30.4.08

Infortuni

Capita a tutti, nell'ansia di stendere un passaggio significativo, di sbagliare malamente il significato di un verbo o di costruire locuzioni alle quali chiunque non sia l'autore darà un senso completamente diverso o addirittura opposto a quello previsto e desiderato.
Rileggere con calma e far leggere a un lettore di fiducia serve anche a questo. A evitare infortuni che possono nella migliore della ipotesi rendere oscuro un passaggio del vostro testo. Nella peggiore scatenare l'ilarità o il sarcasmo del lettore.
Se infatti il celeberrimo «Quando si svegliò era morto» di Poinson du Terrail si può almeno in parte spiegare con la fretta degli autori di romanzi d'appendice della prima metà del XIX secolo, malpagati e vincolati a tempi di consegna rigidissimi, paradossalmente meno giustificabili gli svarioni di autori non professionisti.
Tra i compiti del mio lavoro di piccolissimo editore c'è anche quello di leggere - fortunatamente non da solo - i racconti pervenuti per il concorso annuale «Fata Morgana». Il numero di racconti pervenuti per ciascuna edizione del concorso è una variabile determinata da due elementi:1) il numero di segnalazioni del concorso da parte di periodici e siti web; 2) il tema proposto agli autori.
Il numero massimo di racconti pervenuti - all'incirca duecento - fu per l'edizione 2004 del concorso. Il tema proposto in quell'occasione su «Coppie, opposti, nemici, amanti», un insieme di proposte evidentemente apprezzate anche dagli autori non professionisti. La lettura risultò comunque defatigante. A dieci cartelle a racconto si trattò di leggere più di duemila cartelle, l'equivalente di un «Signore degli Anelli».
Il lavoro fu condotto a termine e ne nacque un'ottima antologia. Ma la lettura prolungata e talvolta tutt'altro che piacevole innescò una discussione nella giuria del concorso. Il numero di testi pervenuti al di sotto di uno standard minimo di leggibilità fu infatti molto alto. Da questa discussione nacque un articolo che fu pubblicato in LN 33 dove, in particolare, mettemmo in rilievo:
«la totale assenza di considerazione per l’ipotetico lettore, chiamato a stupirsi ed emozionarsi davanti a una prosa approssimativa che l’autore non ha sentito il bisogno di rileggere con sguardo freddo e analitico».
Ma non ci fermammo qui e all'articolo facemmo seguire un campione di sciaguratezze lessicali.
Il nostro intento non era tanto di irridere gli infelici autori colpevoli di trascuratezze e svarioni, quanto di sottolineare la necessità di praticare il professionismo anche non essendo professionisti e di curare - leggendo, leggendo, leggendo - il lessico che si rivelò in decine di casi:
«quasi sempre scarso e ripetitivo. Talvolta approssimativo, come se l’utilizzo di un dizionario fosse una barbarie vietata dalla convenzione di Ginevra».
Gli esempi che riporto sotto, una selezione di quelli originariamente pubblicati sulla rivista, sono un ottimo esempio di come NON ci si deve accostare alla parola scritta e di come certe presunte «raffinatezze» possono risultare urticanti o decisamente comiche.
Ultima avvertenza: i titoli sono, naturalmente, apocrifi.
 
- Transessualità
Ma io, in Max, vedevo solo Elena
- Che mascalzoni!
Rischiavano d’increspare il loro già fragile equilibrio
- Solo a tratti
a tratti covavo l’urgenza di morire
- Corpo di mille cannoni!
ogni suo gesto era destinato a ravvivare la favilla delle mie arterie
- Inquinamento
… giglio tra i grigiori arbusti
- Cautela, perbacco!
Incauto! Lasciare le bionde chiome nei miei aculei opulenti!
- O tempora, o mores!
fui specularmente sopraffatto dalla barbarie
- Fa la civetta?
Lei voltò ostentatamente la testa dal lato opposto
- Uomo in ammollo
L’uomo gocciolava nell’ingresso
- Diavolo di uno scenografo!
La scena era repentina e ossessa
- Lapalissiano
Nudi nella loro fisicità
- Discolaccia
Una fanciulla dall’aspetto monellesco
- Sottovoce, però
pareva che gli oggetti parlassero, in quell’atmosfera un po’ cimiteriale
- Stratigrafia
preventivandone il successo su grossi strati di pubblico
- Grand guignol
… In quel corpo, che cominciò a eruttare sangue
- Comprati in saldo
Pesanti abiti mi opprimevano le carni
- Impetuoso e frivolo
L’odore del caffè le afferrò le narici e corse verso il fornello, infilando una camicia di cotone colorato
- Voce stizzosa
La voce era rimasta seduta al tavolo e le dava le spalle
- Pensiero molesto
Si raccapricciava al pensiero
- Quasi tutti
Dopo aver riaperto quasi tutti i balconi
- Gulp!
l’uomo soprassalì
- Fragorose solitudini
tra mille solitudini che si urtavano scalpitando
- Sguardo rapace
Quando agganciò con i suoi occhi azzurri e trasparenti i miei…
- Che tempo farà?
L’argenteo cielo plumbeo
- Portuale
… e lei ha attraccato alla mia spalla
- Rispondere, prego
Le domande continuavano a rimbalzare contro le pareti
- La precisione innanzi tutto
Tentai di voltare il mio viso
- Che pretese!
Tu pretendi che non sarei dovuto tornare
- Penosa confessione
È altrettanto necessario che le confessi cosa mi vive
- Mocassini calibro 42
Sparai con tutto quello che avevo addosso
- Anche il mio gatto
Il tempo balzava dalla camicie ai calzini annodandosi intorno alle cravatte
- E se avesse ragione il babbo?
un abbraccio distaccato a suo padre assolutamente disapprovante per l’ennesima balzaneria
- Femminista
In altre sere, invece, erano le donne a prendere il posto dei cavalli
- Domanda ingegnosa
«Quanti anni hai?», si ingegnò di chiederle
- Acquirenti scarsi
rimanenze di gatti morti
- In mancanza di meglio da fare
E il cielo pioveva
- Gulp! (2)
Di scatto. Sobbalze!
- Geometria letteraria
Parcheggiate agli angoli tondi
- Mai riposare sugli allori
Precipitò nello sconforto più nero, ma non ebbe il tempo di crogiolarsi
- Science-fiction
Quando rinvenne aprì gli occhi e vide un cielo viola tutt’intorno a lei
- Di getto
… i capelli corvini tagliati di getto da un’unica decisa sforbiciata
- Brodoso
mi sentii tirare con inusitata energia dal lato di mezzo ai due risucchi
- Tiro mancino
Dopo 22 anni, 11 mesi e 15 giorni di ininterrotta prigionia mi rassegnai all’evidenza e all’ironia della sorte
- Ne hanno viste tante
allora buttò giù dal quarto piano i suoi occhi
- Repentino slow
L’espressione del suo viso passava dal sorridente al corrucciato nel giro di pochi minuti
- Niente frivolezze
Il buio riempiva la stanza con il suo manto silenzioso e allo stesso tempo austero

27.4.08

Matrimoni alieni: fantascienza e modelli sociali

Durante la prima adolescenza leggevo, letteralmente, di tutto - tutto quello che trovavo disponibile in casa. Da Topolino ai romanzi rosa ai gialli di Mike Spillane. Ho incontrato la fantascienza su una banchetto di libri usati e il primo racconto di sf «serio» - che non fosse cioé un adattamento o una parodia pubblicata su «Topolino» - è stato «Quasi umani» (che era anche il titolo dell'antologia) di Richard Matheson. La storia di un androide divenuto talmente «umano» da sviluppare la convinzione - in apparenza paranoide - che gli androidi stessero gradualmente sostituendo gli esseri umani fino a soppiantarli. Non dirò come finisce il racconto, sarebbe un peccato.
Comunque si trattò di un colpo di fulmine.
Tanto è vero che quando, qualche anno, dopo iniziai a scrivere a mia volta, inevitabilmente iniziai con un romanzo di fantascienza.
Adesso la fantascienza letteraria non attraversa un buon momento: scomparse o profondamente mutate la case editrici specializzate, pochissime le vere novità pubblicate (in italiano), qualche ristampa di scarso interesse e una clima generale di stanchezza e disillusione.
Sui motivi di questa crisi un dibattito che prosegue ormai da tempo, sempre più sfilacciato.
Non ho certo intenzione di continuarlo qui, tanto più che non avrei nulla di realmente nuovo e originale da aggiungere. Mi interessa, piuttosto, riportare un'affermazione del futurologo Jon Turney, autore di una «Rough guide to the future», ovvero una guida turistica al futuro.

«La fantascienza è molto meno di un tempo un modo per inventare il futuro. La fantascienza di oggi dimostra che la nostra società ha perso la capacità di creare visioni utopiche, alternative, e che il capitalismo ha spazzato via le nostre capacità di immaginare forme alternative di organizzazione del mondo».

Certo, la sf non è mai stato soltanto racconto filosofico o narrazione dell'utopia a venire, ma l'aver inserito nella riflessione sulla crisi della fantascienza come letteratura il peso di un capitalismo vincente che ha azzerato qualsiasi possibile alternativa di sviluppo e convivenza, se non è una novità assoluta è comunque un forte stimolo alla riflessione.

Strana combinazione, mi è capitato di sentire per radio un commento al libro di un antropologo e mi sono ricordato che, negli anni '70, l'antropologia culturale era una delle scienze più frequentate da lettori e scrittori di sf. Si era - lo ero anch'io - alla ricerca di modalità di interazione umana diverse da quelle consuete. Gli scopi almeno due: costruire modelli di comunità diversi da quelli tipici del presente e del passato e immaginare possibili forme di società aliene.
Qualche traccia di questo instancabile lavoro di analisi e comparazione delle forme sociali umane si può ancora ritrovare - seppure in forma spesso rudimentale - nelle diverse serie di Star Trek.
Non è curioso che i Klingon come l'anarchismo libertario di «Un'ambigua utopia» di U.K. Le Guin siano entrambi espressione, con ogni probabilità, di riflessioni critiche sul nostro modello di sviluppo?
In apparenza, quindi, la crisi della fantascienza si potrebbe anche interpretare come crisi di un pensiero critico strutturato e coerente sull'attuale modello di sviluppo economico e sociale.
Onestamente credo si tratti di una buona interpretazione.
Secondo Jon Turney, comunque, la modalità più efficace di analisi e comprensione del futuro prossimo resta quella narrativa:

La narrazione è il modo più convincente di comunicare un'opinione sul futuro, che si tratti di un'ispirazione o di un avvertimento.

Bene, amici lettori e scrittori di sf, che cosa stiamo aspettando?

24.4.08

Riesumazioni

In editoria, come in tutta l'industria culturale contemporanea, il già noto, il già visto, il già familiare hanno molte più chance di successo e di capillare segnalazione e distribuzione di ciò che è originale, quindi ignoto. Una semplice, banale ricetta che CEO e uffici commerciali hanno ben presente.
A farne le spese, tra gli altri, grandi personaggi della letteratura che, riesumati alla meglio, vengono costretti a una seconda vita letteraria molto probabilmente non voluta né tantomeno necessaria. Ma vanno forte anche personaggi della storia, della filosofia, dell'arte riconvertiti a investigatori, detective e privat eye chiamati a risolvere complicati (o banali) polizieschi di ambientazione storica.
Immancabilmente rimpiattati dietro queste operazioni docenti universitari specialisti (guarda caso) proprio di quel periodo e/o di quel personaggio e/o di quel segmento di letteratura, in grado, si spera, di rievocare con la necessaria precisione.
Il risultato - nel migliore dei casi - una lettura adeguatamente istruttiva e divertente, perfettamente adatta alla lettrice o al lettore dotati di quel gusto raffinatamente midcult che è la gioia degli uffici commerciali degli editori.
Ultima tra i grandi personaggi a essere ri-cucinata e ri-servita, Madame Bovary trasfigurata da suicida a vittima di un omicidio in un romanzo di imminente uscita.
Ricordo distintamente la sensazione di fastidio con la quale ho accolto la scheda di presentazione:
«E almeno la Bovary lasciatela in pace!»
Macché.
E si arrangi Flaubert.
A quando un giallo sul «misterioso omicidio» di Anna Karenina?
In fondo è recente un poliziesco che aveva per protagonista il commissario Porfirij Petrovič di Delitto e Castigo.
Altrettanto recente un thriller con Niccolò Machiavelli nei panni del Nero Wolfe della situazione. Ma anche qui la scelta è vastissima. Tra i grandi rimessi in pista per sciogliere un enigma: Immanuel Kant, Dante Alighieri, Sigmund Freud, Henry Wadsworth Longfellow, Franz Kafka, Napoleone Bonaparte e Aristotele. Il più maltrattato il povero Kant (uno dei miei filosofi preferiti quando ero liceale). Il meglio sistemato Aristotele al quale Margaret Doody regala uno humour anglosassone e i modi divertenti e divertiti di un intellettuale anticonformista.
Ma ogni considerazione sulla riuscita migliore o peggiore delle opere rischia di offuscare l'elemento più significativo di questo genere di operazioni: la pigrizia intellettuale che stimola e soddisfa nel pubblico dei lettori. Anche se la letteratura è al capolinea - suggeriscono questo genere di opere - si potranno sempre fare infiniti giochi combinatori con i personaggi che hanno già avuto successo una volta o inventare storie curiose su personaggi realmente esistiti.
Che cosa vi ricorda?
A me ricorda un gioco di società in una domenica pomeriggio piovosa.
Con il brivido del macabro garantito dall'operazione di riesumazione.
...
Ma il gioco post-letterario può avere anche altri esiti e altri fini. Basterà ricordare l'impossibile e toccante storia d'amore tra Emily Dickinson e Walt Whitman narrata da Paul Di Filippo.
Ma il gioco è qui completamente diverso. Si tratta, infatti, di realtà controfattuale o Ucronia, un sottogenere della fantascienza, per nulla frequentato dai lettori midcult e che ha il grosso pregio di ipotizzare altri possibili vite e altri possibili esiti di una scelta. Compiendo, in sostanza, l'operazione inversa: destrutturare invece di confermare, creare dubbio e sgomento invece di lusingare l'attitudine pantofolaia del lettore.
Ma l'ucronia - e la fantascienza - non hanno successo tra i lettori e gli editori.
Meglio, molto meglio, immaginarsi Dante Alighieri nei panni di Sherlock Holmes.
Manca la pipa ma il naso c'è.

23.4.08

Essere fuori moda, contenti così

Nonostante l'aria che tira, ostile e diffidente nei confronti di tutto ciò che è pubblico, CS_libri ha sempre collaborato con le biblioteche civiche torinesi. Insieme abbiamo organizzato il convegno «Il libro nascosto» del quale sono regolarmente usciti gli atti e insieme abbiamo curato numerose presentazioni, letture - anzi reading, perbacco - conferenze e incontri.
Anche grazie all'impegno e alla passione dei bibliotecari sono state tutte senza eccezioni esperienze piacevoli, stimolanti e interessanti. E il parere non è il soltanto nostro, dal momento che quest'anno, di comune accordo, abbiamo deciso di continuare.
Per la primavera sono previste due presentazioni.
La prima il 23 maggio, ore 21.00 presso il punto prestito «G, D'Annunzio» in via Saccarelli 18 sarà la presentazione della collana N & D (Nobile & Disperata) di CS_libri. Intervenuti e programma qui.
Sarà anche l'occasione per parlare del nuovo libro di Consolata Lanza, «Lei coltiva fiori bianchi».
La seconda il 6 giugno - stesso luogo e stessa ora - del volume dedicato alla narrativa giapponese della collana ALIA. Interventi e programma qui.
Le biblioteche per noi sono importanti.
Sono un pezzo di civiltà.

21.4.08

A che cosa serve un editore? Capitolo 8

Siamo arrivati ai racconti. Racconti brevissimi, brevi, normolinei e lunghi cioé novelle.
La distinzione è soltanto nella lunghezza? E qual è la differenza tra romanzo breve e racconto lungo? Esiste una differenza o è una questione di lana caprina?
Già che ci siamo con le domande, ricordo anche la domanda principe di questa serie di interventi: serve a qualcosa - ai fini della pubblicazione retribuita, s'intende - scrivere racconti e vincere premi dedicati al racconto?
Ancora una domanda, l'ultima - giuro: basterà un solo post per affrontare degnamente il tema?
Comincio a rispondere a quest'ultima.
NO.
È molto probabile ce ne vogliano almeno due se non tre.
Parlando di pubblicazione retribuita, comunque, riprendo volentieri un articolo di Sergio Sozi apparso su libmagazine che affronta il (doloroso) tema del pagamento degli autori, sia di narrativa che anche, semplicemente, di articoli per testate cartacee o on line.
Il quadro normativo presentato da Sozi si presenta tanto sconfortante da rendere ipso facto patetico parlare di pagamento. Aggiungo che, comunque, se non pochi autori faticano a ricevere il proprio compenso il problema è tutt'altro che circoscritto a loro. Diverse altre figure professionali - i traduttori, per esempio - hanno quotidianamente grosse difficoltà a riscuotere il dovuto dagli editori e i ritardi di pagamento agli studi editoriali "esternalizzati" sono all'ordine del giorno.
Insomma, se non si diventa rapidamente grossi nomi la prospettiva di vivere di scrittura è quantomeno molto labile. Bisogna mettere in conto, insomma, di continuare a essere qualcosa-e-scrittore. Oppure puntare a sposare uno dei famosi e proverbiali figli di Berlusconi.
Ma torniamo ai racconti.
Siamo pratici: in Italia esiste una domanda di racconti molto inferiore all'offerta.
Pochissime le testate che ne pubblicano e comunque marginali o dedicate a un pubblico di nicchia. Per quanto riguarda l'editoria libraria pochi gli editori che lavorano sul racconto. Tra questi Minimum Fax, che, in ideale omaggio al lavoro di Raymond Carver, dà uno spazio definito e ampio alla letteratura breve, ricavandone peraltro risultati commerciali tutt'altro che disprezzabili.
Al di fuori di (poche) isole felici il racconto - e peggio ancora il racconto lungo - è una forma narrativa relegata (in Italia) a una vita marginale e stentata. Gli editori lo considerano il parente povero del romanzo, una forma narrativa adatta ai principianti che, inevitabilmente, dovrà sfociare necessariamente nel romanzo pena l'oblio definitivo dell'autore. Tipica la domanda: «Belli questi racconti! A quando un romanzo?», come se l'uno fosse la premessa necessaria all'altro.
Non è così.
Credo sia abituale per chi scrive cimentarsi in entrambe le forme narrative, con esiti che tuttavia possono anche essere molto diversi. Personalmente ho scritto racconti di duemila battute come ho lavorato - e sto lavorando - a romanzi che superano il milione di caratteri. E sono ben conscio che le norme in base alle quali ho scritto gli uni e l'altro sono ben diverse. Pensare che il racconto sia una premessa al romanzo è come pensare che il geranio sia una premessa al faggio o alla quercia. Si tratta, semplicemente, di organismi differenti con una lunghezza di vita diversa, un diverso metabolismo e un diverso habitat.
In proposito ognuno ha propri pareri e interpretazioni.
Per quanto mi riguarda credo che la lunghezza del testo sia una soltanto una delle caratteristiche di un testo. Le altre - nessuna delle quali prescrittiva - riguardano le unità aristoteliche di luogo, tempo e azione, alle quali aggiungerei almeno un elemento - forse più tipico dei testi moderni - e che ritengo essenziale: il punto di vista. La pluralità dei punti di vista credo appartenga più nettamente al romanzo, non perchè sia impossibile scrivere un racconto breve nel quale si alternino punti di vista diversi (la portinaia e l'inquilino, l'insegnante e l'alunno, il poliziotto e il criminale o per citare il classico di Akutagawa: la vittima di un omicidio, sua moglie e un brigante) ma perché soltanto il movimento nel tempo e un'articolata serie di eventi sono in grado di valorizzare pienamente la differenza di visione nata dalle diverse storie personali dei personaggi.
Julio Cortazar definiva il racconto «una freccia», unendo in una sola metafora il senso della sua brevità e l'efficacia che può - e deve avere - nel penetrare e colpire profondamente il lettore.
Il racconto, da questo punto di vista, può essere descritto come un «viaggio in un istante», ovvero costituire una raffinata e perfetta raffigurazione di un mondo al momento « x », narrato da una voce prevalente e contrassegnato da un particolare evento. Pur senza averne troppo titolo faccio riferimento a un grandissimo autore del fantastico del Novecento: H.P. Lovecraft. Si tratta di un autore al quale si sono dedicati e si dedicano ponderosi e affascinanti studi e che possedeva in forma sublime il dono di scrivere racconti, ovvero di condensare in un numero limitato di pagine un gran numero di suggestioni.
H.P.L. partiva da un singolo evento, si basava sul solo punto di vista del suo protagonista e riusciva a evocare lontani e sconosciuti passati e remoti e minacciosi futuri ma soprattutto a trasfigurare la realtà sensibile suggerendo l'esistenza, accanto a essa, di realtà ulteriori inaccessibili ai limitati strumenti di comprensione umani. I suoi racconti sono viaggi a senso unico dal quotidiano al trascendente, nei quali il tema fondamentale è, nientedimeno, che l'ontologia del reale. Qualcuno può ragionevolmente affermare che H.P.Lovecraft - ma anche Edgar Allan Poe, Raymond Carver, Jorge Luis Borges, Julio Cortazar, P.K. Dick, J.G. Ballard - siano scrittori immaturi o che la parte significativa della loro produzione prescinda dal racconto?
Immaturo, semmai, è il punto di vista dell'editoria italiana sul racconto.
Già.
Ma siamo italiani.
Scriviamo in italiano.
Siamo letti (se va bene) da italiani.
E i racconti in Italia «non vanno».
Può sembrare paradossale ma scrivere racconti in Italia è un atto profondamente zen, privo di scopi che non siano il piacere di farlo.
Ma con i racconti non ho finito, come avevo annunciato.
Ci sono altre cose che restano da discutere.
Esiste una distinzione tra racconto lungo e romanzo breve?
Tempo fa ho mandato a Vittorio Catani un mio testo di una cinquantina di pagine, 150.000 caratteri: «Ti mando questo racconto lungo...». La sua risposta cominciava con la frase: «Riguardo il tuo romanzo breve...».
Diverse sensibilità o semplice equivoco?
E i racconti legati in un ciclo (Vermillion Sands, di J.G. Ballard, tanto per citare il primo che mi viene in mente senza dovermi alzare a guardare in blioteca, o Mille anni di piacere di Nakagami Kenji) in quale categoria vanno inseriti?
E i trii di Consolata Lanza, tre racconti lunghi uniti da un personaggio o da un luogo ma per il resto separati e autosufficienti?
Ci ritorneremo presto.

18.4.08

Leggere un po' meno

Da qualche tempo è disponibile on line presso il sito dell'Associazione Editori Italiani il Rapporto 2007 sull'editoria italiana curato dall'Ufficio Studi dell'AIE. La versione breve (più o meno 5 pagine) può essere scaricata gratuitamente, il rapporto completo è invece disponibile soltanto a pagamento.
Ma anche la versione ridotta è comunque in grado di fornire anche ai «semplici» lettori alcuni dati decisamente interessanti.
Il fatturato totale del comparto commerciale librario, innanzitutto: 3 miliardi seicento milioni di euro, circa 7.000 miliardi di lire. Con un aumento sull'anno precedente dello 0,6%.
Pietoso, ma passiamo oltre. Ci ritorneremo dopo.
59.000 i titoli pubblicati, dei quali 36.000 novità narrativa, saggistica, manuali ecc.) e il resto ristampe per un totale di 261,1 mln di copie stampate. La tiratura media è quindi di 4.423 copie a titolo - un dato in costante e lenta discesa da una decennio a questa parte. Non necessariamente negativo, ma anche qui ci ritorneremo.
Aumenta l'incidenza del venduto della GDO (grande distribuzione organizzata) e delle grandi superfici (librerie di catena) mentre diminuisce quella delle piccole e medie librerie. In difficoltà, infine, la vendita di libri in edicola dopo il boom del 2005 e in aumento la quota di vendita su Internet, anche se ancora inferiore al 4% del totale dei fatturato nazionale librario.
Diminuisce, rispetto al 2006, il numero di lettori che hanno letto «almeno un libro all'anno». Sono il 43,1% della popolazione italiana, pari a circa 24 milioni di persone su 55 milioni di residenti. Sono lettrici il 48,9 della popolazione femminile e il 37,0% della popolazione maschile - 14 mln contro 10 mln - un laureato su due non legge nemmeno un libro all'anno (pubblicate gli elenchi!) e diminuisce il numero di lettori nella fascia di età compresa tra i sei e il diciassette anni. Nell'Italia del Nord, infine, sono lettori (sempre di almeno un libro all'anno) il 51% degli italiani, nel Centro il 44,6% e al Sud il 31,6%.
Si va dal 55% del Trentino al 29% della Campania.
Praticamente (e malauguratamente) due nazioni diverse.
Tra i «lettori», ancora, quelli che leggono meno di tre libri all'anno sono il 46%. Più o meno 11 mln di persone. Gli altri 13 mln (prevalentemente donne, prevalentemente settentrionali, prevalentemente residenti in aree urbane) sono i veri lettori abituali. Meno di un quarto della popolazione italiana. Di questi i lettori di almeno dodici libri all'anno sono circa 3 mln. Che, da soli, formano il 50% del fatturato di librerie, grandi superfici e GDO.
Un dato agghiacciante ma che, da solo, spiega abbondantemente le apparenti insensibilità dell'italiano medio per il bene comune e l'etica in politica.
Senza strumenti di analisi e giudizio si è come Lucignolo in balia del primo «Omino di burro» che appare all'orizzonte.
Una volta la sinistra italiana diceva che la gente doveva essere istruita per comprendere la necessità e la possibilità di un riscatto.
Pensava che si dovesse fare una «politica culturale» e si dovesse sostenere la lettura.
Altri tempi, altra sinistra.
Ma non distraiamoci, via.
Ancora un giudizio riassuntivo sottolineato dallo stesso studio: «quello del libro è un mercato determinato più dall'offerta che dalla domanda». Che significa: «Se non esce il best-seller andiamo sotto di brutto» ovvero: «non dimentichiamo di accendere un cero a Dan Brown e a J.K. Rowlings».
Un ovvio corollario all'esistenza di un pubblico abituale formato da 13 mln di persone su 55, aggiungo io.
Ci sono alcune piccole cose che merita sottolineare, in questa raffica di cifre.
- L'aumento generale del fatturato del settore, pari allo 0,6%. Dal testo non emerge chiaramente se si tratta di un dato depurato dall'inflazione. Dall'insieme degli altri dati, tuttavia, sarei pronto a giurare che si tratta di un dato «sporco». Con tutte le cifre che puntano in basso è difficile credere che qualcosa sia davvero in attivo.
- Le basse tirature. Nella versione ridotta dello studio non sono forniti dati più dettagliati, ma si può supporre che le basse tirature siano la conseguenza di due fenomeni: a) la mancanza di best-seller da milioni di copie usciti nel 2006; b) la nascita di numerose piccole case editrici che, come CS_libri, fanno ricorso alla stampa digitale per pubblicare in piccole tirature (300-500 copie). Lo sviluppo di una piccola e piccolissima editoria non è di per sé un fenomeno negativo, anzi. Diverso il discorso se si tratta di editori con prevalente vocazione speculativa (tu, autore, paghi, io «editore» ti stampo il libro). Credo che questo fenomeno abbia un peso non piccolo, confermato anche dalla crescita - segnalata nello studio - della pubblicazione di titoli di autore
italiano. Il giudizio da darne resta comunque in sospeso.
- I laureati che non leggono.
Un dato agghiacciante che denota il rapporto del tutto strumentale che tanti hanno nei confronti della cultura, concepita come strumento da acquisire, verificato a mezzo esami universitari e questionari e considerato ottenuto una volta per sempre. Metà dei laureati italiani sono degli asini, né più né meno. Che la cultura debba essere aggiornata, arricchita, articolata anche attraverso letture non curricolari è evidentemente una nozione che non sfiora la metà dei laureati italiani. Ai quali basta, evidentemente, il «pezzo di carta» da appendere da qualche parte. Un riflesso, comunque, della staticità e della scarsa vocazione innovativa dei servizi e delle imprese. Con laureati di questa statura intellettuale (e imprese tanto poco innovative) non resteremo in Europa a lungo, c'è da pensare.
- Il calo generale dei lettori è un fenomeno molto più grave di quanto appaia. Ancora negli anni '90 esisteva negli studi dell'AIE un certo ottimismo sullo sviluppo della lettura in Italia, dovuto al ricambio demografico della quota scarsamente alfabetizzata della popolazione italiana (gli ultrasessantenni) rimpiazzati da una nuova generazione fortemente alfabetizzata (i bambini, i ragazzi e i giovani). Passata la boa del 2000 la lettura non dà segni di sviluppo e i nuovi lettori mostrano una disaffezione evidente passando dall'essere più del 60% a quattordici anni a un allarmante 56,6% a diciassette fino a meno del 50% in età adulta.
Se questo è il risultato della scuola superiore...
Già ma gli insegnanti delle superiori sono laureati, e forse un buon 40-50% ha aperto l'ultimo libro un mese prima di laurearsi...
Se non leggi e non ami leggere i giovani ti sgamano senza problemi. Sono dei fenomeni a vedere il bluff e a comportarsi di conseguenza.
E i docenti universitari?
Ne esistono di attenti e preparati ma ne esistono (vita vissuta) che consigliano agli studenti lo stesso libro o set di libri - ormai esauriti e fuori commercio - da un paio di decenni. Evidentemente non hanno letteralmente letto altro nel frattempo.
Ma nessuno si preoccupa di verificare la competenza e l'aggiornamento degli insegnanti italiani.
Esiste un patto non scritto per il quale l'insegnante delle elementari, medie e superiori è pagato poco e male ma, in compenso, nessuno gli fa le bucce.
Resta da dire che i docenti universitari non sono esattamente malpagati.
Ma non hanno incentivi all'aggiornamento e se non combinano un accidente e si fanno esclusivamente i fatti loro non rischiano nulla.
In sostanza - come sottolinea anche l'AIE - questi sono i risultati della mancanza di una politica nazionale a sostegno del libro e della lettura. Una politica nazionale che non esiste né a destra né a sinistra (e questo è veramente GRAVE).
Al di là di esperienze locali e autopromosse - i portici del libro qui a Torino, molto di più della pletorica e inutile «Fiera del libro - sarebbe necessario un intelligente e lungimirante intervento pubblico - una politica della lettura capillare ma agile, il sostegno in sede locale ai piccoli punti vendita e la creazione di incentivi ad aprirne di nuovi, il sostegno al libro anche attraverso altri media (radio, TV) e mille altre iniziative che, se opportunamente stimolato, il settore potrebbe inventare.
Viceversa si specula sull'ignoranza e la credulità.
Si glorifica Padre Pio e si attacca Darwin.
Abbiamo sbagliato paese e sbagliato classe politica.
Se possibile, oggi anche più di ieri.

16.4.08

Ultimo spettacolo: si riaccendono le luci

Gli ultimi quattro capitoli e l'epilogo.
Che la Terra - o almeno l'umanità - debbano essere salvate è una delle regole non scritte della fantascienza, anche di quella poco seria. Magari con stravaganti inversioni e conversioni spazio-temporali, colpi di scena, trasmutazioni, imprevisti e probabilità. Ma la Terra e l'Umanità si devono salvare, anche se potrebbero uscirne tutte e due profondamente trasformate.
Quindi il lettore può stare, almeno da questo punto di vista, tranquillo.
Le modalità del salvamento, tuttavia, sono interamente a carico di chi scrive. E se chi scrive non nutre molta considerazione per il modo nel quale i suoi consimili e particolarmente chi li governa hanno finora trattato un pianeta straordinario e che dovrà essere consegnato più o meno intatto o almeno in condizioni decenti ai viventi che ci seguiranno, tali modalità avranno ragionevolmente molto poco di eroico e di grandioso. Il salvataggio potrebbe essere un gioco. O uno spettacolo. L'ultimo, appunto.
In genere in coda a un'opera si ringrazia qualcuno: «Tizio Caio per i preziosi suggerimenti, Sempronia Pinco Pallino per le interessanti conversazioni, XY per la consulenza, ABC per i consigli - senza di lui non avrei nemmeno immaginato di poter scrivere 'sto capolavoro - la signora E.A. per il lavoro di redazione», usw.
I miei ringraziamenti saranno molto più brevi.
Ringrazio mia moglie, Silvia, per avere letto, commentato e criticato US. E soprattutto per avermi fatto notare che, per quanto qua e là un po' cretino, nell'insieme poteva risultare una lettura piacevole. Ovvero poteva meritare il tempo impiegato a leggerlo.
Non è poco, via.
...
Ricordo, per coloro che avessero atteso la fine della pubblicazione per scaricare tutto, che è opportuno leggere prima di tutto il file «US, avvertenze e precauzioni». Si può leggere anche dopo, d'accordo, ma l'importante è, a un certo punto, leggerlo.
Per chi non avesse ancora scaricato nulla dal mio blog rammento che può farlo accedendo al link http://mio.discoremoto.alice.it/altre_visioni che si trova qui ma anche subito sotto lo spazio «quante storie!» nella colonna a dx.
Commenti, osservazioni, sferzanti critiche e sperticate lodi possono essere scritti in coda e questo post o se lunghi e articolati, inviati all'indirizzo massimo.citi@virgilio.it.
È stato bello - e lo sarà - avervi avuto e avervi con me.

15.4.08

peggio di così...


Mi ero ripromesso di non scrivere un bel nulla sul risultato delle elezioni, ma visto l'esito è difficile tacere.
La sensazione che ho colto in giro è lo stupore. Uno stupore sconfortato reso più deprimente dalla mancanza di speranze. B. ha vinto alla grande e con lui ha vinto la Lega. La rimonta di Veltroni si è rivelata una balla.
Per nulla innocente, visto che è servita a drenare voti a sinistra: «Voto Veltroni che è in rimonta, così fermo Berlusconi».
Già.
Come no.
Un gruppo dirigente screditato, incompetente e senza un'idea originale, in sostanza, ha scaricato sulla sciagurata (e tutt'altro che incolpevole) Sinistra radicale le colpe di due anni di governo Prodi.
Un governo che ha sostanzialmente addebitato al ceto medio e ai lavoratori dipendenti i costi del rientro in area Euro, capitalizzando il terrore di commercianti, artigiani e piccoli imprenditori per la finanza in ipotetici e demenziali «tesoretti».
Ha dato un insultante bonus di 300 euro annui ai pensionati con 550 euro al mese, non ha preso iniziative reali ed efficaci contro il lavoro precario né ha introdotto misure di difesa contro l'aumento del costo della vita, per esempio avviando un reale controllo sulla distribuzione dei prodotti alimentari. In compenso ha continuato a favorire la grande distribuzione a svantaggio dei piccoli esercizi in nome di una «liberalizzazione» targata Coop. Ha però sostenuto la TAV e consentito l'avvio della costruzione della base aerea di Vicenza, difeso e protetto il sistema bancario più inefficiente e corrotto d'Europa, preservato i margini di utile di tutte le società di servizi a partire da ENEL, ENI ed Autostrade, coperto Bassolino e la giunta Regionale campana, colpevoli di avere a suo tempo stipulato un contratto sospetto e apparentemente autolesionista con Impregilo, società dei Romiti con grosse partecipazioni di Benetton (autostrade) e del gruppo Ligresti. Per ulteriori info sulla società e sulle sue imprese è sufficiente un giretto su Wikipedia.
Potremmo continuare per un pezzetto, ma non è il caso.
La sostanza è che il governo Prodi ha sempre evitato di mettersi a qualsiasi titolo in urto con i grandi gruppi finanziari italiani. Ci siamo illusi fosse il nostro governo, ma era il governo di Geronzi (che nel 1997 versò 502 mld di lire ai DS) , del gruppo Unipol, del Sanpaolo-gruppo Intesa ecc. ecc.
Il problema grosso che questo cosiddetto «governo di Centrosinistra» diretto da un ex-tecnocrate IRI, residuo storico del mai scomparso Regime Democristiano (e che tre milioni di pirla, pardon di benintenzionati, hanno nominato «nostro leader» alle primarie del 2005 - io no e ne sono felice) non è mai davvero piaciuto a qualcuno.
«Sempre meglio di Berlusconi» era il massimo che qualcuno riusciva e balbettare.
Solo che a forza di mali minori si finisce così.
A predicare il realismo moderato con la testa nel sacco si finisce così.
A rinunciare a essere sinistra sperando che qualche pensionato si senta più sicuro, si finisce così.
A confondere il Veneto con il Maryland si finisce così.
Questo è stato il governo che la «sinistra» ha sostenuto e per il quale, giustamente, gli elettori hanno chiesto conto a Veltroni.
La sinistra radicale, dal canto suo, ha mostrato fino in fondo la sua ormai storica stupidità. Si è presentata divisa - due liste degne del PCdI M-L Linea Rossa (chi c'era sa di cosa parlo) e una malamente incollata e pronta ad andare in pezzi il giorno dopo le elezioni - e non è nemmeno riuscita a far capire di avere un programma radicalmente diverso da quello del PD.
La realtà - ce l'abbiamo sotto gli occhi - è che anche a rimettere insieme tutti i pezzi della defunta Unione si arriva al massimo a un 42-43% dei voti. Questo significa che un SACCO DI GENTE che votava a sinistra ha votato per la Lega o per il Berlusca.
Poi possiamo anche passare il tempo a lamentarci o a dire che «la gente non ci ha capito».
Ma forse dovremmo cominciare a dire che la gente ci ha capito benissimo.
Che votare per un surrogato della destra non è una buona idea, se allo stesso prezzo posso avere quella originale.
Che accettare qualsiasi porcheria pur di restare al governo porta alla morte politica.
Che una cosa con dentro Binetti, Calearo e Colaninno non può essere «la sinistra italiana».
Che di questo Partito Democratico - con questi dirigenti ma senza Barak Obama - si può e si deve fare a meno.
Poi possiamo cominciare a ragionare su come ne usciremo da un decennio o giù di lì di governo della destra.
E sperare nella Lega, l'unica forza dichiaratamente antifascista al governo.
Davvero tragicomico.

10.4.08

Il bersaglio


Sarà un post lungo, questo.
Sappiatelo.
Così se avete qualcosa di urgente da fare potrete leggerlo quando avrete tempo.
Semprechè, naturalmente.
Sarà un post confuso e poco sistematico, come da sottotitolo di questo blog.
In mezzo non escludo possa esserci qualcosa di interessante, ma non garantisco.
...
Qualche tempo fa si è aperta una discussione, partita da questo blog e poi continuata anche sul blog di Silvia Treves, che aveva come scopo il tentativo di definire - necessariamente in modo approssimativo e rudimentale - quando un autore debba ritenere che una storia (racconto, ma anche romanzo), sia terminata.
La discussione è stata ricca ma necessariamente vaga, dal momento che qualsiasi tentativo di definire unilateralmente e definitivamente le regole per concludere un testo è molto arduo, per non dire praticamente impossibile. Questo a meno non ci si guadagni il pane e un ricco companatico lavorando in una scuola di scrittura creativa e si debba, per contratto, fornire regole certe e definitive a gruppi di giovani (paganti), ansiosi di diventare scrittori.
Pardon di pubblicare.
Se non si ha l'esigenza di codificare a tutti i costi, una riflessione rilassata e in termini non troppo stringenti può essere utile, positiva e istruttiva.
Mi sono venuti in mente i termini del problema avendo ripreso in mano in questo periodo un mio romanzo scritto tra il 1994 e il 1997 e più volte rimaneggiato con aggiunte, tagli, spostamenti, introduzione di nuovi personaggi e almeno tre diversi finali.
Il romanzo non è troppo lungo (400.000 caratteri e poco più) ed è inedito. Nelle sue diverse incarnazioni ha partecipato - ovviamente senza vincere - a quattro o cinque concorsi nazionali anche in diverse edizioni. Le bocciature mi han fatto male all'autostima ma, passato qualche mesetto, mi è successo di dover ammettere che effettivamente qualcosa (o parecchio) non funzionava.
Da lì la necessità di rimetterci le mani e riprovare.
Dopo l'ultima bocciatura, comunque, l'avevo lasciato sospeso nel nulla, a dormire su due diversi dischi rigidi. A spingermi a riesumarlo il buon Alex Defilippi: «I racconti di In controtempo sono molto buoni. Ora ci vorrebbe un romanzo»; «Ce l'ho, un romanzo, sul tipo»; «Bene, mandamelo»; «Il tempo di metterlo a posto».
Questa conversazione è avvenuta a settembre dello scorso anno. È da settembre che mi rigiro 'st'accidenti di romanzo continuando a provare la sensazione che ci sia qualcosa che non va. Un po' come un pendolo che per funzionare - funziona, ma a scuoterlo si sente un rumore metallico che non dovrebbe esserci.
Ieri - anzi domenica - l'illuminazione.
Non so in quale altro modo definirla.
Il passaggio logico e di intreccio che spiega tutto, sorto da qualche ignoto angolo del mio cervello e bellamente comparso sulla pagina. Che fornisce al romanzo un verso e un senso precisi e cartesiani.
Un'emozione che chiunque scriva sa che vale oro, la sensazione non tanto di aver fatto centro quanto di aver (finalmente) individuato il bersaglio. Non dico di aver scritto un capolavoro, per carità, ma semplicemente di avere - adesso - un romanzo completo e non un abbozzo.
È la stessa sensazione che si prova, da lettori, quando l'autore riesce a sorprendervi senza giochi di prestigio ma soltanto unendo una serie di punti oscuri fino a disegnare un tracciato diverso e inatteso.
Ripeto: non sto dicendo che ho scritto un caposaldo della letteratura (fantastica), semplicemente mi chiedo da dove venga questa certezza che prima - me ne rendo conto ora - era surretizia e autoconsolatoria.
Soltanto adesso penso di averlo terminato, anche se la «rivelazione» (chiamiamola così) avviene a una trentina di pagine dalla fine, mentre il finale propriamente detto non ho dovuto cambiarlo se non in maniera minima.
Ma la cosa mi ha innescato una serie di domande.
Potrei vivere discretamente anche senza, ma sono fatto così.
È possibile affermare che la fine di un testo è raggiunta quando si è creata una chiara gerarchia di interpretazioni? O quando un testo può essere letto con diverse chiavi e ciascuna di esse non eclissa l'altra? O si deve pensare che il romanzo - o il racconto - siano completi soltanto quando hanno eliminato ogni possibile ambiguità?
Cominciamo col categorizzare.
Può essere utile.
Sto parlando di narrativa fantastica.
Uno dei suoi pregi è quello di poter mescolare le carte anche a metà del gioco.
O introdurne di nuove.
Ma non a pera. Non posso inserire un'astronave in un romanzo fantasy di ambientazione pre-diluvio. Ovvero lo posso fare a patto di modificare completamente il quadro di riferimento. Un po' come quando state fissando un'immagine completa e poi, allargando il campo, scoprite che si trattava di un particolare. È un meccanismo che mi è capitato di utilizzare per il mio racconto per il prossimo ALIA, detto per inciso.
Ma torniamo a bomba.
Un romanzo fantastico implica un certo grado di ambiguità. Fa parte delle «regole del gioco».
Però si deve essere disciplinatissimi, quasi maniacali. Il mondo presentato - fantastico o fantasy non ha importanza - deve essere autosufficiente, autosomigliante e coerente. Non deve sgranare - in breve - se visto da troppo vicino. Fanno in un certo modo eccezione i mondi «figli degeneri» dal nostro, ovvero i mondi nati per sviluppo e distorsione di questo universo fattuale. Le utopie, le distopie e le ucronie, in breve.
In questo genere di romanzi l'autosomiglianza e la coerenza sono altrettanto (se non di più) fondamentali mentre l'autosufficienza diventa relativa. Il confronto con il nostro mondo, una certa calcolata (e terrificante) confusione con questo fanno parte del gioco. Esempi principe «1984» di George Orwell, «La svastica sul sole» di P. K. Dick e più di recente «Il complotto contro l'America» di Philip Roth. Romanzi «politici», vicini al Comte Philosophique settecentesco.
È ovvio - lo dico per chiarezza - che qualsiasi testo fantastico è autosufficiente in senso puramente relativo. Se lo fosse davvero potreste andarci ad abitare. Qualunque cosa accada in un romanzo - fantastico o meno - viene filtrata e interpretata dal nostro cervello in base alle categorie utilizzate nel giudicare la vita reale. La frattura nasce quando posso scrivere: «Daniele cenò e andò a dormire» e rimango in un ambito familiare, ma posso anche scrivere: «Daniele cenò in compagnia del suo amico Klog il boldhovin e dopo uscirono a far bisboccia». Chi o che diavolo è un «Klog il boldhovin?» [1] chiede il lettore. Appunto. Siamo nel fantastico e chi ne ha voglia può continuare a leggere le avventure di Daniele e del suo amico, aspettandosi logicamente che la mattina dopo Daniele non andrà a lavorare al call-center copulando con la sua compagna d'ufficio durante la pausa pranzo.
Fine della digressione.
Parlavo di un grado accettabile di ambiguità nella Chiusura di un romanzo.
Non il Finale (importante, questa) ma proprio la Chiusura. Quest'ultima può coincidere con il Finale ma non è necessario e obbligatorio.
Bene. Mentre il Finale può essere «aperto», ovvero può preludere a ulteriori sviluppi, la Chiusura deve essere definitiva.
Questo è il motivo per il quale le precedenti stesure del mio romanzo non funzionavano.
Ed è inutile fare i furbi. Accoppare i protagonisti per «chiudere» il Finale senza aver tirato i fili in Chiusura- se non tutti almeno i principali - è un'operazione che disturba profondamente il lettore ed è un po' la coscienza sporca dello scrittore.
Io, comunque, non ho accoppato i miei protagonisti.
Per ritornare alle tre ipotesi previste prima:
1) È possibile affermare che la fine di un testo è raggiunta quando si è creata una chiara gerarchia di interpretazioni? [Ipotesi gerarchica]
2) O quando un testo può essere letto con diverse chiavi e ciascuna di esse non eclissa l'altra? [Ipotesi paritaria].
3) O si deve pensare che il romanzo - o il racconto - siano completi soltanto quando hanno eliminato ogni possibile ambiguità? [Ipotesi unitaria]
Cominciamo con l'affermare che la terza [ipotesi unitaria] può essere soddisfacente, anzi necessaria per un certo genere di giallo. Un giallo, non un noir, aggiungiamo. Dato un enigma si tratta di venirne a capo senza nessuna ombra né sull'innocenza né sulla colpevolezza. Tantomeno sullo scioglimento dell'enigma. Tutto si spiega e si va a dormire tranquilli.
La seconda [ipotesi paritaria] riguarda, direi, i romanzi e i racconti «metaforici», dove una vicenda, un periodo storico o un personaggio sono metafora del qui e ora. «Q» (ma anche «Il nome della Rosa») rappresentano in metafora taluni aspetti delle principali ideologie del XX secolo. In entrambi i romanzi si coglie nettamente l'elemento di polemica - o di identificazione - con lo schierarsi politico, la lotta armata, la polemica ideologica, l'oppressione intellettuale e la resistenza. Si possono leggere avendo in primo piano il plot oppure tenendo presente il loro valore metaforico. O, ancora, il loro significato in rapporto alla maturazione o al fallimento personale dei personaggi.
Detto per inciso non sono poi pochi i romanzi metaforici in fantascienza.
Ne cito due, i primi che mi vengono in mente: «Vertice di Immortali» di Robert Silverberg e «Un'ambigua utopia» di U.K. Le Guin.
Secondo Stefano Benni la sf è IL genere metaforico per eccellenza. Non sono d'accordo, ma non è comunque un'affermazione da buttare. A differenza di una non piccola parte della sua produzione. Soprattutto quando, come in «Terra!» clona Douglas Adams e poi butta tutto in vacca con un epilogo degno di Peter Kolosimo o di Erich Von Däniken.
L'ipotesi gerachica, ora.
Mi piace di più.
Anche perché il giallo a incastro dopo un po' mi annoia (non sono abbastanza attento e/o intelligente per sciogliere il mistero, così mi sento frustrato e ho la tentazione di buttare il libro dalla finestra) e il romanzo metaforico alla lunga m'infastidisce perché non mi piace essere tirato di qua o di là in una discussione, sia pure - appunto - metaforica.
Mi interessa, invece, il romanzo dove non è facile - o è impossibile - prendere posizione e ciò che accade ha una sua logica interna che non completamente comprensibile, se non a grandi linee, dal lettore. «Comprensibile» in questo caso significa «esplicabile». Il che non significa optare sempre e comunque per il fantastico. Vi sembra sempre perfettamente esplicabile il mondo, la nostra realtà?
Pensate al concetto di «limite» in matematica. Mi piacciono i racconti e romanzi che instacabilmente si approssimano al limite ma non possono raggiungerlo. Nello spazio compreso tra la loro posizione e il limite della perfetta comprensibilità (che non possono raggiungere) vivono tutte le possibili interpretazioni e ricostruzioni.
Un esempio?
Cribbio.
L'ultimo romanzo di Murakami Haruki, «Kafka sulla spiaggia», Einaudi.
Murakami, non a caso uno degli scrittori che prediligo, è un asso nel creare storie miracolosamente in equilibrio tra l'assurdo e il reale. Certo, non sempre l'equilibrio è perfetto e si ha talvolta la sensazione che anche il buon Haruki stia menando il can per l'aia, ma in genere è un maestro nel creare aspettative, adombrare sviluppi, proiettare ombre e suggerire minacce trovando infine scioglimenti che acquietano il lettore senza essere pienamente esplicativi. Una tecnica di spostamento progressivo che, per l'appunto, può ricordare il discorso sui limiti matematici.
È abbastanza chiaro?
Ci sono altri autori di questo genere?
Fuori dal seminato del fantastico c'è Leonardo Sciascia.
Come «Leonardo Sciascia»?
Ma scherziamo?
Un autore tanto tenacemente realistico da risultare talvolta quasi iperreale.
Ma Sciascia è uno che riesce a rappresentare l'ambiguità profonda e inerstirpabile della realtà, capace di scovare l'enigmatico e l'inesplicabile anche in territori apparentemente molto lontani dalla narrativa come la politica e l'economia.
Qualunque cosa raccontata da Sciascia perde la certezza - ovvero la banalità - per acquisire i contorni non del tutto definibili dell'evento unico. Sciascia fa un uso accortissimo del dubbio, ne fa un elemento centrale del suo narrare. E il dubbio (... E se?...) è un motore narrativo di formidabile potenza ed efficacia.
Il dubbio è la base dell'intelligenza.
...
E adesso arriviamo al bersaglio.
Il problema è che se il romanzo o il racconto possono e devono essere non perfettamente esplicabili per il lettore, lo DEVONO essere per l'autore, anche se non completamente almeno a grandi linee. L'autore deve essere cosciente perlomeno degli enti che maneggia e delle suggestioni che crea ed evocarle con attenzione.
Se risveglio nel lettore il timore per l'artificiale e il tecnologico sfuggito al controllo umano devo, prima di tutto, esserne cosciente. Quindi devo creare un punto A dove questo timore prende corpo, disporre un punto B nel quale questa minaccia si dispiega e raggiungere un punto C di equilibrio nel quale tutti i possibili sviluppi sono aperti e possibili.
Probabilmente ciò che mi è accaduto è stato l'aver ulteriormente preso coscienza delle possibilità e delle implicazioni del romanzo. Ho soltanto salito un gradino, nulla di più, ma un gradino importante.
Sono pronto a giurare che si tratti di un processo e non di un fenomeno, tuttavia. Il che vuol dire che ci dev'essere stata una parte della mia mente impegnata giorno e notte a rigirarsi il romanzo de settembre in poi.
Non posso trasformare il tutto in una ricetta e regalarla, comunque. Nemmeno venderla. E non devo produrre ricette a comando visto che nessuno mi paga.
Se qualcuno pensa che un romanzo sia materia facile da maneggiare fino alle sue contorte e complicate implicazioni è probabilmente molto più bravo di me.
Oppure non sa di cosa parla.

[1] Klog il Boldhovin è una creatura di fantasia anche se non l'ammetterebbe mai. Nella fattispecie si tratta di: «una strana creatura di bassa statura, dalle grandi pupille verde foglia, il volto e le mani dalle dita lunghe coperti da una soffice peluria gigia, le labbra nere ed i piedi molto lunghi [...] nata dal ventre di velluto e seta di una gwellyniuin e dall’arnese infaticabile di un erbano».
Ma questa è tutta un'altra storia...

9.4.08

Record store day


Un minimo sospetto di fariseismo tra i musicisti sostenitori dell'iniziativa è difficile da cancellare, ma è comunque impossibile - soprattutto per me - non essere solidali con i gestori dei piccoli negozi di dischi americani che il prossimo 19 aprile cercheranno di risvegliare l'attenzione dello steminato pubblico della musica di tutto il mondo sulla sorte del piccolo commercio musicale.
I piccoli negozi di dischi chiudono. Ormai da molti anni, per la verità. Adesso il ritmo è forse aumentato, ma provate un po' a fare il conto di quanti negozi di dischi sono scomparsi qui a Torino negli ultimi anni. Anche prima, molto prima della comparsa del babau di internet e del downloading più o meno gratuito.
I negozi di dischi non riescono a pagare l'affitto dei locali che occupano, soprattutto se si trovano nei centri storici.
Scrivo «i negozi di dischi» ma potrei scrivere «la librerie».
Vengono spinti verso la periferia e poi dimenticati, virtualmente uccisi.
Molti negozi di dischi avevano personale qualificato, capace, dotato di senso critico e di indipendenza di giudizio.
Qualcuno è andato a lavorare nelle FNAC, molti chissà che cosa sono andati a fare.
Prima ancora è stata la musica, come la lettura, a essere spezzata, spezzettata, spezzatinizzata facendo di brani musicali anche dignitosi jingle più o meno dementi per le suonerie dei telefonini.
La musica a scuola non si insegna e non si impara. È diventata uno strumento per provare a emergere nella palude della sfiga perpetua e, in subordine, per cuccare. Che sia buona e originale conta poco.
«Ho scoperto un sacco di buona musica proprio attraverso il negozio di dischi sotto casa», dice Peter Gabriel.
Philip K. Dick, nonostante Fanucci e i suoi improvvidi ripescaggi uno dei grandi scrittori del Novecento, è stato commesso in un negozio di dischi. Ne parla molto spesso nei suoi romanzi.
«Ho visto i negozi indipendenti evaporare in tutta l'America e l'Europa. [...] Se li perdiamo, saremo molto più poveri. Ogni volta che acquistate un disco in uno di questi posti è un soffio contro l'Impero», dice Henry Rollins, rocker e poeta.
Ma mantenere un buon assortimento di dischi costa un pacco. E le vendite sono scarse, disperse, insufficienti. Escono ancora ottimi dischi ma hanno problemi di visibilità, di promozione, di informazione. Le Major puntano sui big ma anche sugli interpreti (non sopporto Joss Stone e detesto Michael Bublé, abbiate pazienza) sul remake, sul riarrangiamento del già sentito, sullo sfruttamento dei grandi cataloghi. La musica indipendente ha soltanto internet. Il web che Sony ecc. presentano come il carnefice della musica ne è in realtà l'ultimo e unico spazio liberato.
«Che sia nel mondo fisico oppure in rete, il valore di un negozio di esperti non passerà mai», dice ancora Peter Gabriel.
Sono d'accordo, ci mancherebbe, ma «La Repubblica» che spara la notizia dell'iniziativa del 19/4 a tutta pagina si guarda bene dal fare qualche riflessione che non sia ovvia o superflua sul problema della distribuzione. E riesce a infilare nell'articolo un riferimento alle passioni musicali di Simona Ventura - una specie di Mucca Carolina paracadutata nel Parnaso - e le irritanti frenesie e insofferenze dell'egolatra Sandro Veronesi. Uno che una volta, prima di diventare un monumento alla memoria di se stesso, è stato uno scrittore.
Le librerie italiane chiudono anche con i lettori che scaricano da internet a quota zero virgola zero zero qualcosa del totale dei lettori. Proprio come i negozi di dischi del centro, sostituiti dai soliti malefici marchi di abbigliamento.
A massacrarli anche l'infame stupidità dell'IVA al 20% sui dischi, il margine basso, la demente politica dei prezzi praticata dalle case discografiche.
Ma Veronesi dice che il problema è nel supporto. Che quando c'erano gli LP, allora sì.
Un punto di vista da antiquario borbonico o da austriacante. O da collezionista con la puzza sotto il naso.
Ma un articolo non è tale senza la complicità tra il giornalista superficiale e neghittoso e il tuttologo narciso.
Mi piacerebbe, comunque, che anche ai librai italiani saltasse in mente la possibilità di fare un giorno del negozio di libri. Magari chiedendo a qualche scrittore (non Veronesi, che ci direbbe che il libri una volta erano degli in-folio, allora sì) di scrivere qualcosa sulle librerie. Da regalare ai lettori, come fanno alcuni musicisti americani che regalano brani inediti in occasione del Record store day.
Ma ho paura di cosa scriverebbero i giornali per presentare l'iniziativa.
Ho paura dell'inevitabile intervista ad Augias o delle meraviglie della collezione di libri di Dell'Utri. Del parere di Antonio D'Orrico o del complicato rapporto con i libri di Elisabetta Canalis.

7.4.08

Sempre più indeciso

A una settimana dalle elezioni...
No, calma. Un momento.
Pensavo di riuscire a superare l'increscioso momento delle elezioni senza parlarne. Ma non ce la faccio. Chiedo scusa a mio nonno materno che si è fatto pestare dai fascisti per permettere al suo scapestrato nipote di esercitare il diritto di scegliere chi governerà l'Italia nei prossimi cinque anni. Gli chiedo scusa perché questo nipote si è piantato come un motorino con lo zucchero nel serbatoio e non sa se e come andare avanti. E si chiede spesso se è proprio il caso di perdere una mezz'ora di una domenica per andare a rigettare in un'instabile cabina invece che farlo comodamente in casa propria.
Faccio parte di quel 30% di elettori italiani che non ha ancora deciso un tubo. Ovvero, ha via via scartato le possibilità fino a restare con nulla in mano. Sono al terzo o quarto giro e l'esito non promette di essere diverso. Questo no, questo nemmeno, questo nemmeno morto, questo mi fa ridere solo a vederlo, questo mi fa pena, questo mi fa venire il nervoso, questo è infantile, questo è troppo scemo, questo è puro/duro e patetico... Non che la volta scorsa abbia votato convinto o fiducioso, per carità, ma c'era da buttare fuori lo psiconano, fare un po' di pulizia e quindi...
Stavolta mi dicono che bisogna fermarlo, lo psiconano.
Lo dice Flores d'Arcais e lo dice anche Camilleri.
E uno dice: «Beh, ma kekzz avete fatto in questi due anni? Com'è che lo psiconano è ancora lì? Com'è che tutte le volte debbo partire a salvare la patria mentre voi non cavate un ragno dal buco?»
Che poi il Cavaliere Insistente è un po' floscio, in questo giro. In cinque anni di governo ha potenziato l'Azienda ed è riuscito a non finire in galera. Insomma, ha fatto en plein e ha i riflessi appannati da dopopasto. Anche perché due anni di governo Prodi non han cambiato nulla ma proprio nulla, ai fini di B.
La sua corte non è sazia, questo è vero, e si tratta della perenne e paludosa mala genia post-democristiana con riporti e aggiunte di fascisti pentiti (di non aver cominciato prima a guadagnare) e di piccoli e grandi potenti locali che vivono di spesa pubblica.
Gente che è da tempo arrivata, piantato le tende e messo su il suo banchetto anche nella cosiddetta sinistra, comunque.
È un'illusione ottica, che lo psiconano sia il vero problema.
Il vero problema, a guardare appena fuori dalle frontiere, è che sta vertiginosamente cambiando il quadro e il modello di sviluppo. Che gli USA non sono più il motore di niente, che entro venti o trent'anni bisognerà non solo e non tanto smettere di usare il petrolio, ma proprio smettere di produrre per un futuro che non potrà comunque più essere simile al passato.
Scrivo fantascienza, tra le altre cose.
E nell'ultimo romanzo di sf che ho scritto e che partecipa all'edizione di quest'anno del Premio Urania (qualcuno tra i frequentatori di questo blog l'ha persino letto) immagino la conquista dello spazio come disperata fuga dalla Terra. Come esodo verso il nulla di un'umanità disperata, a bordo di navi guidate da cosmoscafisti senza scrupoli. La Diaspora, l'ho chiamata. La partenza da un'Antartide senza più molto ghiaccio e senza leggi.
Mi preoccupo di questo, sinceramente. Molto di più del paventato ritorno dello psiconano. Ancora meno, se possibile, mi frega di sostenere un cinefilo imbecille che scambia il suo vetusto sogno americano con la realtà, tanto è vero che si cova un progettino di repubblica presidenziale che è una pura bestemmia in un paese che ha inventato il fascismo e che soffre di un complesso di Edipo mai risolto. Ma Veltroni è la superficialità fatta uomo, il gesto al posto del pensiero, l'apparenza invece della sostanza. Sta facendo un figurone, si dice. Meno male. È l'unica cosa che sa fare.
A volersi preoccupare di quello che accadrà tra un mese, resta soltanto da dire che, siccome è molto probabile un pareggio almeno al senato, dovranno trovare un accordo di un qualche genere. Fiutando l'aria direi che si tratterà di un accordo che perpetuerà queste facce, TUTTE, almeno fino alla prima, grossa crisi planetaria. Poi scapperanno tutti, come fecero i Savoia. Senza nemmeno poter approdare a una possibile Brindisi. Magari in Groenlandia. E lasciandoci qui ad arrangiarci dopo aver comentificato coste, arenili e fiumi.
Ma tranquilli, fino a quando si riuscirà a dare la sensazione che tutto vada come sempre potremo contare su una brillante carriera nell'industria turistica, l'unica che resterà in Italia.
Cominciamo a provare gilé con stampato il nome del locale e crestine bianche. E cerchiamo di imparare a portare un vassoio con quattro bicchieri sopra senza rovesciare tutto.
Quando arriverà il mare troverà i più fortunati a copulare sotto il bancone con l'ennesima ricca turista cinese.
Siccome scrivo fantascienza, comunque, penso che il problema sia nel non credere nel futuro.
Mentre dovremmo ricominciare a ragionare sul futuro, a vederlo. Senza ingenue illusioni ma anche senza terrori.
Dovremo cominciare a immaginare una vita che non ci apparterrà per motivi anagrafici (fatta salva la profezia di Clarke, beninteso), ma che potrebbe essere possibile. Basta cominciare a immaginare. A desiderare. A sognare. I sogni dimenticati sono la zavorra che porta a fondo.

3.4.08

Prestati alla letteratura

Dando un'occhiata alla cronologia dei post ho notato che a questo punto dell'anno ho già raggiunto il numero totale di post scritti nell'intero 2007. Ho più tempo? No. Semplicemente ho deciso di trasformare il blog in un laboratorio per gli articoli che successivamente scriverò per la rivista LN-LibriNuovi. Laboratorio nel senso che posso postare qui anche semplici idee che poi non utilizzerò, considerazioni poco sistematiche o mal documentate, trovate assurde o pistolotti nati dal malumore.
Ciò che segue si potrebbe probabilmente far rientrare nell'ultima categoria (... pistolotti) o rivelarsi un'idea brillante per il prossimo «Luna storta». Di notevole ha il fatto che, come promesso a un certo punto del 2007, parlerò di libri senza averli letti. Linea di condotta che potrà anche apparire balzana ma che nasce da due considerazioni:
1) di gran parte libri (e degli autori) dei quali parlerò me ne importa meno di nulla.
2) una volta su due leggo per recensire ma, in questo caso, cerco libri significativi o comunque libri che mi incuriosiscono o che, attraverso legami misteriosi o palesi, possono dialogare con libri che ho già letto.
«I lettori sono il tramite attraverso il quale i libri dialogano tra loro», scrive Umberto Eco.
Quando vuole Eco sa dire cose notevoli.
Avevo detto due considerazioni, ma me ne viene in mente una terza:
3) non parlo qui di libri in quanto media artistici ma come epifenomeno dell'industria culturale. Quindi leggerli sarebbe perfino fuorviante.
Esaurita questa lunga premessa, vengo al punto.
Siete in libreria.
Marciate verso la sezione novità.
(bel problema, nelle librerie adesso esiste quasi soltanto la sezione novità, vabbé)
Sottosezione: «Autori italiani, narrativa».
Ovviamente troverete soltanto libri editi da grandi gruppi editoriali, Mondadori, Rizzoli ecc.
Apritene uno e leggete il risvolto di controcopertina (3a di copertina) o semplicemente la controcopertina. La bio dell'autore, insomma.
Bastano le prime righe:
«È autore e regista televisivo»
«Insegna Analisi del film all'Università di Roma»
«Giornalista, autore televisivo e radiofonico»
«Scrive da molti anni sul “Corriere della Sera”»
«Insegna alla New York University»
«Presentatore televisivo e speaker radiofonico»
«Giornalista, è stato deputato per tre legislature»
«Autore e consulente televisivo»
«È giornalista e critico teatrale»
«Insegna presso l'Università di Napoli»
...
Mi fermo qui, tanto avete già capito.
«Ma di scrittori non ce ne sono?» Viene da chiedersi.
Qualcuno c'è.
Pochi nel gruppone dei grandi editori, qualcuno in più tra i medi editori.
Si riconoscono perché hanno note bio in genere più brevi - al massimo allungate dai titoli dei romanzi precedenti - e non insegnano, non collaborano, né sceneggiano, conducono, presentano, scrivono su, vengono consultati a proposito di o eletti.
Non si parla qui di nomi di grandi narratori («di italiani ce ne sono?»; «Zitto!») ma di quel popolo medio di narratori medi che ammiccano - illudendosi di risultare interessanti & originali - dalla quarta di copertina del rilegato Mondadori, Bompiani o Rizzoli.
Tutti autori «prestati alla letteratura» che, tra una sceneggiatura, una lezione universitaria e un'apparizione televisiva trovano il tempo di distillare la propria anima sensibile e riversarla tra le pagine di un libro.
Una vocetta dentro di me chiede: «E restituirli al loro legittimo lavoro, no?»
La ignoro.
A voler essere positivo e propositivo mi stupisco, piuttosto, della facilità con la quale certa gente transita dal marketing insegnato al marketing praticato, dalla teoria della sceneggiatura alla sceneggiatura di se stessi. Mi stupisco molto meno, invece, del fatto che si tratti:
a) di soggetti che hanno già rapporti professionali con il mondo dei media, del quale l'editoria libraria è un'appendice scarsamente rilevante da un punto di vista economico.
b) di soggetti in possesso di una propria più o meno rilevante notorietà in grado di lubrificare le vendite.
c) di soggetti depositari di un qualche indistinto e nebuloso potere di richiesta e/o di ricatto.
Mi vengono in mente due cose contemporaneamente.
Non è grave, mi capita spesso.
La prima è una statistica - una volta tanto significativa - a suo tempo pubblicata su «L'autore in cerca di editore», edizioni La Bigliografica. Significativa perché La Bibiografica è il centro studi dell'AIE, Associazione Italiana Editori e raccontarsi balle da soli non serve a niente.
In questa si mostrava come il 90% dei nuovi autori pubblicati avesse a vario titolo rapporti professionali con mondo editoriale prima della pubblicazione.
Ricordo perfettamente che quando lessi questa statistica mi feci l'appunto mentale di lasciare perdere l'invio di manoscritti agli editori.
La seconda riguarda un breve articolo di Luca Oleastri pubblicato sul blog parolando, un franco e interessante «Vademecum per lo scrittore esordiente». Premesso che sono d'accordo quasi al 100% con quanto scrive Oleastri, suggerirei l'inserimento di una breve appendice al suo scritto riguardante «personaggi più o meno famosi con l'ansia creativa» ai quali fa da contraltare «editore disponibile a pubblicare qualsiasi scemenza che si venda da sé grazie al nome dell'autore».
In questa Italia neofeudale penso nessuno abbia di che stupirsi.
La terza (lo so, avevo detto due, ma ho un cervello disorganizzato che viaggia a diverse velocità e stenta a coordinarsi e capirsi da sé) è che se siete - narrativamente e non solo - dei nessuno e vi stampate un libro per conto vostro siete dei coglioni mentre se telefonate a Mondadori e ve lo fate stampare da loro siete dei fighi. Narrativamente dei nessuno, s'intende, ma chi volete che lo dica? Se siete giornalisti difficilmente ci sarà un collega che si esporrà scrivendo: «Il libro di Marco Gianmarco Marcolino fa schifo», anche perché un giorno anche il collega si sentirà chiamato dall'arte eccetera. Se lavorate nella stessa holding a un piano diverso, nessuno vi leggerà ma nessuno perderà tempo a sputtanarvi. E se insegnate all'Università (o siete ex- o proto-onorevoli) potrete sempre contare sull'omaggio codardo dei valvassini e sul silenzio degli innocenti.
In quanto, infine, ai romanzi pubblicati come saldo (o buonuscita) di favori sessuali concessi... le voci in proposito sono sempre - ovviamente - poco attendibili ma numerose e ghiotte. Essi non costituiscono, comunque, una quota particolarmente significativa della produzione editoriale. E non è detto - parlando di queste opere, figlie primogenite dell'eterogenesi dei fini - che si tratti per certo di disgustosi bidoni. Amanti di ogni sesso, infatti, non sono necessariamente tromboni ultranarcisi come i giornalisti, i docenti universitari o i politici.
Ultima cosa: l'elenco prima riportato è genuino fino all'ultima riga, desunto da un campione di libri che ho qui in libreria. Se non vi fidate potete fare una campionatura personale.