25.12.07

Odiare il Natale?


Nonostante l'immagine non odio il Natale. Anche perché, essendo libraio, mi dà da mangiare e sputare nel piatto eccetera non solo non è di buon gusto ma non è nemmeno intelligente.
La mia amica Francesca diceva che il Natale ha di buono la famiglia e, negli incontri di famiglia, il tentativo che più o meno fanno tutti di comportarsi amabilmente. È abbastanza vero, anche se debbo dire che alcuni dei litigi familiari più epici che ricordo sono avvenuti in occasione delle festività. Già, perché a volte è proprio la lontananza a tenere sotto la cenere certi fuochi.
Natale è una delusione.
Leopardiamente parlando ha di bello ciò che lo procede: l'attesa e la preparazione. Il «viaggio» e non la destinazione. Di per sé il 25 dicembre è un giorno nel quale si finisce per mangiare comunque troppo - per noia o per albagìa - si è obnubilati fin dalle prime ore del pomeriggio e si tira sera con una vaga nausea - fisica ed esistenziale. Il giorno di Natale ha qualcosa di malinconicamente definitivo, è una metafora o, meglio, un'immagine della nostra condizione. È la delusione perfetta, socialmente accettata e tollerata.
E tutta la kermesse ultraconsumista che lo precede? Non sarà responsabile in qualche modo di questa condizione? Come qualsiasi cosa troppo desiderata che si rivela in definitiva una delusione?
Certo, certo. Come no.
Posso essere d'accordo per pigrizia mentale, ma in realtà non sono un francescano di ritorno né un teodem. Penso che un essere umano medio in condizioni standard faccia ciò che è in suo potere per vivere meglio possibile, divertendosi e viziandosi e cercando di garantire le stesse condizioni ai suoi eredi. Il guaio è che il pianeta non può offrire questa ricchezza a tutti, ai sei miliardi e passa di bipedi che lo abitano. L'abbiamo capito da poco e ho timore che i prossimi decenni avranno qualcosa di sinistramente simile all'ultima mezz'ora del film «Titanic» (quello di Negolescu, con Barbara Stanwyck e Robert Wagner, che avendo visto da bambino ricordo molto meglio) ossia un affannarsi a cercare di trovare un posto sulle scialuppe di salvataggio. Ovvero a cercare di salvare il proprio allegro angoletto in un mondo dove le risorse diminuiscono troppo rapidamente.
Nulla di più facile che le strippate natalizie - con rincorse a regali e soldi sprecati - tra un paio di decenni siano soltanto un ricordo disperato, di quelli che si raccontano a bimbi increduli.
Quindi godiamoci in santa pace la nostra malinconia da post-coitum, prendiamo nota da subito che quei tempi sono finiti e mettiamoci una pietra sopra. Se non altro saremo stati dignitosi senza diventare bigotti come certi fondamentalisti.

22.12.07

A che cosa serve un editore? Capitolo 1

Colgo l'occasione offerta da un intervento di Antonella Cilento ripreso dal blog di Massimo Maugeri (letteratitudine) per iniziare una riflessione che, come mio costume, risulterà tutt'altro che sistematica e puntuale. Chi fosse interessato sia paziente, spero che alla fine le mie riflessioni si rivelino di una qualche utilità per qualcuno.
Comincio dall'inizio: chi è Antonella Cilento? Italiana, scrittrice, piuttosto raffinata e non «facile». Ma – attenzione! – il contrario di «facile», almeno nell'italiano di questi anni non è «difficile» e nemmeno «impegnativo». Il vero contrario è «serio», ovvero «personale».
Del suo interessante intervento riporto qui le prime righe, tanto per darne un assaggio:

«Ormai per essere pubblicati bisogna passare un casting. Sei interessante? Sai parlare in pubblico? Sei un attore/attrice? Sei strano/a? Trasgredisci, porti le giarrettiere, sei sexy? Hai la faccia giusta, incuriosisci, puoi andare in tv, hai i denti a posto? Manca poco al Grande Fratello degli scrittori, in questo spaventoso vuoto pneumatico della progettualità editoriale. Da tempo non si leggono i libri ma si guardano le facce degli scrittori, li si chiama, nelle riunioni editoriali o nelle cene fra addetti, per cognome: ce l’ho, ce l’ho, mi manca. Siamo figurine dei calciatori. E poiché non tutti vendiamo le cifre che agli editori fanno comodo, siamo spesso calciatori di serie B. Quello non lo voglio perché c’ha troppa storia (cioè ha segnato poco, un’intera stagione in panchina), quella la tengo come fiore all’occhiello anche se mi va sempre in fuori gioco. Ovviamente nell’editoria (italiana) non ci sono in gioco le cifre del calcio, ma hai voglia a star lì a scrivere davvero, a lavorare tutti i giorni, a non fare la velina della letteratura: hai perso. C’è una schiera di bellocci, furbastri e manovratori che ti passa avanti.»

«Vuoto pneumatico di progettualità editoriale» è la frase chiave del discorso della Cilento, per lo meno ai fini di questo scritto.
Ma adesso cambio blog e autore.
Andiamo dalle parti di Elvezio Sciallis e del suo blog (il cui indirizzo trovate nella colonna a dx di questo post).
Tempo fa (3 dicembre) Elvezio ha postato un intervento «Editori a pagamento», nel quale, tra l'altro, scriveva:

«Piccolo post per comunicarvi che da questo momento in poi non intendo più parlare, scrivere news o recensire prodotti in qualche modo collegati con gli editori a pagamento, print on demand, autoproduzioni e satelliti vari di questa protogalassia.[…] I motivi che mi hanno portato a questa decisione sono molteplici e hanno lavorato a lungo.
Non hanno a che vedere direttamente con la qualità del prodotto, alcuni esordienti pubblicati da editori a pagamento hanno stoffa e idee, manca loro un sarto supervisore e se non si sbrigheranno a capirlo finiranno con il cucire per una vita i saldi al grande magazzino.»

Mi piace giustapporre i due interventi anche se, in apparenza, vanno in direzione opposta. Se per Antonella la professionalità dell'editoria maggiore si è ormai profondamente snaturata, tanto da renderla irriconoscibile, Elvezio, invece, è proprio alla professionalità fa appello quando invoca la necessità di un «sarto supervisore».
Ma esiste, tale sarto?
«Ti trovi a discutere con uno sbarbatello che ne capisce meno di te ma fa lo stesso le pulci al tuo testo senza nemmeno arrivare a capirlo».
Relata refero. Questa frase è stata pronunciata da un mio amico - scrittore di lunga data, vincitore del Premio Calvino e autore di romanzi e testi teatrali - nel corso di una conversazione con la sua agente editoriale.
Il sarto, ovvero l'editor, è evidentemente una figura sempre meno presente e soprattutto sempre meno qualificata nell'ambito dell'editoria maggiore.
Mi viene in mente André Schiffrin che nel suo primo libro, Editoria senza editori denunciò il crescente peso, all'interno delle case editrici, del settore commerciale su quello editoriale.
Una prevalenza che probabilmente può, da sola, spiegare parecchie cose dell'intervento di Antonella Cilento. Ma essendo in circolazione da un bel po' di tempo ho imparato a fidarmi poco delle spiegazioni troppo facili. Resta il fatto che «formare» un buon editor non è cosa di pochi mesi né attività da corso di formazione regionale...
E gli editori hanno interesse a formare figure altamente professionali (e conseguentemente abituate a ragionare di testa propria) come un «editor»?
Ho più di qualche dubbio, anche se le eccezioni non mancano.

Un momento.
Da come sta procedendo il discorso parrebbe proprio che Elvezio abbia tragicamente torto, pur avendo, a mio parere, in gran parte ragione.
Sul ragionamento di Elvezio mi riprometto di ritornare al Capitolo 2, provando anche ad ampliarlo un po'. Per il momento mi fermo qui, al problema della crisi qualitativa (evidente per chiunque abbia occhi)della letteratura italiana.

14.12.07

Confitto interiore (sparare a Umberto Eco?)

– Ma me lo dici tu a che cosa serve un blog se poi stai delle intere settimane senza scrivere neppure una parola?
– Ma tu lo sai che lavoro faccio? Ma tu lo sai che avevo la contabilità+lafatturazione+ lacorrezione& impaginazione di LN 44 e di FM11+deicoccidarimettereinsieme+ unromanzodaspedire a un concorso che tanto ne farà coriandoli+... no, basta non mi viene in mente altro.
- Niente di nuovo, insomma. La contabilità la fai per deprimerti, tanto lo sai già che la libreria è in perdita. La fatturazione... che tanto poi ti pagano a babbo morto. LN 44 e FM 11: i cataloghi delle buone intenzioni. Quando mai hai ottenuto uno straccio di segnalazione, di presentazione... quando mai vi hanno considerato - un quotidiano, un settimanale, la radio, una televisione locale - anche solo per dire: «cretini!». I cocci... vabbé. In quanto al tuo ultimo romanzo, lo sai che cosa ne penso: è fantascienza. Scritta in italiano. Una cosa da ridere. E comunque non va bene, lo sai meglio di me. Troppe immagini e poca azione. E sì che te l'hanno anche scritto. Non va bene. Ti preoccupi dei personaggi, dei luoghi, dei dialoghi e non hai ritmo...
- Ma un po' di ritmo nella scrittura, almeno quello, c'è.
- Un par di ciufoli, come dice il nostro amico Gordiano Lupi. Sai chissenefotte del ritmo, cioé dello stile della scrittura, in un romanzo di fantascienza? Ma da dove arrivi? Frasi brevi, pochi pensieri, zzzzoot! Uiiiinzzzz! Kerbluummm! «Stiamo perdendo l'allineamento subparallattico, comandante». «Uhm, attivate il campo di macrocollisione».
– Non vuol dire un cazzo.
- E allora? La fantascienza in forma scritta è diventata la parente povera, praticamente pezzente, di quella cinematografica. Immagina un montaggio cinematografico skizzato, quando scrivi, non fare la Emily Bronte (ci vanno i due puntini sulla e, lo so, ma non li trovo) della fantascienza. L'unico risultato sicuro è che gli uomini non ti leggono e le donne nemmeno perché non leggono fantascienza.
L'unica cosa decente che hai per le mani - parlo del nuovo blog di ALIA - su quello non hai ancora scritto nemmeno la risposta alla risposta a un post.
- Meditavo su cosa scriverci, per la verità.
- Te l'ho appena detto. Ti metti lì con i piedi sul tavolo e dichiari: «La letteratura fantastica deve imparare dal cinema. Se non si sa mutuare il linguaggio cinematografico in letteratura il fantastico è morto».
- Ma non è vero, cribbio. La letteratura ha un suo linguaggio. Tempi, forme, possibilità che il cinema...
- Sei patetico. La letteratura come linguaggio è morta, defunta da un bel pezzo e sta a puzzare sul tavolo di CSI Miami in attesa che qualcuno la apra come un merluzzo e dichiari: «morta di inedia, stenti e di una mezza dozzina di malattie». Lo sai no come legge ormai la gente? Non lo vedi? Non te ne stai dietro il banco di una libreria?
- Qualcuno che SA leggere è rimasto.
- Sempre meno. Lo sai benissimo. E poche curiosità, nessuna voglia di mettersi in gioco. Pappine precucinate, al massimo sperimentazioni a bassa voltaggio. Ironiche citazioni e giochi eruditi. Mi piacerebbe sparare a Umberto Eco, per dire.
- E che ha fatto, poveretto?
- Poveretto? Ci prende per i fondelli fin dai tempi del Nome della rosa, ecco che cosa fa. Ci presenta uno Sherlock Holmes vestito da frate e sulla trama di un gialletto innesta un po' di divulgazione filosofica, qualche battuta sapida e sapiente, elementi di storia e di politica per consegnarci il post-romanzo definitivo. Quello dove non esiste nulla di originale ma è tutto, integralmente, già letto e già digerito. Ma in fondo faceva parte del Gruppo '63. Aveva avvisato che il romanzo era morto già allora. Solo che invece di essere coerente ne ha scritto uno. Per celebrarne la morte. E via, tutti a comprarlo perché è furbo e ti fa sentire furbo, è colto e ti fa sentire colto, è astuto e ti fa sentire astuto. Per quattro soldi è un gran risultato.
- Te la prendi tu la responsabilità di questa intemerata?
- Ce la prendiamo noi.
- Ma... io mi sono divertito a leggere il Nome della rosa. Certo, la letteratura è un'altra cosa. Ma è un romanzo da compagnia. Non qualcosa che ti cambia la vita, ma comunque un piacevole incontro.
- Anche i successivi?
- Ehm... no, i successivi no. L'ultimo poi, la Regina Loana o qualcosa del genere,è stucchevole come una caramella già succhiata.
- Bisogna sparare a Eco, te lo dico io. E a tutti i post-qualcosa.
- Sono un non violento, io.
- Io no. Tutti al muro. All'alba, quando fa ancora freddo e quasi sei contento di non dover più battere i denti.
- Cribbio. Ma sei contorto, eh?
- Soltanto stufo. Vorrei leggere dei libri nuovi, non avanzi ricuciti e ricucinati.
- Hai ragione. Beh, qualcosa l'abbiamo scritto, non trovi.
- Già. Mi chiedo a chi interesserà.
- Me lo chiedo anch'io. Ma non è poi molto importante.