, che sarebbe durato, purtroppo, meno di un anno.
Alcune coop erano sane, altre non lo erano per nulla. Ma chiedere un bilancio «vero» non era affatto facile. E poi sapeva troppo poco di «compagno». Da deviazione economicista. Mi capitò comunque di dare un'occhiata ai bilanci delle coop, ma soltanto sotto mentite spoglie. Mio padre lo faceva di mestiere, l'analista di bilanci, e promettendo un suo parere ottenni le copie - non completamente fasulle - dei bilanci. 
Ovviamente non mostrai a mio padre i bilanci - mi avrebbe più o meno diseredato - e dovetti improvvisare una relazione molto seria e molto professionale, nella quale suggerii con alate parole di ridurre i magazzini e tagliare l'indebitamento con le banche. 
Grandioso. 
Nessuno immaginò che la relazione fosse stata in realtà scritta dal sottoscritto e mio padre, invitato a una successiva riunione del consorzio, approvò fortunatamente il suo apocrifo, allegramente citato dal presidente del consorzio.  
La realtà era che il consorzio otteneva condizioni di favore da editori, distributori, grossisti, ma alcune società erano diventate macchine mangiasoldi. Troppa fretta, probabilmente, di offrire un vero lavoro ai propri fondatori. E una concorrenza che non era poi così sprovveduta come poteva apparire. Senza contare che l'aver creato un meccanismo di sconto relativamente facile - presenti la tessera e hai diritto allo sconto - poteva essere imitato ad libitum.
Il Coneditor fallì miseramente, abbandonato dalle librerie più o meno in salute e divenuto una nave dei folli, rapidamente alla deriva. 
A  ripensarci adesso, una grande occasione perduta. Quando avremmo potuto diventare davvero un elemento importante del mercato commerciale librario in Italia, ci ritirammo ognuno nelle sue mura. Più o meno bravi nel vendere, ma incapaci di incidere sull'insieme del mercato. 
Intanto l'editoria italiana cambiava faccia. La Bompiani diventava un feudo della Rizzoli, l'Einaudi lasciava di fatto Torino, acquistata da Mondadori. Editori come Savelli chiudevano baracca, mentre Mazzotta si riciclava in forma di editore d'arte, ovvero a metà tra l'editore e il copista. Gli editori «puri» scomparivano, spesso sostituiti da chiunque avesse due soldi in tasca, solidi appetiti e scarsa conoscenza dei libri. Marxianamente parlando il settore editoriale, fino a quel momento possesso di gente come Paolo Boringhieri, Giulio Einaudi o Valentino Bompiani, diventava finalmente «moderno», ovvero si razionalizzava, si riorganizzava e diventava periferia di imperi ben più grandi e nati con ben altri obiettivi.
Le coop nel frattempo crescevano, imparavano e sopravvivevano, laddove riuscivano a farlo, e continuavano a offrire sconti ai soci. Sconti un po' meno folli, intendiamoci, i fornitori erano diventati meno pazienti, meno tolleranti. Il vento stava già cambiando, alla fine degli anni '80.
...
La prox settimana seguirà un'altra puntata. 
Giurin giuretto.

27.5.12

Da un museo



Ho conosciuto Aphex Twin nella galleria d'arte della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo qualche anno fa. 
L'ho conosciuto non personalmente, ovviamente, ma professionalmente, ascoltando un suo brano che faceva parte di un'installazione. Ho passato più o meno una mezz'ora nella stessa sala, ripromettendomi di procurarmi quanto prima altro materiale di quell'«assurdo» autore.
...
Aphex Twin (tr.: «gemelli», in ricordo del fratello Richard morto alla nascita e «Aphex», nome di una fabbrica di processori di segnale), pseudonimo di Richard David James, è un irlandese 42enne, musicista Techno - ambient, drum'n'bass, IDM, trance ecc. ecc.
Non è assolutamente adatto ad essere ascoltato scrivendo – per quanto ricordo almeno un paio di occasioni durante le quali riuscì a regalarmi visioni particolarmente potenti – ma può essere ascoltato in cuffia, ad alto volume, possibilmente da soli, anche per evitare imprevedibili episodi di violenza inattesa. Al termine è probabile l'apparizione di sintomi tipici di una neurosi paranoide, ma resistete. E sorridete.
Aphex Twin non è un artista, è una malattia.    




 


24.5.12

Breviter



Intervento veloce e brevissimo per presentare il mio intervento a RAI Radio 3. 
Potete, nel caso, ascoltarlo o riascoltarlo via facebok a questo indirizzo
...

23.5.12

Corteccia

Un racconto di una lunghezza non eccessiva che spero venga letto e gradito. Fa parte di una raccolta mai pubblicata, se non in un'unica copia per mia moglie. Faceva infatti parte di una serie di 7 o 8 racconti che le ho scritto tra l'inizio e la fine degli anni '90, accomunati dal particolare di essere tutti basati su una presenza in qualche modo soprannaturale. Si tratta di fantasmi, per dirlo alla vecchia maniera, di revenants, di ossessioni, di incubi, di pericolose fissazioni. 
In questo caso il revenant ha una forma davvero imprevista.  
...

É all'alba, la mia felicità.
Fatta dell'odore della terra, dell'umidità sospesa nell'aria, del silenzio miracoloso protetto dai vetri della serra. Sulla terra il gelo dell'inverno, qui il respiro tiepido del mio piccolo paradiso.

Ho ventotto anni, alto 1.84 cm. (ovvero poco più di sei piedi), peso 71 chilogrammi, celibe, occhi e capelli castani. Il rapporto peso/statura fa di me uno spilungone e di sicuro contribuisce largamente al mio celibato. Sono laureato in scienze biologiche con una tesi in paleobotanica sui licopodi.
Ben pochi sanno cosa sono i licopodi: si tratta di piante vissute tra i 300 e i 400 milioni di anni fa. Si riproducevano per spore sessuate e formavano gigantesche foreste nell'Australia del tardo Devoniano e primo Carbonifero. Il più noto tra loro – almeno per i paleobotanici – è il Lepidodendro, una pianta che poteva raggiungere i 40-45 metri di altezza, con foglie lunghe e sottili e coni per le spore che potevano raggiungere i 50 centimetri di lunghezza.
Scomparvero completamente già nel medio Carbonifero. Avevano la corteccia dal sottile disegno a rombi, come le scaglie di un serpente e una chioma larga, a ombrello.

Il mio principale problema, al momento, è questo: come posso nascondere il Lepidodendro che sta crescendo nella serra, nascosto tra un gingko biloba e un gruppo di cicadee?

Per arrivare al Parco della Preistoria dalla città ci vogliono trenta minuti, per girarlo tutto due ore, un po' di più se si vuole visitare il piccolo museo paleontologico annesso e la serra.
Nella serra lavoriamo in tre, uno a tempo pieno – io – e due part-time, Romolo e Augusto, i miei aiutanti, figli di un fattore che lavora nell'azienda agricola confinante.
Romolo e Augusto, progenie di un appassionato di storia romana, hanno rispettivamente 17 e 15 anni e sono iscritti all'istituto tecnico del paese più vicino. Sono due ragazzi simpatici, esperti e lavoratori. Hanno i gesti lenti e misurati di chi fin dalla nascita sa che la terra non ammette fretta. Non conoscono un solo termine botanico ma sono capaci di sradicare e riinterrare una pianta senza farle del male, apprezzano il valore della pulizia e dell'ordine in una serra e capiscono con una sola occhiata se ci sono problemi di parassiti, fertilizzante o acqua.

– Cos'è questa?
Mi ha chiesto Romolo sei mesi fa.
La piantina, di un verde pallido, poteva anche passare per un'infestante, ma aveva qualcosa di bizzarro e insieme di familiare, almeno per me.
– Lasciala lì, per il momento non dà disturbo.
Romolo si è stretto nelle spalle ed è andato ad aprire uno dei sacchi del nuovo fertilizzante arrivato dal Bangladesh.
Devo essergli sembrato strano già allora. Io che avevo sempre condotto una furiosa guerra contro le infestanti, io che ne lasciavo sopravvivere una. Inconcepibile. Effettivamente non riuscivo a spiegarmelo. L'unica cosa che potessi dire a mia discolpa era: non sembra una delle solite infestanti.

Ed è così. Dopo sei mesi di crescita posso dirlo con certezza. Si tratta di un Lepidodendro, un membro di spicco della Flora Gigante della Paleo-Australia, regione nordorientale di Gondwana.
Ovviamente è una pianta impossibile. Sono del tutto qualificato per affermarlo: si tratta di un inconcepibile fantasma. Al confronto i Sauri giganti di Jurassic Park sono bisnonni dimenticati in soffitta.
La mattina presto, quando Romolo e Augusto sono a scuola e i visitatori sono rari, passo interi minuti a rimirare il mio lepidodendro. Non avrei mai immaginato di poterne vedere uno vivo, non solo, addirittura in fase di crescita.
Non fa fiori, ma solo sporangi, maschili – piccoli e numerosi – e femminili, pochi e grandi.
La pianta dovrebbe raggiungere la maturità sessuale entro un paio d'anni, ma di questo calcolo non sono troppo certo. Ma già ora posso affermare, comunque, che nel Lepidodendro, contrariamente a quanto affermato finora, le foglie non sono rigide.
Ho disposto una piccola recinzione attorno alla pianta e vi ho inserito un cartiglio: Pseudoaelodaea Phianoxylon. Non significa assolutamente nulla, ma le -x, i -ph, le -y e i dittonghi -ae creano nei visitatori la sensazione di un lontanissimo passato attentamente investigato. E comunque chi viene qui lo fa per vedere il tirannosauro e ultimamente, dopo tutta la pubblicità che gli ha fatto Spielberg, anche il velociraptor, non certo le piante.

Ma lo scarso interesse per le piante ha finito per costituire un problema anche per noi, parlo di me e del Lepidodendro. L'altro giorno alle 15 in punto è arrivato il solo Augusto, senza l'inseparabile fratello.
– É malato Romolo?
– No.
– Allora doveva studiare o aveva da fare in azienda.
– No. Il signor Pezzali gli ha detto di non venire più.
– Come sarebbe?
Augusto ha fatto di sì con la testa. – Proprio così. «Non venire più. Mi costa solo la serra, a nessuno frega un c... delle piante.»
Ho sentito un brivido ma ho sorriso ugualmente.
– Se sapesse – il signor Pezzali – che cosa abbiamo qui direbbe meno scemenze.
– Perché cosa abbiamo?
Era il momento di rivelare il mio grande segreto. Almeno a lui, di lui mi fidavo. L'ho portato a vederla. – Vedi, questa pianta ha 350 milioni di anni.
– È piccola.
– È la sua specie, non lei, ad avere 350 milioni di anni.
– Cazzo. Posso fumare?
Non mi sembrava troppo impressionato. – Solo un paio eh? Una adesso e una quando vai via.
– Va bene.
Augusto si è acceso la sigaretta e mentre la fumava guardava in alto, il cielo sgombro di nuvole. Fuori dovevano esserci 2 o 3 gradi, dentro 25 di più. Trovavo preoccupante il suo scarso interesse, mi faceva sentire un imbecille, un fissato. Esattamente ciò che ho sempre sospettato di apparire.
– Non è bella, la pianta?
– Le piante sono piante. Frutta?
– No... non credo.
– Ah. Pezzali dice che costa troppo anche riscaldarla, la serra. Dice che se mettesse una piccola sala per il cinema sarebbero tanti soldi in più per lui.
– Capisco. Ma lui di questa – ho fatto un cenno verso il lepidodendro – Non sa niente. Meglio se per il momento tieni la cosa per te. Voglio dirglielo io.
Si è stretto nelle spalle. – Certo.

– Lo sa cosa le dico, professore? Non me ne frega più un c... delle sue piante. Ha ragione la Giusy, non posso buttare via tanti soldi nella serra. Guardi, volevo chiamarla e mi ha preceduto di poco. – Aprì un cassetto della scrivania. – Vede qui ci sono i volantini per la prossima primavera.

«Nuova sala cinematografica: I dinosauri al cinema.»

Era scritto di traverso in basso, giallo su rosso. La Giusy era la «sua bambina»: diciannove anni, coda di cavallo bionda, occhiali con lenti azzurrate e una profonda antipatia per il sottoscritto, cordialmente ricambiata.
– Nella serra sta crescendo un Lepidodendro. Una pianta estinta da centinaia di milioni di anni. Se lo scrive sui volantini verranno qui a migliaia.
Si mise a ridere. – Tutti cervelloni come lei, che fanno scappare il mio pubblico. Può anche portarsela via, se vuole. Io lunedì prossimo telefono all'impresa per i lavori. Per il suo posto non si preoccupi. Mi serve un custode, per la nuova sala.
Parlava tenendo il bocca il bastoncino trasparente della macchina distributrice per il caffè, posta nell'atrio degli uffici. Lo faceva da quando aveva smesso di fumare. Provai l'impulso di farglielo ingoiare ma poi sorrisi. – Come vuole capo. Mi dà qualche giorno per sbaraccare tutto?
– Come no. Se riesce anche a vendere qualcosa faccia pure. Si può tenere un tot per il disturbo naturalmente.
– Grazie.

Un'intera foresta, una gigantesca distesa di Lepidodendri. Fino all'orizzonte. Niente città, né mammiferi, né rettili, né uccelli. Niente umani. Il cielo rosso e solo piante, nient'altro che piante.

Sono morti in un incidente, papà e figlia. Sul fuoristrada che non avevano ancora finito di pagare. É stupefacente come la benzina, quando esce dal serbatoio, riesca ad arrivare ovunque. E la Giusy ha sempre fumato in macchina, anche se il padre non voleva. La mamma non c'era, poveretta. É morta da cinque anni, e così i suoi cari l'hanno finalmente raggiunta. Una famiglia finalmente riunita.
Il fratello di Pezzali è una brava persona. Si fida ciecamente di me: sono il dipendente con maggiore esperienza. Mi chiama con il soprannome che finora usava solo il personale di servizio: «Corteccia». Un soprannome che non mi dispiace affatto.

Ieri il lepidodendro ha raggiunto i due metri. Sto aspettando la maturazione dei primi coni. É molto probabile che nelle regioni equatoriali possa avere un notevole successo: non esistono parassiti per una pianta fantasma, morta più di trecento milioni di anni fa. Probabilmente finirà per soppiantare le specie più moderne, indebolite dall'antropizzazione e dall'effetto serra. Poi sarà la selezione naturale a fare il resto. Sono le piante a determinare il successo o la scomparsa delle specie animali, è stato così fin dall'inizio.
In ogni caso ieri nella serra ho trovato un piccolo Leptofleo, un parente prossimo del Lepidodendro.

«Il fenomeno dello scioglimento delle calotte polari ha assunto un ritmo allarmante» Spiega la TV.
– Non c'è nulla da preoccuparsi. Nel primo carbonifero le calotte polari semplicemente non esistevano. – Spiego ai visitatori.
– Ma l'uomo c'era? – Mi chiede qualcuno.
A quel punto sorrido. – No, non c'era ancora. E non è affatto detto che tra trecento milioni di anni ci sarà ancora. Nulla è eterno, sulla Terra.


22.5.12

Naturalmente, all'ultimo istante...


... cioé alle 18.00 di oggi mi ha telefonato la RAI per dirmi che il mio piccolo intervento - 7'30" alle 10.50 - non andrà in onda domani come annunciato, bensì giovedì...
Mi scuso con tutti, anche se il colpevole non sono evidentemente io. 
Ricapitolando, la nuova collocazione del programma «Il chiodo fisso» con intervista-confessione del sottoscritto NON andrà in onda domani (mercoledì) alle 10.50 bensì:

Giovedì 24 Maggio
h. 10.50
RAI RadioTre

Non credo che abbiate rinunciato al lavoro o fatto qualche truschino assurdo per riuscire ad ascoltare il programma. Se è così, abbiate pazienza. Ogni bene a voi e ogni riprovazione a mamma RAI.



20.5.12

All'ultimo minuto


Sono appena tornato dalla montagna e ho dovuto lavorare al nuovo post per LN-LibriNuovi out-of-print. Un ottimo articolo di Nick che presento volentieri. Ma il risultato è che è tardi e che non ho ancora pubblicato il mio pezzo musicale della settimana.
...
Steve Reich è uno dei compositori contemporanei che preferisco. Lo ascolto in pratica sempre, quando leggo, quando scrivo, quando faccio lo pulizie di casa. Persino quando lavoravo. Questo pezzo è il primo movimento di «Variations for Winds, Strings and Keyboard», un semplice assaggio di 2'17". Il brano complessivo è di 23'43" e sinceramente lo consiglio a tutti gli amanti della musica.



19.5.12

Dopo la fiera

Foto rubata a mia figlia che mi immortala in un momento di calma

Sono stato assente più di quanto pensassi. Ma finita la collaborazione con la Carocci sono stato ingoiato da una serie interminabile di grane grandi e piccole legate alla chiusura della libreria.
La preparazione e la presentazione del bilancio 2011, i calcoli e le valutazioni per il bilancio 2012, i conti del dovuto allo stato italiano, le compensazioni, i calcoli dell'IVA, dell'IRAP, gli arretrati, gli anticipi, i dovuti e i rientri, il magazzino, la svalutazione, la liquidazione, i prestiti dai soci... Insomma, un'immersione totale in una realtà che non desideravo più che tanto ricordare. 
Così sono arrivato a oggi con il primo momento decente per iniziare a scrivere due righe sul salone. 
...
Il Salone. 
Mah. 

Difficile dare un giudizio d'insieme, tanto più tenendo conto della quantità di editori presenti. E ancor di più tenendo conto dello scarso tempo avuto a disposizione per farmi un'idea. Il mio impegno per Carocci, infatti, mi ha lasciato pochissimo tempo. Una mezz'ora per mangiare e qualche frammento di tempo ogni tanto per farmi un giretto. 
Ancora il sottoscritto, in un momento di tragica coscienza della realtà

Non che non sia riuscito a procurarmi qualche libro. Anzi. Ma ho avuto non poche difficoltà a farmi un'idea generale del Salone. Ho finito per frequentare con alllarmante frequenza alcuni stand - Codice, Iperborea, Einaudi, Laterza, Adelphi, Fanucci, Alga - trascurando o limitandomi a una rapida occhiata agli altri. Il risultato ce l'ho qui davanti nella forma di una dozzina di libri - 3 di Codice, 2 di Iperborea, 1 di Laterza, 2 di Einaudi, 1 di Fanucci oltre a (naturalmente) cinque o sei di Carocci. Niente di Adelphi, purtroppo, e una sensazione di arcana tristezza nel suo stand, poco fornito di novità e in compenso farcito di personale che se la tirava disperatamente, anche senza più avere un motivo preciso per farlo. Molto austro-ungarico, a pensarci bene.
Ma ancora prima degli editori penso possa essere utile riflettere un attimo sui frequentatori del Salone. Giovani, innanzitutto. Una quantità sinceramente stupefacente. E non parlo solo di classi portate a guinzaglio da un insegnante volenteroso o di gitanti allo svacco, ma di giovani che giravano, leggevano, guardavano. Ne sono passati a dozzine e dozzine anche nello stand Carocci, con tutto che Carocci è il tipo di editore con un catalogo di purissima saggistica, capace di mettere in fuga disperata bimbiminkia e vampirodipendenti. 

Morgana e Caterina intente a dare una mano nello stand. 
I giovani sono stati il vero fatto nuovo di questo Salone, al di là delle miriadi di habituè più o meno affezionati che hanno l'abitudine di battere il Salone raccattando cataloghi e uscendo con una quintalata di carta che il giorno dopo verrà dimenticata. 
Oltre ai giovani direi che non c'è molto altro da segnalare. Per il resto, le solite madame ogni anno un po' più stanche e dall'espressione grave e intensa - a tratti un po' stolida, i soliti menneggèr con l'espressione tesa e il telefonino ribollente in mano. Normale umanità alla quale sono ormai abituato. 
Ho ricevuto qualche visita, spesso sacrificata dall'urgenza dei miei compiti, e tra l'altro ho scoperto che alcuni dei frequentatori di questo blog esistono davvero in carne e ossa. Come l'ottimo Salomon Xeno, giunto da Milano, che racconta qui la sua personale avventura.  
Mi sono purtroppo perso praticamente tutti gli incontri con gli autori e, naturalmente, tutti gli incontri tra i professionisti del settore. Una punta di rimpianto è d'obbligo in questi casi, ma d'altro canto io non sono più un professionista del settore. Al massimo un battitore libero. Condizione interessante, comunque, che sto iniziando a testare.
Mi sono tra l'altro perso la salva di fischi e disapprovazioni felicemente tributate al grande Marchionne nel corso dell'incontro con Gramellini. Peccato davvero, avrei allegramente contribuito a spernacchiare uno dei principali corresponsabili della situazione a Torino. 

Consolata Lanza, Morgana, alcuni Carocciani assortiti e una vista d'insieme dello stand

Ovviamente la produzione editoriale non mi è sembrata granché cambiata negli ultimi due mesi. Osservazione ovvia, si dirà, ma che merita sottolineare. Gli stand Mondadoriani, Rizzoliani, di Giunti, e del gruppo Prolibro (Longanesi ecc.) mi sono parsi inquietanti e alieni, impavesati da anonimi, giganteschi faccioni e da slogan minacciosi. Commento poco gentile - ma in fondo adesso non sono più un libraio - e che sicuramente trascura qualcosa che merita possedere e leggere. Ma anche le produzioni migliori dei grandi gruppi editoriali finiscono per essere semplici foglie di fico a un'insieme di libri che si candidano unicamente a compiacere un pubblico frettoloso e distratto, immemore e banale, esattamente come frettoloso, distratto, immemore e banale è la stragrande maggioranza della loro produzione. 
Un salone duplice e ambiguo, come duplice e ambigua è la produzione editoriale contemporanea. Dove esiste e resiste ancora qualche editore, in genere piccolo o medio, costretto alla concorrenza con una mezza dozzina di feroci e anonime holding. 
Qui il sottoscritto - serio, come si desume dalla giacca - che osserva un libro con Silvia Treves
La sistemazione dei piccolissimi editori è stata, come capita spesso, più o meno casuale. Il mio amico Alessandro di Alga è stato terremotato in un angolo più o meno disperante, oppresso dall'ombra di un anonimo gigante. Impressionante come anche al Salone, oltre che nei libri di Stephen King, esistano zone morte.
Soltanto una piccolissima nota in chiusura. La mia visita a Fanucci è stata dovuta alla presenza di 30-libri-30 di P.K.Dick a 6,90 euro cad. Personalmente credo di aver letto praticamente tutta la produzione Dickiana, ma mia figlia ha ereditato la medesima passione, sicché nello stand Fanucci ho recuperato il più che considerevole Follia per sette clan  da regalare alla fanciulla. A parte Dick, lo stand Fanucci è stata una delusione. Ristampe, ristampe, ristampe oltre a badilate di libri per bimbiminkia vampirizzati e vampirizzanti... 
Mi fermo qui, che è meglio. 


Morgana che non legge Dick, ma «soltanto» Boccaccio. Per un esame.














































13.5.12

Eric Satie


Post davvero lampo oggi, sommerso letteralmente dai lettori allo stand. 
...
Eric Satie è una specie di costante nei miei ascolti. Ogni tanto, quando mi sento insieme triste e sommessamente felice Satie mi sembra la musica giusta da ascoltare. 
Un musicista quantomeno curioso e stranamente attuale anche a un secolo e passa di distanza. Gymnopedie è formata da tre brani. Questo è il primo. 



11.5.12

In mezzo alla tempesta


Un'impressione assolutamente superficiale ma impossibile da ignorare. Sono nello Stand dell'editore Carocci in questo momento letteralmente assediato dai lettori e con una coda - tutto sommato inverosimile - di uomini e donne ciascuno con il proprio o i propri libri da pagare. 
Una situazione perfettamente positiva, si direbbe. 
Beh, sì e no. 
Sì perché constatare tanto interesse verso la saggistica, i classici, la letteratura medievale, i titoli universitari - l'editore infatti non pubblica narrativa - è sicuramente incoraggiante anche per un purissimo mercenario come il sottoscritto. Come lo è constatare che esiste una forte curiosità, che si concretizza in domande, richieste e proposte rivolte più o meno a chiunque nello stand ostenti un pass con la dicitura «espositore», per una saggistica non alla moda, non legata a fenomeni di costume, non promossa da qualche social network ecc ecc 
Il problema vero che la situazione sottointende è che tutti i lettori che si presentano qui hanno evidentemente rinunciato a cercare i libri dell'editore presso le proprie librerie, esattamente come hanno rinunciato a chiedere informazioni e chiarimenti al più vicino libraio.
Certo, la varietà dei titoli presenti qui al salone - più o meno 3000 titoli solo per l'editore Carocci - non ha nemmeno lontanamente paragone con i 100 - 200 titoli al massimo presenti in una libreria anche medio-grande o fortemente specializzata, ma resta il fatto che di tutti i titoli non presenti in libreria rischia di non restare letteralmente memoria, né nel libraio né tra i lettori. 
I librai, in quanto categoria di morituri, non possono più tenere i libri perché i lettori ne conoscano la nascita e la disponibilità, semplicemente perché sobbarcarsi un saggio di problematica vendibilità è diventato proibitivo, mentre le librerie di catena ignorano volutamente i libri con un indice di rotazione troppo basso. 
Quindi, in definitiva, esistono molti titoli che hanno un possibile lettore - ne ho visti centinaia tra stamattina e oggi pomeriggio - ma che non trovano più posto in libreria.
Normale, quindi, che tali lettori si rovescino come un sol uomo sullo stand dell'editore alla ricerca del titolo che si sa che esiste ma non si sa dove trovare.   
Quando basta per riflettere anche su un apparente successo. 

9.5.12

Attenzione! Va in onda il messaggio radiofonico...


Sono letteralmente a pezzetti, 
Tra ieri e oggi abbiamo tirato fuori da n(n) scatole circa 14.000 volumi per arredare lo stand. 
Abbiamo avuto piccole e grandi grane e libri che non smettevano mai di saltar fuori anche quando eri convinto fossero finiti... 
In sei che eravamo fanno comunque più di 2.000 libri a testa. 
Brrrr.
Quindi sarò brevissimo. 
La trasmissione radiofonica dove presento in brevissimo vita, storia, miracoli e triste fine della CS andrà in onda: 

MERCOLEDI' 23 MAGGIO
Ore 10.50 -> 11.00
presso Radio RAI 3

Non perdetevela. 
In fondo è molto breve - 7'30", anche se in originale era lunga 23'30" - ed è (spero) almeno interessante. 
Commenti, note e riflessioni dopo la fine del Salone del Libro. 




7.5.12

Guadagnarsi il pane


Cari tutti, da domani mattina scomparirò o quasi dall'elenco dei blogger (poco) attivi. Non per mia pervicace e odiosa volontà ma soltanto perché impegnato a tempo pieno allo stand del Salone (o Fiera) del libro per conto dell'editore Carocci. 
Il team della Carocci è formato da simpatiche persone, generalmente giovani e simpatiche e lavorare con loro non è stato affatto male. Quindi quest'anno replico. 
Replico anche per un banalissimo motivo di quibus. La chiusura della libreria - più qualche altro accidente giunto nel frattempo - mi ha lasciato a terra non poco. Quindi è bene guadagnare qualcosa, anche se nulla di esorbitante o  di miracoloso.  
Se qualcuno si trova a passare nel Salone in questo periodo può trovarmi allo stand dell'editore per tutta la durata del medesimo. Non posso allontanarmi - anche se ho evitato la classica palla di ferro al piede - e quindi niente caffé insieme, ma sarà piacevole salutarvi, sia pure in mezzo al casino disumano del salone.
Se riuscirò a scrivere qualcosina qui, comunque, saranno poche note e/o qualche foto. Non penso che sarà un Salone particolarmente ricco, la crisi pesta maligna sul mercato librario, ma avrò comunque il mio da fare. 

6.5.12

Marajà


Se finora non ho ancora inserito un artista italiano in questo spazio musicale domenicale non è per affermare qualcosa di terribilmente definitivo tipo: «odio la musica e i musicisti italiani», ma semplicemente perché sono pochi i musicisti italiani del XX secolo che mi hanno incuriosito, interessato o appassionato.
Ma calma, si tratta di una percentuale bassa su un totale comunque molto elevato, essendo io di nazionalità italiana...  come dire che comunque si tratta di decine e decine di artisti. La differenza nasce semplicemente dalla frequenza con la quale veniamo a contatto con brani di autore straniero rispetto alla frequenza dei brani in italiano. Ascoltando una radio di medie dimensioni, che trasmetta «motivi attuali», come si diceva una volta, la frequenza e la varietà degli artisti italiani è comunque necessariamente superiore. E tra questi, detto per inciso, prevarranno fatalmente i cantautori, categoria spesso musicalmente povera anche se - ma non sempre - testualmente pregevole.
...
Come tutti da giovane ho eseguito brani di Battisti, De Gregori, Baglioni, Dalla ecc. ecc. Ovvio, dal momento che tutti i chitarristi, anche quelli poco dotati, sono in grado di eseguire «Le bionde trecce» o «Questo piccolo grande ammore».  Tanto da averne letteralmente le tasche strapiene e senza che l'ennesima esecuzione dei loro brani riesca a risvegliare in me la nostalgia un po' ovvia della gioventù perduta o altre simili sciocchezze. Ho invece una curiosità tuttora non sazia per i musicisti capaci di coniugare la musica con la rappresentazione teatrale, come Caparezza, tanto per non far nomi, o capaci di frequentare musiche non ovvie, sul modello di Branduardi, o capaci di condurre il binomio musica-parole a livelli inattesi e sorprendenti, sul modello di Daniele Silvestri o di Giovanni Lido Ferretti. 
Una particolare simpatia va poi agli uomini-orchestra come Vinicio Capossela, capace non soltanto di comporre ma anche di interpretare, condurre, arrangiare e ripescare motivi e forme di recitazione che la musica italiana contemporanea ha trascurato. E creando il clima di un sottile steampunk da inizio '900 che noi italiani per primi abbiamo dimenticato.
Se a questo si aggiunge il gusto della metafora dagli ovvi significati politici, direi che non c'è bisogno d'altro per divertirsi. 
Il brano che presento qui, Maraja, è tratto dall'album Canzoni a manovella, del 2000. 
Buon divertimento a tutti.


 

4.5.12

I tempi della scrittura



Non avevo voglia di commentare direttamente sul blog
Ma l'idea mi ha colpito, è innegabile.
Si può scrivere un romanzo, sia pure breve, in soli sei giorni? Beh, per potere evidentemente si può. Davide lo spiega meravigliosamente nel primo dei suoi quattro post, quando incolonna i punti necessari: «Struttura / outline di massima ecc.». Ovviamente è meglio se la famiglia aiuta tenendosi sullo sfondo o se si trova decisamente altrove. E se non ci sono impegni di lavoro a breve termine in vista.
I motivi per tentare un'impresa del genere possono essere tanti ma tutti legati a una sola esigenza: dimostrare che scrivere non è un esercizio per soli genii o apprendisti tali e che l'ispirazione non è qualcosa che si possa rivendicare senza metterla all'opera. 
Sacrosanto e indiscutibile. 
Personalmente mi è mai capitato di impormi un tale tour de force? 
Non mi pare. Ricordo di aver composto il romanzo breve per mia figlia, titolo «Coralinda» in tre o quattro mesi. Con una scadenza fissa settimanale, come un Balzac fuori tempo massimo. Ma si trattava di un caso davvero particolare, dal momento che il lettore destinatario dell'opera era costantemente presente e maledettamente insistente. Ma al di fuori di quel caso non ci ho mai messo meno di 6 mesi-1 anno. 
Mi sono sempre sforzato di produrre qualcosa di simile a un prodotto finito, con poche riletture e correzioni ex-post. Probabilmente per purissima pigrizia, detesto cancellare più di una riga o due. Se riuscivo a scrivere un capitolo breve o anche soltanto un paio di pagine dopo 3-4 ore di lavoro avevo la sensazione di non aver sprecato il mio tempo. 
Adesso, poi, la mia produzione è ulteriormente rallentata. Scrivo al massimo una pagina per ogni sessione. E, in genere, all'inizio della sessione successiva ricorreggo la prima stesura della stessa pagina, e ritorno indietro, al testo teoricamente già terminato, per modificarlo, rivederlo, ripensarlo. 
Un modo di procedere - o di non procedere - che non mi soddisfa particolarmente ma che non mi sembra possibile cambiare. 
È un problema di età, certo. Magari anche di quel minimo di insicurezza creatami dall'ictus del 2008, che mi ha lasciato qualche traccia non del tutto trascurabile. Ma soprattutto sospetto si tratti di una crescente coscienza della difficoltà di scrivere. 
Lo so, lo so. Esiste il rischio di giungere a metterci una stagione - a parità di tempo impiegato - per scrivere una singola frase. Magari bellissima, ma soltanto una. 
Ma forse può essere la sensazione dell'assenza di qualcosa di davvero nuovo da scrivere. 
O semplice stanchezza. 
O la mancanza di commesse decenti da parte di editori degni di questo nome. Che nel settore sf, peraltro, neppure esistono. 
Può essere il dubbio che la space opera - ciò che sto scrivendo in questo momento - sia morta e che a nessuno interessi leggerla. E che dedicare tanta fatica a raccontare di curiose creature - peraltro inesistenti - sia uno sgobbo degno di un vecchio babbione come il sottoscritto. 
Fatto sta che in sei-giorni-sei riuscirei a scrivere più o meno una paginetta, cioè 400 parole per 2500 caratteri.


...
Già, ma che cosa intendevo con «crescente coscienza della difficoltà di scrivere»?
Beh, per molto tempo ho avuto la sensazione che il mondo esistesse per essere raccontato da qualcuno. Nella fattispecie dal sottoscritto. 
Ho giocato con questo pensiero, creato parodie di diverse scritture, improvvisato storie incredibili per pubblici del tutto inventati. Ho scritto racconti e romanzi, ma anche recensioni, pamphlet, elzeviri, note e riflessioni. Ho sicuramente raccontato un angolino di mondo, ma con la faticosa e costante sensazione che il mondo, man mano che veniva raccontato, si allargasse, scivolasse via, più grande e più complesso del mio povero incantesimo. Tanto da divenire inconoscibile, da moltiplicare la sua immagine in milioni e milioni di frammenti impossibili da ricomporre. 
Accanto a ciò che scrivevo cresceva un gigantesco romanzo fantasma che conteneva tutte le parole che non utilizzavo, le situazioni impreviste, i dialoghi mancanti, i caratteri assenti, gli episodi dimenticati. 
Ciò che è cresciuto, in realtà, è il non-romanzo. Il non-testo che non scriverò. Ciò che mi accompagna adesso ogni volta che inizio a scrivere. 
...
A scrivere on line siamo in diversi. E tenere aggiornato e interessante il proprio blog è già un lavoro non leggero. Tanto è vero che io non ci riesco. E, per la verità, non ci provo nemmeno. Ma scrivere narrativa, scrivere narrativa... no, quella è proprio un'altra cosa. È l'Alfa e l'Omega del nostro scribacchiare, l'ultima Thule del nostro impegno. Essere letti e apprezzati per il nostro scrivere. Non solo complimentati o sostenuti, ma approdare, sia pure su una spiaggia solitaria, nei territori dell'arte. 
Parola maledetta che non è facile comporre sulla tastiera. 
Ma anche scribacchiare un romanzo veloce, senza troppe pretese, è comunque corteggiare l'Arte. Magari fingendo scarso interesse, un virile disprezzo per tutti qui tizi ben azzimati per farfugliano rotonde scemenze sull'essere artisti... No, nulla del genere. Noi si sta in penombra, appoggiati al pianoforte attendendo, senza contarci ma anche senza disperare, che l'Arte si accorga di noi, disprezzando gli sciocchi che vorrebbero sedurla. Da Humprey Bogart o, italiamente, da Fred Buscaglione.
Fred Buscaglione
Il semplice gesto di comporre un testo in modo che altri possano leggerlo è però compiere un gesto intrinsecamente artistico e non serve fingere che si tratti di un gesto quasi casuale, un tic, una sfida, una piccola concessione a una fissazione purchessia. Si scrive perché si crede - a torto o a ragione - di avere qualcosa di urgente e importante da comunicare.  
...
Scrivere è necessariamente qualcosa di più del semplice gesto di porsi davanti a una tastiera e improvvisare qualcosa. Improvvisare è divertente, perbacco se lo è. Come lo è un pubblico preparato e accorto, disponibile a una serie di  veloci citazioni, passaggi arguti, buffe osservazioni, scimmiottature, caricature, parodie divertite e divertenti. 
Ma tutto ciò rischia di essere soltanto un rimandare il confronto con la scrittura. Un confronto che, a ben vedere, ha poco di divertente, anche nel caso che ciò che esce dalla tastiera risulti innegabilmente comico.  
Scrivere può essere un lavoro, può impegnare per ore e ore, tanto da trascurare la famiglia, gli impegni, il mondo. Si può scrivere un «dannato romanzo» in sei giorni. O creare Round Robin a N partecipanti. 
Ma la scrittura, lenta e sorniona, comunque aspetta. 
Ed è con quella che è necessario misurarci. 




P.S. È anche possibile che sia stata la mia proverbiale pigrizia, ispirata dall'invidia, a dettarmi questo lunghissimo articolo. Un romanzo in sei giorni è un exploit che alla mia età non posso più permettermi. 
Spero comunque che l'ottimo Davide non si adonti. Lui, ovviamente, non è responsabile dei curiosi pensieri che talvolta mi prendono.